Interpretazioni del capitalismo contemporaneo /1. Fredric Jameson

Interpretazioni del capitalismo contemporaneo /1. Fredric Jameson
3 maggio 2013/ di Daniele Balicco e Pietro Bianchi

Nel secondo dopoguerra, il marxismo ha occupato un ruolo importante nel campo della cultura politica europea, soprattutto in Italia, Germania e Francia. Ma è solo a partire dagli anni Sessanta che la sua influenza travalica gli argini tradizionali della sua trasmissione (partiti comunisti e socialisti; sindacati e dissidenze intellettuali) per radicarsi come stile di pensiero egemonico nell’inedita politicizzazione di massa del decennio ’68/’77.

Tutto cambia però, e molto rapidamente, con la fine degli anni Settanta: una serie di cause concomitanti (cito in ordine sparso: la sconfitta politica del lavoro, l’esasperazione dei conflitti sociali, l’uso della forza militare dello Stato conto i movimenti, una profonda ristrutturazione economica, la rivoluzione cibernetica, il nuovo dominio della finanza anglo-americana) modifica non solo l’orizzonte politico comune, ma, in profondità, le forme elementari della vita quotidiana.

In pochi anni, tutta una serie di nodi teorici (giustizia sociale, conflitto di classe, redistribuzione di ricchezza, industria culturale, egemonia etc…) escono di fatto dal dominio del pensabile; e in questa mutazione occidentale il marxismo, come forma plausibile dell’agire politico di massa, semplicemente scompare.

Sopravviverà contro se stesso come teoria pura, protetta in alcune riviste internazionali prestigiose (New Left Review; Monthly Review; Le Monde Diplomatique), in un eccentrico quotidiano italiano (Il Manifesto) e in alcuni i fortilizi accademici minoritari, per lo più americani (come per esempio Duke, CUNY e New School).

La maggior parte degli studi pubblicati in questo nuovo contesto sradicato e internazionale non riesce, come è ovvio, a superare il confine minoritario nel quale è imprigionato. E tuttavia esistono alcune eccezioni, come, per esempio, Postmodernism (1982-1991) di Jameson, Limits to Capital (1982) di Harvey, The Long Twentieth-Century (1994) di Arrighi.

