Alle origini della Bolognina e della «mutazione genetica» del Pci. Fausto Sorini. Enero 2021

In occasione dei 100 anni della nascita del Partito Comunista d’Italia riproponiamo questo articolo. Nell’analisi delle cause piú profonde del processo di «mutazione genetica» del Pci, destinato a sfociare nella svolta della Bolognina e quindi nella sua tragica auto-dissoluzione, è necessario riprendere la riflessione sulla storia dei comunisti italiani dal 1945 al 1989.

Si è trattato infatti di un processo storico profondo, ma tutt’altro che lineare e fino alla fine sempre aperto a sviluppi e a esiti diversi e perfino contrapposti tra loro: la «mutazione genetica» che gradualmente e nelle forme di una trasformazione tanto profonda quanto «molecolare» ha investito una parte importante dei gruppi dirigenti a tutti i livelli del partito, la loro prassi concreta come la loro ideologia e cultura politiche, nel corso dei drammatici e travagliatissimi anni Settanta e Ottanta, ha incontrato ostacoli e resistenze tenaci, generando sempre contraddizioni e conflitti anche aspri, non solo tra i quadri del partito, ma anche nel suo corpo, ovvero nella massa degli iscritti e dei militanti.

Sappiamo che il tema delle cause della «mutazione genetica» del Pci è destinato a rimanere ancora per molto tempo oggetto di una riflessione aperta e problematica. Ma sarebbe assai negativo non discuterne, non affrontare nemmeno o rimuovere il tema di enorme rilievo storico e politico, o riducendo tutto ad un colpo di testa dell’ultima ora della gestione occhettiana.

Non c’è dubbio che con la segreteria di Achille Occhetto la mutazione giunge a compimento. Serve un pretesto, un’occasione propizia per giustificare una svolta drastica, in un partito in cui forte è ancora il legame degli iscritti e dei militanti con il suo nome e i suoi simboli legati alla tradizione della III Internazionale.

Sebbene da lungo tempo attraversato da una crisi strisciante, il Pci è peraltro ancora un grande partito, fortemente radicato nel movimento dei lavoratori e piú in generale nella vita del Paese. Perciò serviva un pretesto per giustificare il suo scioglimento: un pretesto che sarà rappresentato dalla tragica caduta del Muro di Berlino.

Ma «un metro di ghiaccio non si forma in una sola notte di gelo». La Bolognina fu certamente una scelta drammatica e insieme il compimento di un lungo e complesso processo. In questo senso, l’analisi delle cause della mutazione genetica non può prescindere da una ricostruzione critica dell’intera storia del Pci dell’Italia repubblicana a partire dalla vicenda del suo costituirsi come «partito nuovo» già nel corso della Resistenza fino al suo trasformarsi nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta in un grande partito di massa operaio e popolare, insieme di classe e nazionale.

 Diverse interpretazioni

Molte sono, e diverse, le interpretazioni, le sottolineature, le scuole di pensiero che si confrontano a tale proposito.

Vi è chi pone l’accento sulla emarginazione di Secchia e della vecchia guardia partigiana alla vigilia del 1956, quella piú legata ad una concezione leninista e rivoluzionaria del partito, e il venir meno quantomeno del suo ruolo di contrappeso alle tendenze piú apertamente riformiste.

Vi è chi invece difende in toto l’intera gestione togliattiana e sottolinea invece il ruolo non sempre positivo svolto da una nuova leva di quadri venuta alla ribalta dopo la morte di Togliatti.

Vi è chi evidenzia la politica dei quadri della nuova generazione promossi a ruoli dirigenti negli anni Settanta e che hanno poi prevalso dopo la morte di Berlinguer; chi la de-ideologizzazione del partito e del processo formativo dei quadri (la cosiddetta lai- cità); chi l’allontanamento e poi la rottura con il movimento comunista internazionale; chi la crescente integrazione nella sinistra europea socialdemocratica; chi il mutamento nella composizione di classe degli organismi dirigenti e degli apparati.

E sottolinea, ad esempio, che già nel 1980 i quadri di origine proletaria, operai e salariati agricoli, che rappresentano il 45,6% degli iscritti, sono solo il 17,5% dei membri dei comitati regionali, e ancor meno se si considerano il Comitato centrale e i gruppi parlamentari. Mentre la piccola e media borghesia, artigiani, piccoli imprenditori, intellettuali di origine non proletaria, liberi professionisti, commercianti, coltivatori diretti e mezzadri, che rappresentano il 24,9% degli iscritti al partito, sono il 78,7% nei comitati regionali.

De-ideologizzazione e de-proletarizzazione

Non c’è dubbio, a nostro avviso, che la combinazione de-ideo- logizzazione/de-proletarizzazione è devastante. Non si tratta di un processo contingente o di breve periodo; esso infatti si sviluppa e si consolida nel corso di decenni. Dopo il 1975, anche in conseguenza del successo nelle elezioni amministrative, c’è un drastico trasferimento di quadri – i migliori, i piú preparati, i piú capaci – negli enti locali, per far fronte all’amministrazione delle città, delle province; uno svuotamento del ruolo di questi quadri sperimentati nel partito e un ingresso vasto e tumultuoso di piccola e media borghesia nelle strutture di partito, nelle sezioni, che non è di per sé un fatto negativo, ma che diventa devastante in quanto si accompagna alla de-proletarizzazione nella composizione degli organismi e alla de-ideologizzazione del clima culturale interno al partito.

Sono proprio queste classi medie progressiste, orientate a sinistra, assieme ai loro intellettuali di riferimento, che portano nel partito le ideologie piú eclettiche e stravaganti senza trovare un adeguato contrappeso, una massa critica sufficiente di anticorpi.

Tutto ciò si combina con la graduale scomparsa delle cellule sui luoghi di lavoro, con il primato delle sezioni territoriali e della dimensione elettorale, propagandistica, istituzionale della politica; l’assenza di una formazione politico-ideologica dei quadri e delle nuove generazioni.

  L’influenza del contesto internazionale

Vi sono poi anche altri fattori oggettivi del quadro internazionale che in varia misura contribuiscono a favorire i promotori della mutazione, come ad esempio la stagnazione nell’Unione sovietica, gli elementi indiscutibili di crisi che si manifestano nell’esperienza del socialismo reale in Europa; la controffensiva politico-ideologica che dopo il ’75 viene condotta dagli Stati Uniti – dopo la sconfitta in Vietnam – dall’amministrazione Carter.

Ma essi di per sé non possono spiegare la mutazione, dato che nella maggior parte dei partiti comunisti del mondo (da Cuba al Vietnam, dalla Cina all’India, dal Portogallo al Sudafrica…) essi producono sí una spinta alla discussione e al rinnovamento, ma su basi leniniste e rivoluzionarie, non liquidazioniste. Ma cerchiamo di riprendere il ragionamento dal principio.

 Togliatti, Longo, Secchia e il «partito nuovo»

Il Pci che esce dalla Resistenza è un partito di tipo nuovo rispetto a quello che era stato il Pcd’I di Gramsci prima e di Togliatti dopo. È infatti ancora un partito di quadri, di «rivoluzionari di professione», secondo il tradizionale modello leniniano, ma anche di massa. L’esperienza della lotta armata contro l’occupazione tedesca dell’Italia del Nord insieme con la partecipazione a governi di unità antifascista hanno rafforzato il carattere nazionale e di massa del partito.

