Pinter, un teatro nella zona rossa dell’anima

Al grande drammaturgo inglese il Nobel per la letteratura. «Nelle sue opere svela il baratro sotto le chiacchiere di ogni giorno e costringe a entrare nelle chiuse stanze dell’oppressione», questa la motivazione dell’Accademia di Svezia. Dal 1957, un impegno radicale nel teatro, nel cinema, nella televisione e nelle piazze contro ogni sopraffazione
GIANFRANCO CAPITTA,

La sua prima reazione al telefono è stata molto pinteriana «Sono assolutamente senza parole, spero solo che mi tornino per il giornodella premiazione». Harold Pinter può ben festeggiare, nella sua casa di Holland Park, l’attribuzione del Nobel per la letteratura, bevendo champagne o qualche buon bianco italiano. Con la sua flemma molto british, e il candore entusiasta che a 75 anni appena compiuti ha mantenuto intatto. Candidato da diversi anni, dopo aver ricevuto i più prestigiosi riconoscimenti di area anglosassone, ora entra in quella scia di grandi scrittori che sono anche delle grandi persone pubbliche, da Dario Fo a Elfriede Jelinek. I suoi commenti lapidari sono ficcanti sempre, quasi come i suoi testi per la scena: dal «Criminale!» gridato ai tre B. dell’aggressione all’Iraq, Bush Blair e Berlusconi, all’amarissimo «Inevitabili, la politica di Bush e Blair non poteva che partorire questo» con cui ha commentato gli attentati di luglio alla metropolitana londinese. Parole che ricordano da vicino quella scrittura scarna, sospesa, piena di pause e di silenzi, che ha cambiato nella seconda metà del `900 il linguaggio della scena, e non solo. Parole che attingono al quotidiano, ai rapporti tra le persone, ma che sulla pagina diventano assolute, sostanza stessa dei rapporti. Rapporti di forza e di violenza, di paura e di attesa. Rapporti sempre conflittuali, nella famiglia, nel caseggiato, nei salotti e nelle alcove, tra le librerie o nel living di una umanità che si ritiene evoluta, ma dove vigono le stesse relazioni brutali che poi governano l’intera società, le nazioni, il pianeta.

Tutte le formule che si sono succedute negli anni per definire la sua scrittura, da teatro dell’assurdo a teatro della minaccia, della memoria o dell’ambiguità, sono tutte labili, parziali e precarie. Anche se quei testi continuano a trionfare sui palcoscenici di tutto il mondo. Dalla primissima Stanza, che nel 1957 gli fece abbandonare le massacranti tournée in provincia come attore, agli immediati successi del Guardiano, Festa di Compleanno, Ritorno a casa, Terra di nessuno, Tanto tempo fa, il quasi proverbiale Tradimenti giocato sui ricordi a ritroso di una coppia assai trendy nella swinging London, (ma anche della scrittura cinematografica nel frattempo era diventato maestro).

Quando negli anni ottanta ha deciso di rappresentare apertamente situazioni «politiche», dove la sopraffazione è quella dei regimi e delle classi, qualcuno ha fatto finta di stupirsi. Parlando con lui lungo gli anni, Pinter mi ha spiegato di aver semplicemente messo a fuoco i nodi irrisolti di sempre, le ombre che accompagnano ogni creatura, e che a livello di massa si fanno violenza prevaricatrice.

Con la sensibilità dell’artista e del grande scrittore, dando corpo con le parole a quelle creature che lui racconta venirgli incontro d’improvviso, dopo un incontro o dopo aver vissuto una situazione, è riuscito a prefigurare quello che al momento della scrittura non appare mai subito chiarissimo, o forse è addirittura incredibile. Il linguaggio della montagna nasce nel 1988 dal viaggio fatto con Arthur Miller nel Kurdistan turco per conto di Amnesty International, e mostra sevizie incredibili nel carcere di un regime militare. Non era ancora Abu Ghraib, ma davanti alle foto che abbiamo visto dopo, la prima citazione era quella. Lo stesso per Party Time, del `94: un club esclusivo e gaudente, occupato solo di fitness e buona cucina, ma che poi si scopre asserragliato dentro una sorta di «zona rossa», mentre fuori le masse manifestano e fanno casino («è stato così difficile venire qui» si lamenta una signora elegante in quel club che sembra partito di governo). Ma alla fine ci scappa il morto e nel finale come un fantasma appare un ragazzo, ucciso dalla violenza poliziesca. Un thriller da alta società, che dieci anni prima racconta fedelmente il G8 di Genova.

Contro la guerra e le dittature Pinter non si è mai risparmiato, anzi ha usato ogni occasione ufficiale o di riconoscimento della sua arte, per veri proclami, contro ogni guerra. Lo era contro quella del governo indonesiano contro Timor est, ma anche contro quella «umanitaria» nella ex Jugoslavia. Contro il governo di Washington ha sempre tuonato: la sua invettiva è risuonata a Firenze in occasione di una laurea honoris causa solo il giorno prima dell’11 settembre. Per chi ne fosse rimasto turbato, ha raddoppiato la dose a Torino, un anno dopo la caduta delle Torri gemelle. E il tempo, e i maneggi e gli affari loschi di Bush, gli davano inesorabilmente ragione. La maggiore curiosità è ora per quello che potrà dire il 10 dicembre a Stoccolma, ai placidi reali di Svezia.

La sua visione politica del resto non è per niente astratta, o velleitaria o salottiera. Non solo per la sua presenza da sempre a tutte le manifestazioni pacifiste a Londra (o a dribblare i picchetti militari thatcheriani quando si trattava di portare sostegno e cibo ai minatori in sciopero), ma per come è intrecciata alla sua formazione e alla sua vita. E’ indimenticabile il racconto della sua infanzia attraverso le casette operaie di Hackney, alla periferia orientale di Londra, dove è cresciuto, lui di famiglia ebrea sefardita, il padre sarto, in mezzo a squadracce di giovani fascisti, dopo aver scampato i bombardamenti tedeschi in un ricovero infantile sulle scogliere di Dover. Quell’impronta genetica gli è rimasta, incollata addosso assieme a una assoluta sobrietà di modi, così come il tono ha la scuola dei grandi testi shakespeariani che recitava da giovane. Ha affrontato con successo, soprattutto agli inizi, la radio e la televisione, e ne conosce da sempre i meccanismi e il potere. Senza moralismi o pregiudizi. La prima volta che l’ho incontrato per motivi di lavoro, nel `93, tenne una lezione sui regimi centroamericani e la loro violenza connaturata. Un articolo sul Guardian e una apparizione in tv gli avevano permesso di parlare del delitto ancora impunito di monsignor Romero in Salvador, e ne aveva approfittato per rinfacciare all’America tutto il suo lato oscuro e criminale nei confronti delle democrazie deboli. In fondo l’aggettivo «pinteriano» ormai nell’uso comune, significa anche questo.

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