Pochi altri testi – forse soltanto Empire (2000) di Hardt e Negri, escluso da questo saggio anche perché la sua tesi di fondo, già a distanza di pochi anni, veniva smentita non dalla teoria, ma dalla storia – sono riusciti infatti ad attraversare il deserto politico di questi decenni conquistandosi, magari retrospettivamente, il ruolo di bussola teorica di questo nostro tempo disorientato.
Prima di avvicinare questi lavori importanti, fondamentali per decifrare il capitalismo contemporaneo, sola una precisione: di questi tre autori – tutti e tre firme prestigiose della New Left Review – solo Jameson è americano; Harvey è britannico ed Arrighi italiano. Tuttavia, l’associazione non è impropria perché medesimo è il contesto nel quale hanno lavorato e pubblicato la gran parte dei loro studi.
Postmodernismo
Non è stato Fredric Jameson ad inventare il termine «postmodernismo»; e neppure Jean François Lyotard, sebbene lo scelga come aggettivo per il titolo del suo pionieristico saggio pubblicato alla fine degli anni Settanta2.
Tuttavia, è solo con il lavoro teorico di Jameson che la parola «postmoderno» diventa termine guida del dibattito teorico contemporaneo fino ad assumere la dignità di concetto storico periodizzante. Dopo la pubblicazione sulla «New Left Review» nel 1984 di Postmodernism or the Cultural Logic of Late Capitalism diventerà comune, infatti, pensare come postmoderna l’età contemporanea, qualificandola, con questo aggettivo, come «età della fine del processo di modernizzazione».3
La discussione teorica, che lo scritto ha inaugurato, sul significato di questa trasformazione profonda della vita quotidiana nelle società occidentali, ha occupato il centro della teoria critica internazionale per almeno vent’anni. Non stupisce che Postmodernism sia stato subito tradotto in moltissime lingue, fra cui, già alla metà degli anni Ottanta, il cinese mandarino.
Professore di letterature comparate alla Duke University in North Carolina, Fredric Jameson può, senza problemi, essere considerato come l’importatore negli Stati Uniti del marxismo critico europeo. Allievo di Auerbach e di Marcuse, Jameson ha infatti incarnato, con tutti i pregi e i difetti del caso, e forse fuori tempo massimo, una figura un tempo tradizionale per la cultura europea, ma sicuramente eccentrica per quella americana: il critico letterario di formazione marxista.
Con la differenza, però, che l’innesto di questa tradizione politica in un contesto asettico come quello dei campus americani – universi per lo più avulsi dal mondo reale ed estranei a qualsivoglia movimento sociale, organizzazione politica o sindacale – si è spesso trasformato in un esausto esercizio accademico. Anche nei saggi più riusciti di Jameson, come L’inconscio politico4 o lo stesso Postmodernismo, probabilmente i suoi due veri capolavori, è difficile non percepire il contesto da cui si originano.
Tanto la forma confusa e debordante dell’argomentazione quanto l’accumulo bulimico di eterogenei materiali d’analisi potrebbero senza difficoltà essere letti come una freudiana formazione di compromesso. O forse, molto più probabilmente, come la stanca trascrizione crittografica di un sismografo che segnala ad estranei la presenza di un terremoto avvenuto altrove.
La prima stesura di Postmodernism risale ad un famoso intervento pubblico di Jameson tenutosi al Whitney Museum di New York nell’autunno del 1982. Il titolo anticipa già la sostanza dell’argomentazione: Postmodernism and Consumer Society. La rielaborazione sarà pubblicata in una prima versione nel 19835, e in una seconda, più estesa e parzialmente differente, l’anno successivo, con il titolo, negli anni divenuto celebre, di Postmodernism or the Cultural Logic of Late Capitalism.
Tutti i lavori successivi approfondiscono spunti od intuizioni già presenti in questo primo saggio, davvero straordinario per condensazione di temi e proposte. Nel 1991 Jameson ha pubblicato in volume – ed è un libro ponderoso, di oltre 400 pagine – i suoi lavori più importanti sul tema, incluso, naturalmente, quel primo saggio apparso sulla «New Left Review» che ora dà il titolo e apre l’intera raccolta. Ed è questo il libro canonico per chiunque voglia iniziare ad occuparsi della “questione postmoderna”. Vediamo rapidamente come è costruito.
Il volume è diviso in due parti: la prima comprende nove capitoli e sono per lo più saggi già apparsi in rivista, e qui ripubblicati con aggiunte, modifiche, riletture, sistemazioni. La seconda, invece, è inedita e ha la forma di una laboriosa nota a margine, di un commento laterale alla prima sezione orientato verso alcune possibili linee di approfondimento.
Non a caso, molti dei saggi pubblicati negli anni successivi – da Geopolitical Aesthetic: Cinema and Space in the World System (1992) fino al più recente Archaeology of the Future: the Desire Called Utopia and Other Science Fictions (2005) – saranno effettivamente la sistemazione compiuta di quelle proposte originarie.
Nell’introduzione al volume Jameson descrive i quattro temi fondamentali della sua ricerca, così come si è sviluppata dal saggio originario del 1984: il problema dell’interpretazione dell’estetico, l’utopia come categoria necessaria del pensiero politico, le tracce della sopravvivenza del moderno, la “nostalgia” come ritorno del represso storico.
Le mosse teoriche di Jameson sono sostanzialmente due. La prima: il postmoderno è l’età storica del compimento del processo di modernizzazione («Il Postmoderno è quello che si ha quando il processo di modernizzazione è terminato e la natura è sparita per sempre»6). Jameson è subito molto chiaro: il suo studio ha un intento periodizzante, non vuole proporre un nuovo paradigma epistemologico, come Lyotard (La condition postmoderne); né descrivere un nuovo stile architettonico, come Jencks (The Language of Post-modern Architecture, Rizzoli, New York 1977); né tantomeno articolare un nuovo progetto filosofico, come Habermas (Modernity – an Incomplete Project, in Aa.Vv., The Anti-Aestetic, cit., pp. 3-15).
Il postmoderno, per Jameson, è, molto più semplicemente, una categoria storica. Descrive un’epoca caratterizzata, come chiaramente indica il prefisso “post”, dall’esaurimento del movimento moderno, dall’estenuarsi del suo processo di trasformazione sociale, economica e culturale.
Il ragionamento che guida la sua periodizzazione si origina, ed è profondamente suggestionato, dalla lettura di Late Capitalism (Humanities Press, London 1975) di Ernest Mandel. Seguendo l’interpretazione dell’economista trotzkista tedesco, Jameson è persuaso che ci siano tre fondamentali discontinuità nello sviluppo tecnologico moderno a cui corrispondono, in modo più o meno coerente, tre diverse fasi dello sviluppo economico, sociale, estetico.
La prima, situabile a partire dalla seconda metà del Settecento in Inghilterra, ma operativa lungo tutto l’Ottocento nel resto d’Europa, riguarda l’invenzione dei motori a vapore. A questo primo salto tecnologico corrisponde un’intensa stagione di trasformazioni sociali, politiche ed economiche: sono questi gli anni della prima rivoluzione industriale e della rivoluzione politica americana e francese.
Ma le trasformazioni naturalmente agiscono in profondità, trasformano il pensiero: è questa, infatti, l’età che pone, per la prima volta, il problema filosofico dell’emancipazione e della libertà individuale in un sistema post-cetuale, non comunitario; ma è anche l’età della catastrofe del sistema dei generi, se nel giro di pochi anni l’intero corpus letterario tradizionale si sfalda e il centro del campo estetico viene conquistato da due forme sostanzialmente nuove: la lirica moderna e il novel. Questa, nella periodizzazione di Jameson, ed è una lettura che corrobora le antiche intuizioni di Lukács, è “l’età del realismo”, l’età, fra gli altri, di Scott e di Balzac, di Hegel, di Beethoven e di Smith.