La conquista della Costituzione democratica e antifascista sarà certamente uno dei maggiori risultati storici della politica di unità nazionale perseguita dal Pci: un risultato che consentirà a quest’ultimo, negli anni a venire, di poter agire in un quadro democratico e legale e di radicarsi cosí profondamente nel tessuto della società italiana.

Il Pci di Togliatti, Longo e Secchia seppe ricollegarsi all’eccezionale esperienza dei Fronti popolari e della lotta contro il fascismo negli anni Trenta, in una stretta linea di continuità con l’elaborazione strategica del VII Congresso dell’Internazionale comunista. Tuttavia, nel 1947, con l’inizio della guerra fredda, si apre una nuova fase.

In Italia, a seguito della scelta di De Gasperi di escludere comunisti e socialisti dal governo, si interrompe l’esperienza della partecipazione del Pci ai governi di unità nazionale. La violenta offensiva del campo imperialista e il brusco mutamento della situazione internazionale che essa comporta richiedono non solo un mutamento tattico della linea politica ma anche una ridefinizione di alcune delle sue basi strategiche.

Certo, non si trattava di rimettere immediatamente in discussione il terreno di lotta democratico e legale e neanche la prospettiva della democrazia progressiva come fase di transizione al socialismo: ma non v’è dubbio che la violenza dell’offensiva borghese imponeva al partito una diversa e piú efficace articolazione del terreno di lotta legale e parlamentare con quello della mobilitazione e della lotta di massa.

È in questo contesto che matura la scelta da parte del Pci e di Togliatti di inviare Secchia a Mosca: in un colloquio con Stalin, Secchia esporrà la situazione italiana e tenterà di capire la posizione sovietica, al di là dei suoi ondeggiamenti e delle sue oscillazioni tattiche. Si tratta infatti di capire meglio quali fossero le «compatibilità» internazionali nell’ambito delle quali agire: non erano piú soltanto gli accordi di Jalta a condizionare l’iniziativa e l’azione politica del partito ma anche l’inizio della contrapposizione politico-militare tra il campo imperialista guidato dagli Usa e quello socialista egemonizzato dall’Urss di Stalin.

La relazione scritta che Secchia farà a Stalin e al gruppo dirigente sovietico è estremamente interessante: il vicesegretario del Pci vi sostiene che il privilegiare il terreno istituzionale a scapito di quello della mobilitazione della classe operaia e delle masse popolari, anche nei momenti in cui piú forte era stata l’iniziativa dei gruppi monopolistici tesa ad una piena «restaurazione capitalistica», aveva finito per indebolire gravemente il partito e condurlo ad un atteggiamento eccessivamente passivo.

E già qui traspare l’embrione di una dialettica, di una differenziazione all’interno del gruppo dirigente del Pci. Non appare tuttavia chiaro se tale dialettica riflettesse una differenziazione strategica tra Togliatti e Secchia. Quest’ultimo ha condiviso pienamente la strategia del «partito nuovo»: come responsabile dell’organizzazione egli è stato tra i costruttori, insieme a Longo e a Togliatti, del «partito di massa».

La stessa vicenda del cosiddetto «comunismo italiano» non sarebbe concepibile senza il fondamentale contributo politico e non solo organizzativo dato da Secchia alla costruzione di un partito insieme di classe e di popolo, dotato dei caratteri di una organizzazione rivoluzionaria e di combattimento ma in grado al contempo di porsi alla testa di uno schieramento di forze democratiche e progressive anche molto ampio ed eterogeneo: l’esperienza della guerra partigiana aveva, non a caso, rappresentato per Secchia come comandante delle Brigate Garibaldi, come del resto per lo stesso Longo, uno straordinario laboratorio politico, nel corso del quale la classe operaia e la sua avanguardia politica rivoluzionaria avevano mostrato di sapere collegare in termini concreti e dialettici la lotta per la democrazia a quella per la costruzione anche dal basso di un potere proletario e popolare in grado di aprire la strada al socialismo.

Del resto, la concezione togliattiana della «democrazia progressiva», pur privilegiando l’esigenza dell’accordo tra i partiti di massa e quindi il terreno della mediazione e del compromesso parlamentari, non sfociava per questo in una visione gradualistica della transizione al socialismo e non sottovalutava di certo la necessità della massima vigilanza rivoluzionaria di fronte ai pericoli di possibili tentativi reazionari.

In questo senso la presenza di diverse posizioni e sensibilità politiche all’interno del gruppo dirigente del partito, ovvero di quello che si può considerare il suo nucleo piú importante, la triade composta da Togliatti, Longo e Secchia, non sembra riflettere radicali o incomponibili divaricazioni strategiche. Né appaiono chiari quali fossero in quel momento, gli orientamenti strategici di fondo di Stalin e del gruppo dirigente sovietico, stretti tra l’esigenza di serrare le fila di fronte all’offensiva del campo avverso e quella di evitare insieme ad un’eccessiva acutizzazione dello scontro di classe sul piano internazionale, un suo esito catastrofico. La teoria dell’inevitabilità della guerra non significava che essa dovesse essere considerata dall’Urss e dall’insieme del movimento comunista mondiale una prospettiva imminente e non escludeva di per sé l’esistenza di margini ancora ampi di manovra e di iniziativa politica.

 Il «rinnovamento» del Pci

Il 1954 è una data importante, «periodizzante» nella storia del Pci: è infatti l’anno della «defenestrazione» di Pietro Secchia. Stalin è morto da un anno. Il vertice del partito sovietico è attraversato da uno scontro durissimo che dopo l’eliminazione di Berija porterà all’elezione di Krusciov, quindi al famoso «rapporto segreto», ovvero alla traumatica demolizione di tutta l’opera di Stalin in nome della critica al «culto della personalità». La morte del capo indiscusso del Pcus chiude un’epoca nella storia del movimento comunista internazionale, aprendone un’altra assai diversa. Lo scontro al vertice del partito sovietico non è perciò riducibile ad una mera lotta per il potere: al centro di esso vi sono infatti nodi e temi strategici che riguardano non soltanto la costruzione del socialismo e perfino del comunismo in Urss ma anche il nuovo ruolo internazionale di quest’ultima in una fase di straordinario ampliamento del campo socialista e dello schieramento delle forze democratiche e antimperialistiche su scala mondiale.

Con la conclusione, nell’estate del 1953, della guerra di Corea si chiude infatti il periodo piú aspro e drammatico della «guerra fredda». Nello stesso campo socialista vengono maturando nuovi equilibri e rapporti interni: la riconciliazione nel maggio 1955 dei sovietici con la Jugoslavia di Tito è il segno dell’emergere di una nuova concezione dell’unità del movimento comunista mondiale e dell’internazionalismo proletario.

Si avvia cosí un tentativo di superamento non soltanto di alcuni tratti burocratici e autoritari dei tradizionali metodi di governo della società e dell’economia propri dei partiti comunisti al potere, caratterizzati da una imitazione spesso troppo meccanica della pur grandiosa esperienza sovietica degli anni Venti e Trenta, ma anche di un certo modo di intendere il ruolo di direzione politica dei comunisti nelle società di transizione.

Sono i prodromi della crisi drammatica e non priva di passaggi tragici del ’56, per molti versi decisiva dei destini dell’Urss e di tutto il movimento comunista internazionale, Pci compreso. Non solo nel Pcus infatti ma anche all’interno di tutti gli altri partiti comunisti si aprono spazi molto piú ampi per uno sviluppo della loro dialettica politica interna, in termini piú vicini ai criteri di una direzione collegiale e quindi alla originaria concezione leniniana delle regole del centralismo democratico.

