La (stessa) musica del mondo

La (stessa) musica del mondo
Giuseppe Laterza

Come funziona la globalizzazione della cultura? Un modo per rispondere è guardare alla musica, forse il consumo culturale più globalizzato che esista. Un buon osservatorio ce lo forniscono gli utenti di Spotify, più di cento milioni di persone in giro per il mondo.

Le classifiche per paese disponibili sulla piattaforma di streaming sono una interessante rappresentazione del modo in cui concretamente prende forma un fenomeno planetario. I primi dieci brani musicali della classifica americana sono abitualmente in cima alle classifiche di tutto il mondo.

In questi giorni, per esempio, “Shape of You” di Ed Sheeran (inglese) è primo in America e anche in Germania, Australia, Giappone, Malesia, Indonesia, Svezia, Nuova Zelanda, Finlandia, Filippine, Francia… Stessa situazione per i brani dei Chainsmokers (americani), Drake (canadese), The Weeknd (canadese di genitori etiopi), Migos (americano), Taylor Swift (americana) nei primissimi posti in tutte le classifiche. Spotify non fornisce i dati – e la musica – di grandi paesi, come la Cina e l’India e dell’intero continente africano.

È comunque impressionante vedere come attecchisca la stessa musica in America come in Giappone, in Australia come in Europa. Musica al 90% americana e inglese, con qualche inserzione canadese e australiana (Sia). Con una rilevante eccezione: il Sudamerica. Qui è un’altra musica a dettare legge,con il reggaeton che prende il posto del rap e dell’hip hop.

Stessa musica in Argentina e in Messico, in Honduras, Guatemala, Costarica, El Salvador: qui si canta prevalentemente in spagnolo. In Brasile al primo, secondo e terzo posto musicisti locai, anche se con ritmi molto simili ai colleghi anglosassoni. Neanche un brano di musica nazionale invece nelle classifiche tedesche, austriache e polacche, poca in Svezia e Danimarca, un po’ di più in Finlandia. Stessa situazione in Giappone: solo quattro brani sui primi cinquanta sono di artisti nazionali.

In Francia invece c’è molto rap francese ai primi posti in classifica. In Turchia al primo, terzo e quinto posto gruppi musicali turchi; al secondo, quarto e sesto inglesi e americani. E in Italia? La classifica è identica a tutte le altre, con il dominio incontrastato degli stessi musicisti inglesi e americani che si ascoltano in Malesia e in Indonesia. Nei primi cinquanta posti solo quattro cantanti italiani: J-AX, Fedez,Tiziano Ferro e Carmen Consoli.
Morale della favola: non sembra che in fatto di gusti i risorgenti nazionalismi abbiano fatto breccia. I giovani di paesi ai quattro capi del mondo parlano la stessa lingua musicale. L’altra faccia della medaglia è che l’unica musica che colonizza le classifiche è quella anglosassone, dando ragione a chi vede nella globalizzazione una forte componente di omologazione. È pur vero che il fenomeno non è nuovo: da dove veniva la mitica generazione rock nata negli anni ’40 dei Beatles e dei Rolling Stones, di Bruce Springsteen e Bob Dylan, di Janice Joplin e Tina Turner?
Ed è significativo che quella generazione, con poche eccezioni, fosse bianca mentre oggi la musica dominante è fatta in buona parte da neri. La diffusione della lingua inglese conta fino a un certo punto, perché la musica è una lingua a sè, una lingua universale. E dato che esiste certo una musica diversa, attraente e pop in altre aree del mondo, come mai è così raro che abbia successo fuori dei confini del proprio paese? Non è solo questione di potenza economica o commerciale.
Potrà nascere in futuro una nuova globalizzazione multiculturale o ascolteremo tutti musica cinese?

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