Dalla seconda metà dell’Ottocento diventa visibile, perché determinante, un nuovo poderoso salto tecnologico: l’invenzione dei motori elettrici, dei motori a scoppio, quindi lo sviluppo dell’industria chimica. Sono questi gli anni dell’invenzione del telegrafo e delle ferrovie. Successivamente, delle automobili, del telefono, della radio e degli aereoplani. Ognuna di queste invenzioni trasforma radicalmente l’uso e la percezione dello spazio e del tempo.
Del resto, questo mondo progressivamente rimpicciolito è anche un mondo progressivamente conosciuto, conquistato, controllato e spartito: il 1881 è la data del congresso di Berlino. Poi verranno le guerre mondiali. Secondo Jameson, è solo a questo punto dello sviluppo del capitale che diventa avvertibile e tragico il contrasto fra il nuovo universo sociale e percettivo costruito e plasmato dalle macchine e tutto ciò che, pur coabitandovi, tuttavia riesce ancora a preservarsi, rimanendone al di fuori, segno antropomorfico millenario in un universo sempre più accelerato e non-umano.
Di questa precisa contraddizione il modernismo è la soluzione simbolica. Che potenzi la forma come resistenza aristocratica ad un presente minaccioso (come, per esempio, in Flaubert, Proust o Mahler) o che viceversa esalti la modernità tecnologica attraverso strategie di luddismo estetico (e si pensi anche solo a Rimbaud, Marinetti, a Duchamp o a Beckett), quello che è comune alle due strategie è la percezione di essere in bilico fra due mondi, di percepirli, nel bene e nel male, ancora come differenti e antagonisti: Freud e Nietzsche, Einstein e Svevo, Keynes e Schönberg, Lenin e Le Corbusier, Ford e Ejzenstejn.
Non è un caso, secondo Jameson, che proprio in questi anni diventino centrali due concetti estetici: il concetto di “stile” e il concetto di “genio”. Entrambi esprimono la possibilità della totalizzazione del differenziato anticipata nella forma – ed è compensazione simbolica di un’oggettiva dépossession du monde, che nessuna esperienza personale potrà ormai più colmare – oppure pretesa, rischiata, combattuta nella politica – ed è la storia tragica, quanto meno negli esiti, del movimento operaio e delle rivoluzioni comuniste mondiali. Il modernismo esprime la sostanza di questa tumultuosa età di lotta fra forze oppositive, tanto nella possibilità di un nuovo equilibrio fra mondo umano e sistema delle macchine; quanto, viceversa, nella possibilità oggettiva del suo annientamento: Auschwitz e Hiroshima.
Il terzo salto tecnologico è spinto dall’invenzione dei motori nucleari e dalla cibernetica, a partite dagli anni Quaranta del secolo scorso negli Stati Uniti; più o meno dall’inizio degli anni Sessanta nell’Europa occidentale. Quello che è fondamentale capire di questa nuova trasformazione è, secondo Jameson, l’inedita capacità meccanica di plasmare le forme elementari della percezione umana, di invadere, in poche parole, il dominio dell’estetica.
Quindi, di elaborare, produrre ed esprimere cultura. Le nuove macchine, infatti, non producono oggetti, ma ri-producono il mondo. Sono depositi sconfinati e non-umani di linguaggio e di memoria. Della presenza, per quanto residuale, di un universo ancora pre-moderno cancellano la percezione, le tracce; e soprattutto la possibilità del ricordo. Si pensi anche solo a come sono stati trasformati la Natura e l’Inconscio, elementi ancora simbolicamente caricati e percepiti nelle età precedenti come irriducibili al processo di modernizzazione.
Secondo Jameson se lo sviluppo dell’industria culturale colonizza il secondo, invadendo l’immaginazione, manipolando il desiderio, estetizzando le pulsioni, l’industrializzazione dell’agricoltura, l’impiego della chimica e delle biotecnologie genetiche per il suo sviluppo intensivo, trasforma definitivamente la prima, il suo uso, il suo controllo, la sua conoscenza.
Di questo nuovo universo percettivo non antropomorfico il postmodernismo è la traduzione simbolica: dall’architettura di Las Vegas agli aeroporti internazionali, dalla pop art di Andy Warhol alla musica elettronica, dal movimento punk a quello new age. E, soprattutto, la video art che, insieme a design e architettura, occupa il centro del sistema estetico postmoderno. Per quanto il nuovo universo percettivo escluda a priori la possibilità dello stile, essendo l’età nella quale le macchine hanno conquistato il dominio dell’espressività, si possono ricordare almeno gli autori sui quali Jameson concentrerà il suo implacabile sguardo diagnostico: fra gli altri, David Lynch, Claude Simon, Frank Gehry, Robert Gober.
Come si vede, il ragionamento alla base di questa periodizzazione, tanto affascinante quanto discutibile, è di natura economico/tecnologica. Nella lettura di Jameson le trasformazioni tecnologiche sono sintomi, vettori periodizzanti di mutazioni molto più vaste. Il suo sguardo acrobatico si sofferma però solo sul loro impatto sociale e sensorio: marxianamente, è uno sguardo che non supera mai la soglia della sfera della circolazione.
Lontanissima da quest’analisi l’idea che i salti tecnologici siano anche momenti di conflitto interni alla storia dell’uso capitalistico della scienza. E che quest’ultima, incorporata nello sviluppo delle macchine, produca un’innovazione per lo più comandata contro il lavoro vivo e quasi sempre trasformata in un’arma nella competizione infra-capitalistica. Jameson preferisce adottare lo sguardo neutro e scettico dell’osservatore partecipante; scelta decisamente eccentrica, per un intellettuale che si autodefinisca marxista.
La sua periodizzazione infatti descrive solo la storia della progressiva espansione del dominio delle macchine su tutte le dimensioni dell’esistenza umana fino a conquistare, nel postmoderno, le forme elementari della percezione. Quello che rivela, infatti, l’analisi dell’estetica contemporanea, non è altro che il formarsi di una nuova e precisa antropologia: «il postmoderno deve essere visto come la produzione di persone postmoderne capaci di adattarsi ad un preciso e peculiare mondo socioeconomico»7.
Ed è questa la tesi che sostanzia il secondo movimento di fondo della sua impostazione. L’analisi dell’eterogeneo universo estetico postmoderno, dal celebre confronto fra Van Gogh e Andy Warhol sulla trasformazione e sul declino dello stile espressivo, all’analisi della “nostalgia” come forma estetica dell’impossibilità della narrazione storica in Ragtime di Doctorow o nel film Body Heat di Kasdan, fino all’interpretazione dell’organizzazione dello spazio del Westin Bonaventura Hotel di Portman in Downtown Los Angeles, serve a Jameson come verifica della tendenza.
Il suo è uno sguardo diagnostico, l’uso dell’estetico è sempre sintomatologico. Per questa ragione l’analisi non è interessata ad esprimere giudizi di valore, ma al reperimento delle tracce, al riconoscimento degli indizi significativi. All’altezza di questo primo saggio, Jameson li raggruppa sotto tre costanti, correlate e interdipendenti: il declino della soggettività espressiva, l’implosione del tempo, l’equivalenza dello spazio. Sono tre lati di uno stesso triangolo: la forma generica della nuova antropologia plasmata dal sistema delle macchine.
1L’articolo è stato pensato e discusso da entrambi gli autori; in particolare, Daniele Balicco ha curato l’introduzione e i capitoli su Jameson e su Arrighi; Pietro Bianchi è autore del capitolo su David Harvey.
2 F.Lyotard, La condition postmoderne: rapport sur le savoir, Minuit, Paris 1979; tr. it. La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981
3 I due scritti fondamentali di Jameson sul postmodernismo sono: F. Jameson, Postmodernism or the Cultural Logic of Late Capitalism, Duke University Press, Durham, 1991 (tr.it Postmodernismo ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2007); Id, The Cultural Turn. Selected Writing on the Postmodern 1983-1998, Verso, London-New York 1998.
4 Id, Political Unconscious. Narrative as a Socially Simbolic Act, Cornell University Press, Ithaca 1981 (tr.it. L’inconscio politico. La narrativa come atto socialmente simbolico, Garzanti, Milano 1990).
5 F. Jameson, Postmodernism and Consumer Society, in Aa. Vv., The Anti-Aestetic. Essay on Postmodern Culture, a cura di H. Foster, Bay Press, Port Townsend 1983, pp. 111-125.
6 Id, Postmodernism, cit, p. IX.
7 Ibidem, p.XV.