Anche in Italia, la sconfitta della legge truffa alle elezioni del giugno ’53, merito fondamentale della straordinaria iniziativa politica messa in atto dal Pci, pone le premesse per l’aprirsi di una fase diversa, destinata a sfociare nella svolta del centro-sinistra. La prospettiva della cosiddetta «apertura a sinistra» appare perfino imminente e chiama il Pci a nuovi compiti, dopo i grandi successi nella lotta politica e di massa contro la reazione e per la difesa della legalità repubblicana.

È in questo clima di transizione e di cambiamento, sia sul piano interno che internazionale, che si colloca l’operazione di «rinnovamento» politico-organizzativo del Pci che viene promossa da Togliatti e dal gruppo dirigente. Si tratta di un passaggio cruciale nella storia del Pci non soltanto per i cambiamenti che esso introduce nell’organizzazione e nel modo di funzionare del partito, ma anche per il ricambio di quadri dirigenti a livello intermedio che seguí ad esso. Un ricambio che per il modo in cui venne politicamente gestito certo non sarebbe stato privo di conseguenze nella vicenda successiva del partito come anche nella stessa evoluzione della sua identità e cultura politica di organizzazione di classe e rivoluzionaria.

Difficile è infatti non pensare che l’eliminazione politica di Pietro Secchia, ossia di uno dei fondatori e costruttori del «partito nuovo», non solo abbia drammaticamente segnato un momento fondamentale nel processo di rinnovamento, ma abbia anche finito per condizionarne pesantemente esiti e risultati, soprattutto nel medio-lungo periodo.

Una riflessione sulla storia e sulla evoluzione del Pci non può eludere questo passaggio storico, quali che siano le interpretazioni di merito. Un passaggio ancora oggi non privo di aspetti da chiarire e approfondire e quindi difficile da interpretare e valutare sul piano della riflessione storica: la defenestrazione del vicesegretario del Pci avvenne attraverso un’utilizzazione del tutto strumentale del famoso caso Seniga, cioè senza alcuna discussione delle sue vere o presunte ragioni politiche di fondo.

All’interno del nucleo dirigente dell’organizzazione del Pci, Nino Seniga è il primo collaboratore di Secchia, occupandosi degli aspetti piú riservati dell’apparato semilegale del partito, quindi dei rapporti con le ex formazioni partigiane. Già da alcuni anni era venuto assumendo nelle conversazioni private, con Secchia e con alcuni compagni, una posizione apertamente antitogliattiana, basata sulla convinzione che tutto l’indirizzo politico del segretario del Pci fosse teso ad una sostanziale svendita del suo patrimonio rivoluzionario.

È senz’altro significativo che Secchia respingerà sempre le pressioni di Seniga nei suoi confronti tese a spingerlo verso una posizione di aperta rottura con Togliatti. La fuga di Seniga con la cassa e importanti documenti riservati del partito diventa, tuttavia, l’occasione per il segretario del Pci di eliminare Secchia, evitando una discussione politica che evidenziasse e precisasse gli elementi di differenziazione politica che, sia pure sotto traccia, erano emersi all’interno del gruppo dirigente e dello stesso partito. La richiesta di dimissioni colpisce Secchia tragicamente. C’è una fase in cui addirittura dichiara di volersi suicidare per l’onta e la vergogna di essere stato incauto e di aver affidato a un uomo che aveva finito per tradire il partito in quel modo delle responsabilità cosí delicate.

E a tutt’oggi rimangono, sulla figura di Seniga e sulla natura effettiva della sua provocazione, molti punti interrogativi, tra cui il sospetto che egli fosse da tempo un agente dell’Intelligence Service britannico, paracadutato dagli inglesi nelle formazione partigiane italiane durante la Resistenza, al fine di penetrare gradualmente nell’organizzazione del Pci.

L’allontanamento di Secchia dal vertice del partito trascina con sé la liquidazione di tutta una rete di quadri dirigenti che aveva rappresentato una parte importante della vecchia guardia partigiana e che aveva continuato a costituire negli anni della costruzione del «partito nuovo» un’area organizzativamente e politicamente fondamentale di quest’ultimo. Nello stesso periodo, sarà Amendola, chiamato da Togliatti già nel gennaio del ’55 a svolgere la relazione introduttiva alla IV Conferenza nazionale di organizzazione, a iniziare il processo di riorientamento e riorganizzazione di quelle strutture del partito finalizzate a rendere quest’ultimo pronto a difendersi o a reagire a eventuali colpi di mano reazionari.

Tale operazione si accompagna al graduale smantellamento di quella rete di quadri articolati in micro-cellule (i gruppi di 5 o di 10, sia su base territoriale che nei luoghi di lavoro) che aveva costituito una delle esperienze organizzative piú efficienti del «partito nuovo». Il carattere popolare e di massa di quest’ultimo non doveva mai essere disgiunto, nella concezione originaria del «partito nuovo», dalla sua natura di organizzazione di classe e di combattimento.

È infatti negli anni Cinquanta che il Pci raggiunge l’apice del suo radicamento capillare e organizzato, come partito della classe operaia, con la ramificazione in oltre 50.000 cellule nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro. Si trattava, al fondo, di uno sviluppo originale e flessibile della concezione leniniana e gramsciana del partito che si radica in primo luogo dove c’è il conflitto di classe. E che lí si prepara anche a diventare classe dirigente anche nella fabbrica, nella produzione, e quindi nel processo di costruzione del socialismo. In questo senso il «partito nuovo» riprendeva il nucleo piú fecondo dell’elaborazione teorica del Gramsci «consiliarista» dell’«Ordine Nuovo»: la fabbrica è il primo terreno della lotta per l’egemonia, ovvero per la costruzione di un nuovo potere e di un nuovo Stato.

Il superamento di questo impianto organizzativo portava con sé il rischio di favorire, anche al di là delle intenzioni, un graduale ma progressivo smantellamento della organizzazione capillare e rivoluzionaria del partito nella società, e segnatamente – come poi avvenne – delle cellule nei luoghi di lavoro, nelle quali era stata organizzata fino a quel momento la maggioranza degli iscritti. Favorendo una crescente prossimità al tradizionale modello socialdemocratico di organizzazione politica, articolata nelle sezioni territoriali, piú adeguate alla lotta sul terreno elettorale, ovvero maggiormente corrispondenti alle esigenze di un partito teso prevalentemente ad agire nell’ambito istituzionale e parlamentare.

In questa trasformazione, che in parte modifica le forme del suo radicamento sociale, il Pci imbocca una nuova strada. E questa dinamica lo differenzia sempre di piú dall’esperienza di altri partiti comunisti dell’Europa occidentale, come ad esempio il partito comunista portoghese, il partito comunista greco e anche il partito comunista francese (almeno fino alla direzione di Marchais).

Ed anche sugli effetti di lungo periodo di questa differenziazione permangono interpretazioni diverse: vi è chi ritiene che l’esperienza del Pci negli anni Sessanta-Settanta, che lo porterà a diventare il piú grande Pc del mondo capitalistico in termini di voti e di iscritti, lo differenzi in positivo rispetto all’esperienza di altri Pc dell’Europa occidentale;una tesi contrapposta a quella di chi invece ritiene che già in quegli anni si manifestino tendenze e pulsioni che, nel tempo, ne mineranno al suo interno la natura di partito rivoluzionario e di classe.

