Dal golpe alla «pace», accordo Zelaya-Micheletti

INTERNAZIONALE
31.10.2009

* APERTURA | di Maurizio Matteuzzi

Dal golpe alla «pace», accordo Zelaya-Micheletti
Il golpista rinuncia alla presidenza, il 29 novembre si vota
Voleva dire che l’epoca dei golpe «naturali» non era morta ed era tornata. Nel dimenticato Honduras perso in Centramerica, forse fuggevolmente noto da noi solo perché in una delle sue bellissime spiagge sui Caraibi c’era la location dell’Isola dei famosi, in questi ultimi quattro mesi si giocava una partita importante, se non proprio decisiva, per il futuro. E, a quanto pare, fatti salvi colpi di coda che al momento appaiono del tutto improbabili, la partita si è conclusa nella notte fra giovedì e venerdì, con la vittoria (ai punti) della squadra della democrazia sulla squadra del golpe. È stato quando verso la mezzanotte le due delegazioni, una degli uomini del presidente Zelaya «ospite» dell’ambasciata brasiliana di qui dal 21 settembre e l’altra degli uomini del presidente golpista Roberto Micheletti, hanno firmato l’accordo in 14 punti che rimetta le cose al loro posto e
consenta di affermare che la democrazia formale è stata restaurata con il ritorno di Zelaya alla presidenza, sia pure un ritorno fugace fino alle elezioni del 29 novembre, e senza poteri reali se non quello di insediare il suo successore il 27 gennaio 2010.
Con George W. Bush alla Casa bianca questo non sarebbe mai successo, i golpisti honduregni – forse un po’ «figli di puttana»ma i tradizionali figli di puttana seminati dagli Stati uniti in giro per il Centramerica e per il mondo – alla fine sarebbero stati riconosciuti e il golpe in Honduras in nome della «democrazia» e dell’eterna lotta «contro il comunismo» – che in assenza del comunismo è identificato nel venezuelano Hugo Chávez – sarebbe passato. Ma nella «nuova» America latina, non solo quella «radicale» – Chávez, il boliviano Morales, l’ecuadoriano Correa – ma anche quella «moderata» – il brasiliano Lula, l’argentina Cristina Fernández – e perfino quella di destra – il colombiano Uribe, il peruviano García -, non è passato.
Perché tutti, radicali e moderati e ultra- destri filo-americani si sentivano ronzare nelle orecchie quel verso delle Satire del vecchio Orazio: «de te fabula narratur…». E non è passato con Obama alla presidenza (nonostante l’atteggiamento molto ambiguo degli Usa). Non poteva passare pena la perdita di ogni credibilità del suo impegno ad avviare un «new beginning» nei rapporti fra Stati uniti e America latina e a cambiare l’immagine deteriorata di cui specialmente qui e con tutte le ragioni del mondo, godono gli Usa. Così, per uno strano gioco del destino e della politica, la situazione si è sbloccata, in senso positivo, grazie agli Stati uniti.
L’arrivo martedì scorso qui Tegucigalpa del sottosegretario di stato Usa per l’emisfero occidentale, Thomas Shannon, suonava come il finale di partita per i golpisti. Le trattative, cominciate il 7 ottobre, erano rotte dal 22. Allora Shannon, Kelly, Restrepo e l’ambasciatore Usa a Tegucigalpa, Hugo Llorens – un cubanoamericano che, a quanto pare, aveva avuto un ruolo non trascurabile nella preparazione del golpe di giugno -, giovedì mattina si sono chiusi con le due delegazioni al dodicesimo piano dell’hotel Marriott e non sono usciti di lì se non dopo averle costrette, a tarda sera, a firmare l’accordo.
Un accordo di compromesso in cui Zelaya rinuncia al suo progetto più ambizioso (e necessario) di un’assemblea costituente per riformare una costituzione scritta nell’ 83, e fatta da e per l’oligarchia. A sua volta il golpista Micheletti, che sui muri di Tegucigalpa è diventato «Gorilletti», ha dovuto ingoiare il boccone più amaro: il ritorno alla presidenza di Zelaya – un liberale come lui – dopo un voto del Congresso – che dopo aver votato per la rimozione violenta del presidente costituzionale in giugno, tutti dicono sia ora pronto a votare, forse già oggi o domani, il suo ritorno – e non, come voleva Micheletti, dopo il giudizio di una Corte suprema iper-golpista.
L’accordo prevede la creazione di un governo «di unità e riconciliazione nazionale», l’insediamento di una «commissione per la verità» che deve fare luce sugli eventi precedenti al golpe di giugno – che per i golpisti era un atto dovuto e legale per via del «tradimento della patria» ad opera di Zelaya –ma anche su quelli successivi – repressione violenta, una ventina di morti, migliaia di arresti, chiusura dei pochi giornali e tv favorevoli a Zelaya, stato d’emergenza.
La carne che Shannon ha messo sul tavolo dei negoziati non lasciava scampo a Micheletti (e neanche, in minor misura, a Zelaya). L’annullamento delle sanzioni economiche e politiche, la ripresa degli aiuti internazionali vitali per un paese derelitto come l’Honduras, il riconoscimento delle elezioni fissate dai golpisti per il 29 novembre, che nessun paese e istanza internazionale avrebbe riconosciuto e che ora tutti si apprestano a riconoscere (non ci saranno né Zelaya né Micheletti). Shannon non ha voluto strafare, ha definito «eroi della democrazia» i firmatari dei due bandi e dopo l’accordo ha detto di «non essere qui per imporre niente, la crisi è honduregna e la soluzione deve essere honduregna, noi siamo qui per dare garanzie». Una volta, fino a non molto tempo fa, in molti speravano che gli americani – che qui vicino, a Palmarola, hanno la maggior base militare dell’America centrale – se ne andassero al più presto. Adesso, a conferma del peso che gli Usa continuano ad avere sull’Honduras (e non solo) anche se in questo caso si sia trattato di un peso benefico, sperano che rimangano, almeno per un po’, per garantire che i golpisti rispettino gli impegni. Non sarà facile. A cominciare dai tempi, «il cronogramma».
Poi, sullo sfondo, resta il discorso sulla democrazia. Zelaya, che non è comunista né castrista né chavista, aveva capito che con la democrazia solo formale un paese come l’Honduras non uscirà mai dalla sua condizione disperata. Ora tutto sembra tornato alla situazione «di prima», di sempre. Il 29 novembre si contenderanno la presidenza candidati dei partiti dell’oligarchia tradizionale, los liberales e los nacionales. In molti sono contenti, l’Onu, la Ue, l’Osa. Hillary ha telefonato per rallegrarsi per «lo storico accordo che pone fine alla crisi». Ci sarà tempo per vedere cosa succederà.
Ieri mattina la brutta Tegucigalpa sembrava perfino bella con «il popolo» che si è riversato per le strade e nella piazza del Congresso a festeggiare. Una cosa è certa: senza la resistenza popolare qui in Honduras e senza l’azzardo di Lula «ospitando» Zelaya nell’ambasciata, oggi qui qui non ci sarebbe niente da festeggiare. E non solo qui.

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