Bibliografia

F.Jameson, Marxism and Form. Twentieth-Century Dialectical Theories of Literature, Princeton University Press, NJ 1971 (tr.it Marxismo e forma, Liguori, Napoli 1975).
Id, Political Unconscious. Narrative as a Socially Simbolic Act, Cornell University Press, Ithaca 1981 (tr.it. L’inconscio politico. La narrativa come atto socialmente simbolico, Garzanti, Milano 1990).
Id, Postmodernism or the Cultural Logic of Late Capitalism, Duke University Press, Durham, 1991 (tr.it Postmodernismo ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2007).
Id, Archaeologies of the Future. The Desire Called Utopia and Other Science Fictions, Verso, London 2005 (tr.it Il desiderio chiamato utopia, Feltrinelli, Milano 2007)
I.Buchanan, Fredric Jameson: live theory, Continuum, London-New York 2006.
M.Gatto, Marxismo culturale, Quodlibet, Macerata 2011.

El tigre nicaragüense y las emociones del contrapoder

El tigre nicaraguense y las emociones del contrapoder. José Luis Rocha. 23 de abril 2018.

Cuentan que el 31 de mayo de 1911, cuando el dictador mexicano Porfirio Díaz estaba a punto de abordar en Veracruz el barco que lo llevaría a su exilio en París después de haber perpetrado su último fraude –el único fallido en sus más de tres décadas de gobierno- contra el Partido Antirreeleccionista liderado por Francisco Madero, emitió una de las frases más proféticas de las muchas harto memorables que se le atribuyen: “Madero ha soltado al tigre, vamos a ver si puede controlarlo.” El tigre es el pueblo, pero no cualquier “pueblo”: es el pueblo de las revueltas, asonadas y turbulencias, capaz de excesos y acciones imposibles de vaticinar como la Primavera árabe, la caída del muro de Berlín, el derrocamiento del Sha de Irán en cuestión de horas, las masivas deserciones del ejército del Zar que precedieron a la revolución de octubre, etc. No hubo sibila ni analista social capaz de otear los síntomas previos de estos levantamientos en un horizonte que hasta la víspera lucía despejado. Por eso la historiadora Theda Skocpol sostiene que las revoluciones no se producen, simplemente ocurren.

El tigre parecía reposar en prolongado letargo. Algunos hablaban de la fatiga de la guerra. De la apatía política de las nuevas generaciones de jóvenes. Otros de la decadencia y cooptación de los movimientos sociales. En todo caso, es un hecho que los nicaragüenses resistimos la subida del IVA al 15% y otras reformas fiscales impopulares, no menos de cuatro fraudes electorales, un pacto de villanos entre los dos partidos políticos más fuertes, la inconstitucional reelección consecutiva, la persecución de las ONGs y el desmantelamiento de la independencia de los poderes del Estado sin serias conmociones, aunque no sin protestas y propuestas. Los cuatro gobiernos de la posguerra, de muy diverso cuño cada uno, tuvieron un denominador común: ante el turismo y la inversión extranjera vendieron a Nicaragua como un remanso de paz, en marcado contraste con el triángulo norte de Centroamérica. Hasta que alguien o algo soltó al tigre en Nicaragua. O el tigre saltó porque le tocaron los huevos. ¿Cómo se los tocaron?

Todo empezó con las protestas que suscitó el negligente manejo por las entidades estatales del incendio en la reserva Indio-Maíz, que afectó a más de cinco mil hectáreas de bosque. El incendio forestal empezó a propagarse como incendio político a todo el país cuando jóvenes universitarios se manifestaron, protestaron y fueron vilipendiados por el jefe de la bancada sandinista en la Asamblea Nacional Edwin Castro, profesor de derecho constitucional de la Universidad Centroamericana (UCA) en Managua. A los insultos del diputado, los estudiantes respondieron irrumpiendo en su clase del jueves 12 de abril y, al grito de consignas y a horcajadas sobre una ventana a modo de exótico podio, dieron lectura a un comunicado. La grabación de este acto circuló en las redes sociales. Algo se había roto. ¿Qué cosa? Un tabú. Edwin Castro fue el primer funcionario del régimen en recibir un repudio explícito en un ámbito que seguramente considerada como un coto vedado a sus adversarios. Ocurrió lo impensable e impracticable. Y su reporte audiovisual se diseminó como semillas de ceibo.