 Togliatti e il ’56

Sarà proprio dalla Conferenza di organizzazione del gennaio 1955 che prenderà le mosse quel processo di rinnovamento non solo organizzativo ma anche politico e perfino culturale e ideologico del Pci destinato a sfociare nell’VIII Congresso del partito del dicembre ’56, ovvero nella piú organica e compiuta elaborazione della «via italiana al socialismo».

Questo congresso rappresenta sicuramente un grande passo avanti nell’elaborazione teorica e strategica del Pci. Esso è però preceduto anche dalla rottura del nucleo dirigente storico del Pci che aveva fatto la Resistenza, imperniato sulla triade Togliatti, Longo, Secchia, con l’emarginazione di quest’ultimo e di una parte importante di quadri che erano stati l’ossatura della guerra partigiana; e l’emergere di una nuova leva che sarà poi alla testa del Pci dopo la morte di Togliatti (Ingrao, Amendola, Napolitano, Berlinguer).

Vi è chi sostiene che la rottura di Togliatti con Secchia rappresentò una necessaria, sebbene dolorosa e drammatica, rottura con posizioni «settarie» presenti all’interno del partito, inadeguate a fronteggiare una fase nuova di sviluppo della società italiana e del contesto internazionale. Ma non possiamo al contempo escludere che tale passaggio, anche per le forme e le modalità drammatiche con cui fu gestito, abbia potuto finire per determinare uno sbilanciamento dell’equilibrio interno che, nel tempo, avrebbe fatto venir meno l’esistenza di robusti anticorpi al processo di socialdemocratizzazione del Pci, al suo snaturamento come partito rivoluzionario.

Certo è che difficili e complessi, anche perché in larga parte nuovi, furono i problemi e i compiti politici che si imposero non solo al Pci, ma a tutto il movimento comunista mondiale. Il togliattiano «rinnovamento nella continuità» richiedeva perciò un difficile equilibrio, e ciò rimane tutt’oggi oggetto di una complessa riflessione storica, anche alla luce degli sviluppi successivi.

Nel corso dell’VIII Congresso, Togliatti fa seriamente i conti con i grandi temi politici e strategici che la crisi terribile del ’56 ha messo drammaticamente in primo piano. Acutamente il segretario del Pci coglie tutte le novità positive emerse in Urss con il XX Congresso ma anche tutti i limiti e le ambiguità con cui Krusciov e i sovietici gestiscono la cosiddetta «destalinizzazione».

La liquidazione, peraltro ingiusta e per molti versi superficialmente autolesionista, dell’immensa opera ed eredità di Stalin non è certo la premessa piú adeguata all’avvio di un processo di superamento degli errori commessi nella prima fase dell’edificazione del socialismo in Urss, in grado di rilanciare anche la funzione di quest’ultima nella lotta per la pace e il socialismo in tutto il mondo.

Togliatti capisce come non si tratti di liquidare il passato, quanto di attrezzarsi per affrontare le nuove contraddizioni e i problemi inediti che l’inizio di una nuova fase della storia dell’Urss pone drammaticamente al gruppo dirigente sovietico. In questo senso, la lotta contro il revisionismo non poteva andare disgiunta da quella contro il settarismo e il dogmatismo.

In alcuni scritti e interventi fondamentali del ’56, Togliatti procederà ad una prima analisi critica dei problemi e delle contraddizioni anche tragiche che avevano scandito il processo di costruzione di una democrazia socialista in Urss in alcuni momenti della direzione staliniana, rivendicando con forza l’attualità dei tratti essenziali della concezione leninista del processo rivoluzionario, fondata su una visione dialettica del nesso tra democrazia e socialismo, ovvero del rapporto direzione politica del partito comunista e autogoverno delle masse.

La rivendicazione gramsciana del nesso dialettico tra il momento dell’«egemonia» del proletariato e quello della sua «dittatura» è non a caso al centro dell’elaborazione togliattiana della fine degli anni Cinquanta, tutta tesa a definire sulla base della nozione gramsciana di egemonia una politica di alleanze sociali e politiche anche molto ampia ma mirante a spezzare il potere dei grandi monopoli e aprire cosí la strada al potere della classe operaia e quindi al socialismo.

Nei primissimi anni Sessanta Togliatti e una parte della cultura economica legata al Pci svilupperanno in termini ancora piú concreti questa riflessione individuando proprio nelle forme e negli istituti piú avanzati e moderni del capitalismo monopolistico di Stato degli strumenti formidabili di lotta contro il dominio del capitale finanziario e per l’introduzione di una programmazione economica di tipo democratico e potenzialmente socialista.

È evidente come uno sviluppo ed una applicazione coerenti di una siffatta impostazione strategica richiedessero però una lotta a fondo non soltanto contro le tendenze settarie certo presenti in una parte consistente del partito ma anche contro i non meno pericolosi orientamenti di «destra» tesi a una interpretazione sostanzialmente riformistica e socialdemocratica della «via italiana al socialismo».

Non v’è dubbio che l’eliminazione di Secchia favorí il rafforzamento di tali orientamenti. Né si può dire che a Togliatti sfuggisse l’importanza della lotta contro le tendenze di tipo «socialdemocratico» ai fini del mantenimento dell’identità di classe e rivoluzionaria del partito come a quelli della salvaguardia di un’effettiva unità del suo gruppo dirigente. La sua ferma denuncia del carattere reazionario della rivolta ungherese insieme con la rivendicazione altrettanto netta del legame di ferro con l’Urss e il campo socialista rivelano quanto profonda fosse nel segretario del Pci la consapevolezza del nesso dialettico tra la lotta contro il settarismo e quella contro il revisionismo.

Togliatti reagisce addirittura ferocemente a certe spinte interne al partito, come quelle evidenziatesi con il caso Giolitti, e nello stesso momento rivela una grande fermezza contrastando l’emergere, all’interno di una grande organizzazione di massa quale la Cgil, di posizioni critiche dell’intervento sovietico in Ungheria come quella espressa da Di Vittorio.

L’idea che il partito comunista si diriga sempre «dal centro», ovvero sulla base di una sintesi politica superiore sia alle tendenze settarie che ad ogni forma di «opportunismo di destra», lungi dall’esprimere una deteriore tendenza al compromesso e alla «mediazione» eclettica, rivela al contrario uno dei nuclei del leninismo di Togliatti, già evidenziatosi peraltro negli anni della stretta collaborazione con Gramsci e del Congresso di Lione del 1926.

Nel periodo compreso tra il XX Congresso e la sua morte nell’agosto del ’64, Togliatti si scontrerà piú volte con quegli orientamenti interni che vorrebbero spingere avanti il processo di socialdemocratizzazione del Pci. Nel corso della stessa polemica con i comunisti cinesi, il tema delle nuove forme di transizione al socialismo e della necessità di uno sviluppo originale della teoria marxista e leninista dello Stato e della rivoluzione ritorna al centro della riflessione del segretario del Pci.

Ai comunisti cinesi l’interpretazione togliattiana della «via italiana al socialismo» sembra infatti discendere da una grave sottovalutazione della natura pur sempre borghese della macchina statale nelle società capitalisticamente avanzate come quella italiana: una sottovalutazione che finiva per considerare, almeno in linea di fatto se non anche sul piano teorico, la via pacifica e parlamentare come l’unica forma possibile di transizione al socialismo in Occidente.

Ed è appena il caso di notare che, considerando anche alcune esperienze rivoluzionarie successive condotte sul terreno democratico e legale nel corso del Novecento – come ad esempio quella cilena – la riflessione problematica su questo punto di enorme rilievo strategico sarebbe apparsa tutt’altro che infondata. Del resto anche all’interno del Pci la questione appare tutt’altro che scontata o rimossa. Lo stesso documento congressuale del X Congresso (1962) ribadisce come la via pacifica non possa essere considerata l’unica prospettiva possibile. «Che la insurrezione e la guerra civile possano venire evitate non è una certezza. È ciò che noi ci proponiamo, pur sapendo che i gruppi reazionari borghesi sono sempre disposti a fare ricorso alla violenza per sbarrare la via al progresso politico e sociale».

  La segreteria di Luigi Longo

La rottura della triade Togliatti, Secchia, Longo finisce per indebolire anche quest’ultimo. Longo ha infatti rappresentato, lungo un’intera fase, un elemento di trait d’union tra Togliatti e Secchia. Nel partito avanza una nuova leva di quadri: nel contesto di un processo di rinnovamento non solo politico ma generazionale, assumono funzioni dirigenti sempre piú importanti gli Amendola, gli Ingrao, i Berlinguer. Non a caso saranno proprio questi tre dirigenti i rappresentanti delle tendenze piú importanti che caratterizzeranno la vicenda storica e l’evoluzione politica ed ideologica del Pci dopo la morte di Togliatti, avvenuta nel 1964.

Gli anni dal 1964 al 1969 sono quelli della segreteria di Luigi Longo. Sono anni ricchissimi di eventi importanti nella storia dell’Urss e del movimento comunista internazionale, dalla destituzione di Krusciov all’intervento armato in Cecoslovacchia. Longo ha il merito indubbio di riprendere alcune delle indicazioni teoriche e strategiche contenute nel Memoriale di Jalta di Togliatti, rilanciando su basi rinnovate l’impegno internazionalista del partito: un impegno in cui Longo ravviserà sempre il nucleo fondamentale dell’identità stessa del Pci, anche nei momenti di piú drammatico confronto con le posizioni dell’Urss e dei comunisti sovietici.

Eppure è proprio nel breve ma intensissimo periodo della segreteria di Longo, che talune tendenze interne al Pci, che nel ’56 Togliatti aveva saputo respingere e contenere, vengono per cosí dire allo scoperto, aprendo un dibattito nei gruppi dirigenti e nelle stesse file del partito, finalmente piú esplicito e aperto.

Non a caso è proprio all’indomani della morte di Togliatti che Amendola pone, in un articolo famoso, la questione dell’unificazione dei due partiti storici della sinistra italiana, sulla base del convincimento secondo cui le ragioni del ’21 fossero da considerarsi sostanzialmente superate: l’esperienza storica dei partiti socialisti e comunisti nei paesi dell’Occidente, ovvero di capitalismo maturo, era stata infatti scandita secondo Amendola sia dalla sconfitta dell’ipotesi leninista di conquista del potere per via rivoluzionaria che dal fallimento dell’ipotesi riformista della socialdemocrazia.

La strategia e la tattica leninista non ci ha un permesso e non ci permettono di conquistare il potere, in questa parte del mondo e nelle condizioni in cui ci troviamo a operare, e non solo per l’oggi – dice Amendola – ma per una lunga fase. La socialdemocrazia, che forse si è adattata alle caratteristiche delle società dell’Europa occidentale di quanto non abbiano saputo fare i partiti comunisti di orientamento leninista, ha però rinunciato all’obiettivo della trasformazione socialista della società. In fondo è proprio in questo articolo di Amendola che occorrerebbe individuare le radici lontane di quella idea di «terza via» che molti anni dopo sarà, com’è noto, fatta propria da Pietro Ingrao, sia pure sulla base di una sua diversa interpretazione.

Per Amendola, tuttavia, la prospettiva di un partito unico del movimento operaio non comportava la rottura con l’Urss e quindi l’abbandono della scelta di campo antimperialista. Uomo pragmatico, con una visione della politica internazionale improntata ad un solido realismo politico, Amendola ritiene infatti che l’Unione Sovietica e il campo socialista rappresentino un contrappeso fondamentale all’imperialismo: un contrappeso che consente non solo ai comunisti ma alle stesse forze di sinistra di stampo socialdemocratico operanti nel campo imperialista di avere uno spazio di manovra e di azione politiche.

Con la sua proposta di partito unico Amendola tenta di aprire una discussione di grande rilevanza strategica e perfino teorica, che però viene subito chiusa dalla immediata bocciatura da parte della maggioranza della Direzione del Pci della sua proposta. Certo, anche Luigi Longo e la direzione del Pci avevano avanzato nel ’45, all’indomani della Liberazione l’idea di un partito unico dei lavoratori.

Tuttavia quella prospettiva era stata avanzata su basi politiche e ideologiche del tutto diverse: si trattava in quel caso di dar vita ad un partito operaio, saldamente ancorato ai principi del marxismo-leninismo e dell’internazionalismo proletario, sull’esempio delle esperienze di unificazione tra partiti comunisti e socialisti che avevano condotto nella Ddr alla nascita della Sed e in Polonia a quella del Poup.

Lo scontro tra Amendola e Ingrao che caratterizza l’XI Congresso del 1966, e che a nostro avviso, per quanto importante, non investe il tema della natura del Pci – si risolve con una classica mediazione centrista, con la conferma di Longo alla segreteria generale e la nomina di Berlinguer a vicesegretario del partito. E il ’68 è ormai alle porte.

Il «biennio rosso» ’68-69 sembrerà porre, perfino in termini perfino politicamente immediati la questione del governo, ovvero del potere: dalla tribuna del XII Congresso, Luigi Longo si spinge fino ad affermare che «il socialismo è all’ordine del giorno in Italia».

L’esplodere del movimento degli studenti nel ’68 e poi le lotte operaie del ’69 pongono problemi nuovi, sul piano dell’organizzazione e del modo di agire del partito come su quello delle sue prospettive politiche immediate. Significativa è l’apertura di Longo al movimento degli studenti: nel protagonismo sociale e politico di una nuova generazione che individua nel socialismo e nel comunismo i propri riferimenti ideali, il segretario del Pci coglie lucidamente uno straordinario potenziale rivoluzionario, l’emergere di forze e soggetti sociali nuovi da conquistare ed integrare nel sistema di alleanze della classe operaia.

In fondo Longo vede nel movimento degli studenti l’occasione per integrare dentro il Partito comunista forze nuove in grandi di spostarne a sinistra l’asse politico e ideologico, in una prospettiva non molto distante da quella che ispirerà l’atteggiamento di Pietro Secchia, pure ormai del tutto emarginato all’interno del Pci (ma vicino al movimento studentesco).

Nello stesso intervento nella discussione sul Manifesto nel Comitato centrale dell’ottobre del 1969, pur nel contesto di una polemica durissima contro qualunque forma di estremismo e di avventurismo politico, Secchia sottolineerà con grande forza la necessità di una maggiore apertura del partito ai movimenti di massa e alle stesse nuove e originali forme di organizzazione dal basso che vengono via sorgendo dentro di essi; mentre Amendola, si dimostra piú preoccupato del fatto che alcune posizioni estremiste del movimento degli studenti possano diffondersi dentro il partito ostacolandone proprio quella evoluzione in senso riformista già evocata nel suo articolo del 1964.