Seis días después, con los rescoldos aún humeantes del encontronazo con Castro, vino la aprobación sin consenso de las reformas a la seguridad social: 5% de reducción de las pensiones y un aumento de las cotizaciones desde el 6.25% al 7% para el trabajador y desde el 19% al 22.5% para el empleador. Ese fue el inicio inmediato que rebalsó un acumulado de dos quinquenios y pico: el destape de las millonarias mansiones que en Costa Rica y en España compró el Presidente del Consejo Supremo Electoral Roberto Rivas, más de cuatro fraudes electorales, la represión a las ONGs, el control de los fondos de la cooperación externa, el monopolio de la publicidad estatal por empresas de los hijos de Ortega-Murillo, las concesiones a las empresas mineras, el monopolio de las empresas que prestan servicios de salud a la seguridad social, los oligopolios del mercado de medicamentos y similares, y un larguísimo etcétera que llenaría tratados y enciclopedias.

El tigre saltó con rabia a las calles. Los movimientos y cambios sociales los hacen los tigres, es decir, las masas viscerales. Los reclamos de un cambio se hacen con las vísceras por la sencilla razón de que los poderosos se resisten a que le arrebaten la tajada del león mediante el diálogo y palabras persuasivas. En su libro “Redes de indignación y esperanza”, el sociólogo Manuel Castells, que ha acompañado y estudiado por décadas a diversos movimientos sociales –desde el mayo del 68 en París hasta el de los indignados en España-, destaca el papel de las emociones en la política. Si el poder busca cohibir el cambio amedrentando a la población, el contrapoder logra sus objetivos cuando el tigre vence el miedo y se llena de ira y esperanza.

El episodio con Edwin Castro fue un punto de inflexión de pérdida del miedo y del hervor de la ira. La ira puede ser canalizada porque encontró un punto de convergencia: el FSLN, que en estos momentos es identificado con todas las formas de expolio: el asalto a la caja de la seguridad social, las mafias madereras y la deforestación, el extractivismo e incluso el narcotráfico, entre otros males acuciantes. Como sucedió cuando Somoza, el somocismo era un sistema ligado a dinámicas supranacionales del capitalismo que escapaban a su control y lo trascendían. En ese sentido, no era responsable exclusivo de todos los males. Pero como era un sistema bien incardinado en esas dinámicas y tenía un hombre fuerte que lo encarnaba –Anastasio Somoza-, la rabia pudo encontrar un objetivo concreto, un lenguaje pintoresco y ser canalizada.

El FSLN es el nudo fontal de los expolios. No es su causante exclusivo y no dudo que la mayoría de ellos existiría incluso en ausencia del FSLN, como ocurre en el resto del istmo, donde los expolios son ejecutados por partidos políticos que ni en raíces ni en retórica guardan afinidad con el FSLN, si exceptuamos –hasta cierto punto- al FMLN. Pero en las últimas dos décadas –incluso antes de asumir el poder-, el FSLN les ha insuflado aliento, dado forma y provisto de manos y cabezas. Y además de esto, ha aportado su particular versión de los medios para perpetuar el sistema, no enteramente original si levantamos un poco la vista de este tiempo y lugar: gamberros que contienen a la oposición a morterazos, compra de clientela política con cargos, láminas de zinc y sacos de frijoles, proclamación de un estado confesional, autoidentificación como socialistas y una cosmética kitsch que abigarra con colorines las bancas en la calle, las pancartas y los memos oficiales.

En las calles de Managua, impregnada hasta el hartazgo por esa cosmética como una forma de apropiación política del espacio, la rabia se ha enfocado primordialmente sobre los “chayopalos”, antes llamados “arbolatas”, los árboles metálicos gigantescos y de colores que Rosario Murillo ha sembrado en la capital. Son los símbolos del régimen. Sobre ellos se ensaña la odiosa pero recurrente economía jurídica del ojo por ojo. En desquite por la negligencia con la que el gobierno enfrentó el incendio en la reserva Indio-Maíz, los manifestantes empezaron a deforestar Managua, podando y quemando sin misericordia los “chayopalos” con que la Vicepresidente ha ido construyendo la que la vox populi ha bautizado como reserva Chayo-Maíz.

El incendio político se ha extendido a decenas de ciudades y numerosos puntos de la capital. El asedio al que los manifestantes han sido sometidos por policías, fuerzas antimotines y miembros de la Juventud Sandinista ha cobrado más de 20 muertos comprobados hasta el domingo 22 de abril, con un sobresaliente desbalance en perjuicio de las fuerzas de la oposición. Hay también más de 40 desaparecidos y decenas de detenidos. La dispersión de energías y la falta de organicidad de quienes protestan no permiten vaticinar el derrotero de esta lucha. Intentando desmarcarse de la propuesta del Consejo Superior de la Empresa Privada (COSEP), que se conforma con una marcha atrás en las reformas en seguridad social, un grupo de estudiantes universitarios dieron a conocer un pliego de peticiones donde reclaman una mesa de diálogo amplia que no se reduzca al COSEP, anular la reforma, investigación de los asesinatos, destitución inmediata de todos los alcaldes, otros funcionarios públicos y jefes de la policía que protegieron a los vándalos en contra de los estudiantes, restablecimiento de la libertad de expresión y la señal de los medios censurados, libertad de los encarcelados por manifestarse, independencia de los poderes del Estado, investigación del enriquecimiento ilícito de los funcionarios públicos y devolución de lo robado, renuncia inmediata de Daniel Ortega y todo su gabinete, y convocar a elecciones libres. En caso de no quedar satisfecho, el tigre seguirá al ataque o al acecho.