Nel frattempo emerge all’interno del filone ingraiano il gruppo del «Manifesto» che, fortemente influenzato dalle tesi maoiste della Rivoluzione culturale e dalle posizioni piú «antisovietiche» presenti nel movimento degli studenti, si spingerà fino a teorizzare «la maturità del comunismo». Ed emergono anche posizioni favorevoli allo scioglimento della Fgci nel movimento, che segnalano drammaticamente una difficoltà del Pci a proseguire su una linea di effettivo «rinnovamento» di sé, come partito di avanguardia e insieme di massa, in una fase di grave crisi e transizione, sul piano interno e internazionale.

Il diffondersi del mito della Rivoluzione culturale cinese tra le giovani generazioni, insieme al prevalere in larghe fasce di esse di una dura contrapposizione alla realtà del socialismo sovietico e alla stessa politica di «coesistenza pacifica» condotta dall’Urss sul piano internazionale, segneranno profondamente la vicenda del ’68 italiano.

Al fondo, era il tema gramsciano della «rivoluzione in Occidente» a tornare ancora una volta drammaticamente al centro non solo dello scontro sociale e politico in atto nel Paese, ma anche nella discussione interna al Pci e al suo gruppo dirigente. L’esplodere dei nuovi movimenti coincide non a caso con l’emergere di contraddizioni anche drammatiche all’interno dei Paesi socialisti e del campo antimperialista. La rottura tra Cina e Urss e l’intervento sovietico in Cecoslovacchia rimettono al centro il tema dell’internazionalismo, confermando la lucidità di alcune preoccupazioni dell’ultimo Togliatti sull’unità del movimento comunista internazionale e sulla sua capacità di tenuta nel nuovo contesto mondiale.

Lo sforzo, certo difficile e non privo di passaggi anche tragici, di Luigi Longo, di affrontare l’insieme di tali questioni nel solco togliattiano del «rinnovamento nella continuità» appare particolarmente evidente nel corso della crisi in Cecoslovacchia.

La «riprovazione» dell’intervento promossa dal segretario del Pci insieme con Cossutta e altri non viene spinta fino a un punto di rottura, come invece vorrebbero alcuni ambienti e settori piú oltranzisti interni al Pci, mentre alcuni quadri legati a Secchia, ad Arturo Colombi, ad Ambrogio Donini e allo stesso Longo, tentano di condurre una battaglia politica tesa a impedire il prevalere di posizioni di aperto scontro con i sovietici.

È interessante notare come è proprio nel corso della crisi cecoslovacca che si manifestano all’interno del Pci orientamenti tesi alla formazione di un «polo comunista occidentale», all’origine del tentativo «eurocomunista» di Berlinguer della metà degli anni Settanta. Il dissenso con i sovietici non si spinse tuttavia fino alla rottura e il Pci decise di partecipare alla conferenza dei partiti comunisti convocata a Mosca nel giugno del 1969.

Il dissenso con i sovietici sulla questione della Cecoslovacchia provoca in un uomo come Longo una sofferenza e uno stress di enorme portata. Colpito da una paralisi, Longo è costretto a lasciare di fatto la segreteria generale e ad accelerare la promozione di Berlinguer, che al XII Congresso (1969) diventa vicesegretario del partito: un incarico che manterrà fino al 1972 quando diventerà segretario generale.

Durante gli anni della segreteria di Berlinguer, Longo si troverà via via sempre piú emarginato. Ciò provocherà in lui una profonda crisi depressiva e perfino sensi di colpa per alcune delle sue scelte politiche passate. Non mancano a tal proposito significative (e dirompenti) testimonianze personali da parte di dirigenti politici autorevoli del Pci come Ambrogio Donini (di cui chi scrive può portare diretta testimonianza) e in alcuni casi dello stesso Armando Cossutta, che con Luigi Longo e sua moglie Bruna intrattennero intensi rapporti personali e politici, fino alla morte dell’ex segretario del Pci avvenuta nel 1980.

Tra le tante, ne citiamo qui due (per la prima volta) perché esse rivestono un significato inquietante dal punto di vista del bilancio storico che Longo, depresso e malato, sembra trarre negli ultimi anni della sua vita, col «senno di poi».

Alla luce degli sviluppi successivi al 1968, Longo confida a pochi intimi di essersi «pentito» di aver portato Berlinguer alla segreteria generale del Pci, proprio in considerazione dell’accelerazione che, anche sull’onda della condanna dell’intervento in Cecoslovacchia da lui stesso promossa, Berlinguer e il gruppo dirigente del Pci avrebbero poi impresso all’evoluzione politico-ideologica del partito nel corso degli anni Settanta.

E negli ultimi anni di vita confida ad Ambrogio Donini che, se egli avesse potuto immaginare nel 1968 le conseguenze che la dissociazione aperta dall’intervento sovietico in Cecoslovacchia – al di là del giudizio sull’evento in sé – avrebbero prodotto nel dibattito interno del Pci e nella sua evoluzione politico-ideologica, probabilmente quella dissociazione cosí esplicita non l’avrebbe incoraggiata.

 La segreteria di Enrico Berlinguer

Gli anni dal 1972 al 1984 sono quelli della segreteria di Berlinguer. È un periodo scandito dalle grandi avanzate elettorali del Pci, che porranno quest’ultimo di fronte al problema del governo. Sono gli anni che portano il Pci, alla metà degli anni Settanta, al 35-36%, ovvero al quasi sorpasso elettorale nei confronti della Democrazia cristiana. Ma è proprio in questo periodo che si accelera il processo di mutazione interna del partito, destinato a sfociare, dopo la morte di Berlinguer, nella svolta della Bolognina.

È interessante notar come personalità al di sopra di ogni sospetto di filo-comunismo, già allora, soprattutto negli ultimi anni della segreteria di Berlinguer, nella seconda metà degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, dimostrano di avere consapevolezza di quanto i comunisti italiani siano profondamente mutati.

C’è una dichiarazione di Ronald Reagan, dimenticata e apparsa ai piú quasi incomprensibile, che dice: tra i «partiti comunisti» dell’Europa occidentale, il Pci è il piú «debole».

Lo stesso Aldo Moro, che pure pagherà a caro prezzo il suo tentativo di coinvolgere in qualche modo il Pci nella direzione politica del Paese, dà dei grandi successi elettorali del Pci del ’75 e del ’76, una lettura tutt’altro che superficiale e che oggi non può non apparirci di una sorprendente lucidità. Per lo statista democristiano quei successi sono destinati a mutare in profondità la natura non solo ideologica ma anche sociale, di classe, del Pci, proprio nella misura in cui essi sono l’espressione di uno spostamento a sinistra di ampi strati di ceto medio, i quali, entrando a far parte della base elettorale e della stessa composizione sociale del Pci, non potranno non costituire all’interno di esso un elemento di contraddizione con l’originaria vocazione rivoluzionaria di quel partito.

La valorizzazione del consenso elettorale conquistato non poteva allora non comportare, secondo Moro, una accentuazione degli elementi di mutazione in senso riformista della propria natura, in contraddizione con i settori sociali e politici del partito piú rivoluzionari e classisti.

Una contraddizione – secondo Moro – da cui non era detto che il Pci sarebbe uscito: perché se avesse fatto «marcia indietro», nel senso di recuperare una prospettiva antisistemica, avrebbe dilapidato gran parte del suo successo elettorale tra le classi medie.

E se viceversa avesse voluto conservare ed estendere tale consenso, sarebbe stato costretto ad accentuare gli elementi di mutazione, anche in campo internazionale, creando cosí contraddizioni di natura opposta con i settori sociali e politici del partito piú rivoluzionari, classisti e internazionalisti.

    Compromesso storico e unità nazionale

La politica di unità nazionale ha senz’altro favorito quello che abbiamo definito il processo di mutazione genetica del Pci. Essa non può, tuttavia, essere considerata come una mera conseguenza della strategia del compromesso storico. Tale strategia viene definita da Berlinguer all’indomani della tragedia cilena, sulla base di un’analisi particolarmente lucida dei pericoli reazionari cui in quella fase appare effettivamente esposta la democrazia italiana. Di fronte a quei pericoli, il segretario del Pci rivendica la necessità di una politica di larghe alleanze, che isoli e sconfigga i gruppi borghesi piú reazionari, secondo un’impostazione teorica e strategica classicamente togliattiana.

La politica di unità nazionale deve piuttosto essere considerata come una determinata applicazione «tattica» di tale impostazione strategica, la quale finirà per condurre il Pci ad un’integrazione dentro il quadro delle compatibilità del sistema capitalistico, già peraltro entrato in una fase di acuta difficoltà economica e di crisi generale. Un’integrazione che spingerà il Pci a far propria una politica di sacrifici e di «austerità» a senso unico, con conseguenze drammatiche per le condizioni di lavoro e i livelli salariali della classe operaia.

Berlinguer avverte però che tale politica sta determinando una crisi profonda nel rapporto tra Pci e classe operaia e, contrastando la linea interna dei cosiddetti «miglioristi» (che fa capo a Napolitano e Lama), decide di rompere con la politica di unità nazionale e ricolloca il partito su una linea di lotta e di opposizione, che avrà come momenti emblematici il sostegno alla lotta dei lavoratori della Fiat («se voi occupate la Fiat il Pci vi sosterrà»), la scelta del referendum contro il taglio del punto della scala mobile voluto da Craxi (dove Berlinguer contrasta apertamente l’opposizione di Lama e di una parte importante del gruppo dirigente). E piú complessivamente reagisce al craxismo, come punta avanzata di un anticomunismo di tipo nuovo, che si afferma nell’ambito del Psi (ma penetra anche in settori del partito).

Non si trattava probabilmente, da parte di Berlinguer, di scelte solo difensive. Dietro di esse c’era infatti lo sforzo di ridefinire una prospettiva strategica nuova, dopo la grave sconfitta della politica di unità nazionale. Tanto è vero che un giornale come la Repubblica, sorto alla metà degli anni Settanta proprio per incoraggiare la socialdemocratizzazione del Pci, condurrà in quegli anni una polemica contro questo Berlinguer che torna alla lotta, accusandolo di operare una «francesizzazione» del Pci, una «regressione» politico-ideologica verso le posizioni del Pcf di Georges Marchais, additato allora da Eugenio Scalfari come simbolo negativo di una «ortodossia» da cui prendere nettamente le distanze.

Ma le cose erano ormai andate troppo avanti, e dopo la morte di Berlinguer (1984) quelle correzioni di linea che egli aveva cercato di apportare su alcuni aspetti della politica nazionale del Pci, sarebbero state rapidamente abbandonate.

Ma nella elaborazione e nella cultura politica del Pci durante la seconda parte della segreteria di Berlinguer, maturano anche altri elementi su cui è necessario soffermarsi e che sono tutt’oggi oggetto di una riflessione problematica e diversificata tra i comunisti, in Italia e nel mondo.

    Partito laico o ideologico?

Un fattore che sicuramente contribuisce alla mutazione genetica molecolare del Pci, è la concezione (e la pratica) di partito «laico» e non «ideologico», in cui si attenua il ruolo di una teoria rivoluzionaria come fondamento della cultura politica del partito; una graduale rimozione, cioè dell’importanza del dibattito e del confronto sul terreno teorico, e della conseguente formazione dei quadri.

Questo distacco dalla dimensione «ideologica» (non nel senso marxiano di falsa coscienza, ma nell’accezione leniniana e gramsciana di teoria generale e concezione complessiva del mondo; questa graduale rimozione dell’idea che un partito deve avere fondamenta teoriche solide, sia pure nell’ambito di un confronto e di una dialettica; questa concezione per cui l’unità ideologica del partito non è un bene e un valore da perseguire, si riveleranno, persino al di là delle intenzioni originarie dei loro ispiratori, come componenti essenziali del processo di snaturamento e mutazione dei partiti comunisti che ne assumono i presupposti.

Berlinguer riprende e rilancia, a metà degli anni Settanta, il concetto di «laicità» del partito, di partito non «ideologico», soprattutto in funzione del rapporto e del dialogo con i cattolici. Viene soppresso l’articolo dello sStatuto che fa riferimento al «marxismo-leninismo» come metodo di analisi, posto a fondamento del processo di formazione dei quadri.

Ed anche qui sorge una riflessione legittima su come vada interpretato questo passaggio: come la rinuncia a formulazioni considerate arcaiche e foriere di una interpretazione dogmatica del marxismo e del pensiero di Lenin? Come una concessione tattica alle pressioni che vengono dagli ambienti cattolici progressisti, volta a favorire un processo di avvicinamento tra Pci e mondo cattolico? O come qualcosa che piú in profondità investe la natura del partito?

    Eurocomunismo, socialdemocrazia e «ombrello» Nato

Berlinguer spinge avanti l’integrazione del Pci nell’Unione Europea, che fino a quel momento era contestata come componente organica del blocco imperialista; e con l’eurocomunismo si sviluppa il tentativo di creare un polo comunista europeo, destinato a sfociare nell’incontro tra Berlinguer, Marchais e Carrillo nel 1977.

E si determina, in parallelo, un processo di avvicinamento alla sinistra europea socialdemocratica. Si tratta di una presa d’atto della realtà (la Comunità economica europea come terreno ineludibile di confronto e di lotta, almeno per una certa fase) e di una tattica volta a stabilire con le socialdemocrazie piú avanzate una convergenza sul terreno della pace e delle politiche sociali, oppure – come evidentemente avverrà dopo la morte di Berlinguer – di una piú organica integrazione ideologica e strategica nella sinistra europea socialdemocratica?

La svolta «europeista» si intreccia peraltro a quella che potremmo definire «atlantista». L’accettazione dell’«ombrello» della Nato, nei termini in cui viene formulata da Berlinguer nel 1976, costituisce, infatti, un altro passaggio essenziale nella evoluzione politica e nella collocazione internazionale del Pci.

Certo, già al XIII Congresso del 1972, Berlinguer aveva di fatto abbandonato la parola d’ordine dell’uscita dell’Italia dalla Nato; una posizione resa ancora piú chiara al XIV Congresso nel corso del quale il segretario aveva affermato: «Noi non poniamo la questione dell’uscita dell’Italia dal Patto Atlantico». Ma nel 1976 tale scelta non appare già piú ispirata solo dalla preoccupazione di rafforzare il processo di distensione, ovvero di garantire l’equilibrio tra i blocchi, sia pure nella prospettiva di un loro graduale superamento, cosí favorendo il processo di distensione, ma si presenta come una vera e propria «svolta», giustificata sulla base di un giudizio piú di fondo sul carattere e la natura stessa dell’Alleanza Atlantica.

Berlinguer sembra infatti affermare, sia pure con formulazioni tortuose e non sempre coerenti, che l’ombrello della Nato dia al Pci un margine di manovra maggiore nella lotta per il «socialismo nella libertà» rispetto a quello che gli fornirebbe lo stesso Patto di Varsavia.