¿Refundar o superar al PT?

¿Refundar o superar al PT?

El Partido de los Trabajadores debe realizar una autocrítica a la luz de los últimos resultados electorales. La izquierda precisa reconstruir su hegemonía.
Por Esther Solano
Octubre 2016

¿Refundar o superar al PT?

Los procesos de impeachment resultan traumáticos porque implican una fuerte ruptura en la estabilidad democrática e institucional. En Brasil, este trauma tuvo una dosis aún mayor de dramatismo porque expresó el colapso del sistema representativo en formato de presidencialismo de coalición y, a la vez, el ocaso del Partido de los Trabajadores (PT), cuyo proyecto representaba la hegemonía del campo progresista hasta hace algunos años.

La primera cuestión es de orden sistémico. Urge realizar una reforma política de gran envergadura que acabe con algunas de las aberraciones que invaden cotidianamente la política brasileña. La fiscalización eficaz de las «donaciones» ilegales en campañas electorales, la disminución del número de partidos con representatividad en las cámaras para facilitar la gobernabilidad y el fin de las coligaciones entre partidos para no desvirtuar el sistema de representación constituyen aspectos muy sensibles y sin los cuales el sistema político brasileño continuará en crisis. El problema es que estas reformas de gran calado precisan un mínimo consenso social y una situación de calma política para que se dé un debate serio y cauteloso. Esto es justamente lo contrario a lo que sucede hoy en el país.

Brasil se está acostumbrando a vivir en un estado de catarsis continua y de permanentes interrupciones en su escaso sosiego social. En este estado neurótico en el que la política de «adversarios» ha sido reemplazada por la de «enemigos» y en el que se está rompiendo el diálogo, no existe espacio alguno para la discusión programática. El debate sobre el país que queremos, sobre el modelo de sociedad y sobre las reformas necesarias para conseguirlo, carece de un contexto político propicio.

El gobierno de Michel Temer será incapaz de devolver la normalidad al país. Su fragilidad se deriva de dos aspectos fundamentales. Por un lado, la falta de confianza de la población1 hacia su liderazgo. Por otro, la heterogeneidad y la inconsistencia de sus aliados y sus bases de apoyo. Temer ni siquiera lidera realmente su propia organización –el Partido del Movimiento Democrático Brasileño (PMDB)– que, más que un partido, parece la aglomeración de un conjunto de caciques regionales con muchas divergencias. A esto se suman las primeras elecciones presidenciales de 2018 en las que algunos de los aliados circunstanciales de Temer, como el Partido de la Social Democracia Brasileña (PSDB), se convertirán en enemigos. El tiempo de las puñaladas se acerca. Los mercados esperan ansiosamente reformas de cuño liberal: recortes, ajuste fiscal, disminución de gastos públicos, reforma laboral y cambios en el sistema jubilatorio. A menos de dos años de la próxima elección, ¿votará el Congreso a favor de estas reformas impopulares?

¿Y qué sucede con la izquierda? Durante mucho tiempo, las opciones progresistas en Brasil orbitaron en torno del PT. Tanto los sindicatos como los movimientos sociales fueron absorbidos por el poder petista y perdieron así gran parte de su autonomía. Sin embargo, el PT se institucionalizó, llegó al poder y para mantenerse en él tuvo que vender su alma de partido renovador de izquierda que venía de las bases y que respondía a ellas. En definitiva, se alejó del pueblo, se alejó de la izquierda y se transformó en un partido que no consigue representar las demandas de las mujeres, de los negros, de los indígenas y de los habitantes de la periferia. A esto se suman los enormes efectos políticos de la operación Lava Jato, uno de los cuales es un importante sentimiento que identifica al PT con prácticas corruptas.

El ejemplo más contundente de la decadencia petista es el dramático resultado de las elecciones municipales celebradas el pasado 2 de octubre. El PT perdió 59,4% de las alcaldías en todo el país. En San Pablo, donde Fernando Haddad, el candidato petista, disputaba la reelección, no fue ni siquiera necesario una segunda vuelta electoral. João Dória, del PSDB, ganó con 53,3% de los votos. La derrota de Haddad es grave, ya que representaba una posibilidad de renovación dentro del partido y era uno de los pocos dirigentes con cierta proyección. Los beneficiarios de esta debacle son el PSDB –que ganó 15,3% de los municipios– y una gran gama de partidos pequeños con poca capacidad programática y que a menudo representan proyectos personalistas de poder. El próximo congreso del PT, que se celebrará dentro de poco, evaluará el resultado de las elecciones. Las decisiones que deberán tomarse tendrán que partir de una severa autocrítica. La operación Lava Jato, claramente selectiva y partidaria, acabó golpeando duramente al PT, pero si este queda anclado en el discurso del victimismo y la persecución política sin hacer una profunda reflexión, el declive continuará.