In un’intervista rilasciata a Giampaolo Pansa pochi giorni prima delle elezioni del 20 giugno 1976, egli si spinge fino ad affermare «che non appartenendo l’Italia al Patto di Varsavia, da questo punto di vista c’è l’assoluta certezza che possiamo procedere lungo la via italiana al socialismo senza alcun condizionamento» e al giornalista che lo incalza, chiedendogli se ritiene che il Patto Atlantico possa essere «uno scudo utile per costruire il socialismo nella libertà», egli risponde: «Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico anche per questo […]. Mi sento piú sicuro stando di qua […]». Ovvero: l’ombrello della Nato, rispetto a quello del Patto di Varsavia, consente al Pci un margine di manovra maggiore per poter praticare una esperienza originale di transizione al socialismo.

Enormi sono le implicazioni di un giudizio di questa natura. E non perché ci sfugga la consapevolezza che il Patto di Varsavia determinasse una forte limitazione della sovranità dei Paesi dell’Est e dei rispettivi partiti comunisti; ma da qui a trarre la conclusione che sotto l’ombrello della Nato vi fossero condizioni piú favorevoli per la costruzione di una via originale verso il socialismo, il passo è lungo…

Sta di fatto che, dopo l’assassinio di Aldo Moro (riconducibile alla sua linea di dialogo col Pci) e dopo la morte di Berlinguer, il Pci abbandonerà ogni antagonismo nei confronti dell’appartenenza dell’Italia alla Nato e alla stessa presenza di basi militari statunitensi sul territorio italiano, dotate di armi nucleari e di uno status di extra-territorialità, esterne allo stesso sistema Nato, quindi senza alcun tipo di controllo – per quanto fragile e formale – da parte delle istituzioni italiane.

 L’esaurimento della spinta propulsiva

Ma è dopo la crisi in Polonia e la proclamazione in quel paese dello stato d’assedio nel dicembre del 1981, che Berlinguer procederà al tentativo di portare alle sue estreme conseguenze il processo di distacco dall’Urss e dal campo socialista.

Vi sono diverse formulazioni di quella che verrà ricordata come la storica frase di Berlinguer sull’«esaurimento della spinta propulsiva», ognuna delle quali ha un significato diverso (esaurimento delle capacità di auto-rinnovamento interno di quelle società, esaurimento di un modello politico-statuale di socialismo, esaurimento della spinta della rivoluzione d’Ottobre).

Ma la piú impegnativa (e forse anche la meno ricordata) è quella in cui Berlinguer sostiene che siamo entrati in una terza fase dello sviluppo del movimento operaio rivoluzionario mondiale: dove la prima fase era quella della Prima e della Seconda Internazionale fino al 1917; la seconda fase quella imperniata sul campo socialista e sull’Unione sovietica, mentre questa terza fase avrebbe visto come soggetto rivoluzionario fondamentale e trainante («epicentro» del processo rivoluzionario mondiale) il movimento operaio dell’Europa occidentale.

Gli eventi degli anni successivi alla morte di Berlinguer, mentre confermeranno la crisi e il crollo del sistema sovietico, si incaricheranno di smentire in modo evidente la seconda parte di tale assunto.

Certo, l’affermazione berlingueriana sull’esaurimento delle capacità di auto-rinnovamento interno del sistema sovietico coglieva indubbi elementi di contraddizione e di crisi in quel sistema, di effettivo blocco del processo di transizione al socialismo e al comunismo, sebbene non sarebbero mancati nella fase immediatamente successiva alla morte di Breznev e prima del disastro gorbacioviano, tentativi anche significativi di «autoriforma» e rinnovamento del sistema sovietico da parte di taluni settori di esso ancora vitali e dinamici. Tuttavia, la tesi dell’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre si collegava strettamente ad una analisi della situazione internazionale e delle prospettive della lotta per il socialismo nel mondo profondamente sbagliata.

Il punto cruciale, e anche il piú dimenticato di tale analisi era rappresentato, infatti, dalla tesi già formulata al XV Congresso, secondo cui la storia del socialismo nel mondo stava entrando in una nuova fase dopo quelle socialdemocratica e sovietica, nella quale sarebbe stato il movimento operaio dell’Europa occidentale a svolgere il ruolo di soggetto rivoluzionario fondamentale.

Una tesi destinata a essere clamorosamente smentita non solo dal rapido esaurirsi dell’«eurocomunismo» e dalla stessa involuzione neoliberale dei partiti socialisti e socialdemocratici europei ma anche dagli sviluppi successivi del quadro mondiale, segnati dalla crescita impetuosa della Cina popolare e dall’emergere di nuove potenti forze antiimperialiste e rivoluzionarie in America Latina, in Africa e nel continente euro-asiatico.

    La discussione degli ultimi anni

Negli ultimi anni della segreteria di Berlinguer la direzione del Pci è sempre piú divisa sulle prospettive. E la discussione vera, non quella che viene enunciata pubblicamente, ha poco a che vedere con la crisi del «modello sovietico». Gli orientamenti politici delle componenti socialdemocratiche interne, quelle che prenderanno il sopravvento dopo la morte di Berlinguer, appaiono discendere da un presupposto, ovvero dall’idea secondo cui nel quadro della contrapposizione tra i blocchi e quindi della divisione dell’Europa, e dopo il trauma dell’assassinio di Moro, l’ingresso del Pci al governo non sarebbe potuto avvenire senza una chiara scelta di campo «occidentale» ed euro-atlantica: una scelta che avrebbe certamente investito l’identità stessa del partito e la rinuncia al «superamento del capitalismo».

Si trattava cioè, in parole povere, di collocarsi come componente di sinistra all’interno dello schieramento borghese e atlantico, conformandosi cosí alla medesima scelta di campo delle socialdemocrazie europee. Non era tuttavia chiaro come convincere tutto il partito, e soprattutto le sue componenti proletarie e/o ideologicamente piú solide, ad accettare una linea di cosí grave rottura con la originaria natura e identità comunista, internazionalista e di classe del Pci. Dato che le motivazioni reali di tale «mutazione» non potevano essere apertamente dichiarate.

Sarà proprio questo il problema che poi risolverà Occhetto, cogliendo al volo l’emozione e lo smarrimento che si determina a livello popolare per il crollo del Muro di Berlino: approfitterà di quel momento, di quella situazione eccezionale per realizzare qualcosa che è già in gestazione in una parte della direzione del Pci, ancora vivo Berlinguer, e che Berlinguer contrastava.

Berlinguer muore l’11 giugno 1984. Si è sostenuto che la sua morte possa essere dovuta, almeno in parte, a un eccesso di stress che l’uomo sopporta da anni, avendo la percezione di questa frattura ormai insanabile che si è determinata all’interno della Direzione del Pci; una frattura da cui egli sente di non essere in grado di uscire né in una direzione né in un’altra, senza scontare una rottura clamorosa del partito.

Ci sarà poi il breve interregno di Natta, con cui il Pci prende tempo con una figura considerata molto vicina a Berlinguer: un elemento di continuità per far fronte insieme alla costruzione di un nuovo gruppo dirigente, perché la morte di Berlinguer è un evento improvviso e coglie il Pci del tutto impreparato. Poi Occhetto e la sua segreteria – dopo aver liquidato malamente Natta, approfittando di un suo malore – coglieranno, all’indomani del crollo del Muro di Berlino, il momento opportuno per dare il colpo finale della Bolognina. Sarà l’ultimo atto del processo di formazione di quel «metro di ghiaccio che non si era certo formato in una sola notte di gelo»

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