Nos enfrentamos, por tanto, a dos desafíos. El primero es reconfigurar y refundar el PT para que vuelva a acercarse a sus bases y a su programa original. Desgraciadamente, la dirección del partido está lejos de demostrar que considera importante esta renovación. Continúan las viejas alianzas, continúan las maniobras que lo llevaron a esta decadencia y lo alejaron de la izquierda. Si el PT no realiza la esperada reforma interna, deberemos comenzar a reconstruir la izquierda por fuera de la hegemonía petista, cimentada tal vez en un pospetismo que permita pensar en nuevas formas de hacer política y que articule nuevas agendas para volver a acercar la política a los ciudadanos. El actor más relevante en este proceso es el Partido Socialismo y Libertad (PSOL), que se ubica como la izquierda del PT y que, a pesar de ciertas posturas reprobables, es una de las organizaciones que habilitan el resurgimiento del debate sobre el progresismo. Lamentablemente, aún no encontró una fórmula de crecimiento electoral que le permita tener posibilidades de disputar la Presidencia o aumentar el número de diputados.

Toda crisis es un momento de oportunidad. El campo progresista en Brasil está catatónico pero, una vez superado el trauma colectivo del impeachment, deberá pensar en formas de organización para la lucha por derechos, tanto en el campo institucional como en las calles. Habrá quien afirme que un clima de apatía política se apoderó de los brasileños. Lo cierto es que cada vez más personas se muestran desinteresadas por la política institucional, pero no es menos cierto que existen nuevas e interesantes dinámicas de jóvenes en lucha. Las escuelas de estudiantes secundarios que fueron ocupadas durante meses como respuesta al proyecto de reorganización escolar del gobierno de San Pablo son el mejor ejemplo. El desafío es colocar en diálogo a la izquierda más institucional con estas nuevas formas de movilización.

Si la izquierda está pasando momentos de debilidad, los discursos conservadores y punitivos están ganando un espacio muy representativo tanto en el Parlamento como en las calles. En una investigación que llevé a cabo junto con el profesor Pablo Ortellado durante las manifestaciones en favor del impeachment, pude percibir el componente clasista y racista de las protestas. La inclusión social a través del consumo de millones de brasileños durante el periodo petista creó en Brasil un clima de tensión de clases y de discursos de odio que está muy presente en las rutinas políticas y sociales. 70,9% de los manifestantes afirmaba que las becas universitarias fomentan el racismo; 60,4%, que el programa de redistribución de renta Bolsa Família «financia a perezosos»; 86,40%, que la mejor manera de conseguir una sociedad en paz es aumentar las penas a los criminales y 70,40% afirmaba creer en el discurso de la meritocracia2. Con una izquierda frágil, el conservadurismo fundamentalista, punitivo y retrógrado gana más espacio. Propuestas de ley como la de flexibilización en la portación de armas, la reducción de la mayoría de edad penal o proyectos como el polémico «Escuela Sin Partido», que prohíbe las manifestaciones políticas de profesores y alumnos dentro de los colegios, avanzan rápidamente.

Si el gobierno de Temer no naufraga antes, enfrentaremos un 2018 muy complicado. No sabemos si Luiz Inácio Lula da Silva llegará a las elecciones o si su candidatura se verá comprometida por el Lava Jato. Si llega, los datos apuntan a que estaría en primer lugar en intención de voto3, dada la ausencia de un rival con su capital político en los partidos de oposición. Pero 2018 todavía está lejos y nos enfrentamos a un reto más inminente: ¿cómo reconstruir el campo de la izquierda? ¿Cómo absorber la riqueza de las movilizaciones populares que se suceden en las ciudades brasileñas e incorporarlas al debate institucional? En definitiva, una pregunta flota en el aire: ¿hay que refundar o hay que superar al PT?

1.

http://g1.globo.com/politica/noticia/2016/07/aprovacao-do-governo-temer-e-de-13-diz-pesquisa-ibope.html Las últimas encuestas nacionales de opinión muestran que sólo 13% de los brasileños aprueba el gobierno Temer
2.

Datos completos de la investigación llevada a cabo en las manifestaciones favorables y contrarias al impeachment https://gpopai.usp.br/pesquisa/
3.

http://datafolha.folha.uol.com.br/eleicoes/2016/07/1792816-com-rejeicao-menor-lula-lidera-corrida-eleitoral-por-presidencia-em-2018.shtml

Lula-PT… o el drama de un entrampamiento político–moral

Lula-PT… o el drama de un entrampamiento político–moral
Por: Narciso Isa Conde | Viernes, 13/04/2018 09:53 AM | Versión para imprimir

“Después de trabajar junto a los movimientos populares para construir una nueva propuesta, un pequeño número de dirigentes mete el pie y el alma en la corrupción, comprometiendo todo el proyecto. (Frei Betto*, REBELIÓN 2005)”

El liderazgo de Ignacio –Lula- Da Silva surgió de las entrañas combativas de la clase obrera brasileña, del sindicalismo clasista y de las heroicas luchas contra la feroz dictadura militar que ensangrentó ese hermano país en la décadas de los 60 y 70.

Con el aliento de su fuerza carismática se conformó entonces el Partido de los Trabajadores-PT, que devino en factor gobernante luego de su incursión en la vida legal-electoral y de recorrer un proceso de crecimiento y avances significativos al interior del Estado y del sistema político liberal establecido en la etapa post-dictadura.

METAMORFOSIS DEL PT Y DE LULA.

De expresión del movimiento obrero y fuerza articulada a un gran abanico de movimientos sociales en lucha (sin tierra, sin techo, comunitarios, feministas, negritud, cristianos de la liberación…) el PT se transformó en otra cosa, conservando en sus bases importantes factores de su acumulado original.

De confluencia de una gran diversidad de corrientes políticas socialistas revolucionarias, transformadoras, reformadoras y reformistas, el PT paso a paso condicionado por la integración al sistema de una gran parte de sus funcionarios electos y no electos, de sus profesionales políticos e intelectuales conformó en su interior un enorme aparato burocrático y tecnocrático hegemónico distanciado de las luchas sociales y de su ideario original, presente de todas maneras en sus bases sociales de apoyo.

Así, paso a paso – y no sin agudas contradicciones y luchas internas que perduran- en su dinámica político-social- la dirección hedemónica del PT fue resignando todo propósito destinado a remplazar, e incluso a reformar profundamente, el poder constituido; tanto en lo relacionado con sus bases constitucionales y con el carácter de sus instituciones como con las estructuras de propiedad, el dominio de clase, las instituciones armadas y las esencias de la formación económica-social brasileña caracterizada por una elevada concentración del capital con vocación imperialista.

Finalmente, esa dirección del PT incluido Lula optó por administrar el Estado y las estructuras económicas y sociales tal y como estaban conformadas o con limitadas modificaciones, ya fuera en sus periodos de bonanzas y estabilidad como en fases de crisis como la que le tocó administrar a Dilma Rousset.

Todo esto, claro está, acompañado de una fuerte y positiva inclinación a favor de mejorar y ampliar los alcances y la distribución del ingreso nacional, aprovechando los mejores episodios de su economía y los momentos más favorables en su inserción en el mercado mundial. Igual también presentes ciertas concesiones a los reclamos de los movimientos sociales afines, algunos con más independencias que otros

PACTOS DETERMINANTES.

El Presidente Lula pactó de entrada con la gran burguesía paulista.

Pactó con una parte de los partidos del orden establecido, compitiendo a la vez con sus principales adversarios; esto en interés de garantizar la gobernabilidad sistémica sin mayores expectativas.

Aceptó de hecho, si aplicar medidas que pudieran revertirlas, las contrarreformas estructurales de los programas neoliberales anteriores a su gestión; limitándose a contener y contrarrestar una parte de sus efectos más perversos con su audaz programa HAMBRE CERO, reducido luego a un mega-programa asistencialista con espectaculares resultados en lo inmediato, pero con frágiles perspectivas de consolidación y permanencia.

Asumió como política propia la expansión del imperialismo emergente brasileño dentro de una dinámica de competencia y entendimientos parciales con EEUU, sin resignar la soberanía de Brasil ni su propia vocación transnacional, especialmente de cara a nuestro continente; aunque dentro de ese juego ambivalente incurrió en el error histórico de acompañar al PETAGONO en la intervención militar a Haití.

Lula, en lugar de reflexionar sobre las consecuencias negativas y comprometedoras de esa opción, y en vez de emplear su liderazgo obrero-popular para frenar ese curso negativo de su gestión (auspiciado por una parte de la intelectualidad del PT), la alentó y decidió liderarla; evidentemente deslumbrado por las entonces imperantes condiciones de mercado (muy favorables para Brasil y sus exportaciones) y por las posibilidades pasajeras de potenciar sus programas sociales asistencialistas aun evadiendo los necesarios cambios estructurales.

Tal decisión y tales condiciones le permitieron convertir el PROGRAMA HAMBRE CERO inicialmente concebido para transformar el modo de vida, de ingreso y producción de los/as excluidos/as en puro asistencialismo con efectos temporales o pasajeros y perspectivas de declinación.

Ese paso provocó la renuncia en diciembre del 2004 de Frei Betto, hasta entonces director de ese programa; evidentemente disgustado por esa determinación oficial y por las primeras señales de corrupción gubernamental en la alta dirección petista.

UN GIRO HACIA LA POLÍTICA TRADICIONAL Y ASOCIACIÓN CON GRANDES CONSORCIOS.

En ese contexto y al compás de la consolidación y ampliación de las exigencias del voluminoso aparato parlamentario, estadual, municipal y partidocrático del PT el Presidente Lula y la alta dirección del su partido se inclinaron por un ejercicio político cada vez mas impregnado de métodos propios de las derechas (clientelismo, reparto de cuotas de poder, alianzas al margen de una ética revolucionaria…) y por una mayor dependencia del financiamiento empresarial (estatal y privado), sin renunciar en ese contexto a ciertas concesiones a su base social originaria posibles de instrumentar presupuestariamente.

Así las cosas, la poderosa empresa petrolera estatal PETROBRAS –favorecida entonces por los altos precios del petróleo- se convirtió en un pilar de esa dinámica política y junto al Banco de Desarrollo Económico y Social-BANDES (fundado por Lula) y las grandes corporaciones transnacionales constructoras (entre ellas ODEBRECHT, AMDRADE GUTIERREZ y VOA SAO PAULO), constituyeron de hecho –siempre en relación con el Presidente Lula, dirigentes del PT, partidos aliados y altos funcionarios públicos- una gigantesca maquinaria de fondos clientelares, sobornos, sobrevaluaciones, financiamientos políticos, privilegios y tráfico de influencia que trascendió las fronteras de Brasil.

A la lógica pro-constructoras obedecieron las costosas inversiones en las olimpiadas y en el mundial de futbol en detrimento de la inversión social, sobretodo en educación y salud; motivo de grandes protestas sociales.

A ese juego endiablado y peligroso fueron incorporadas además las empresas publicitarias y de marketing político de JOAO SANTANA y su esposa MÓNICA MAURO, con la misión de jugar un papel relevante en la promoción de candidaturas, creación de imagen, financiamientos y asesorías de campaña a nivel nacional e internacional.

DIMENSIÓN INTERNACIONAL DE LAS OPERACIONES.

Al tratarse de corporaciones transnacionales brasileñas en abierta competencia con las estadounidenses y europeas, las operaciones no podían limitarse al territorio de Brasil, sino que los diferentes componentes de esa maquinaria multi-empresarial y estatal (unos más, otros menos) optaron por jugar ese papel en ultramar a partir de las facilidades que les ofrecían las relaciones políticas y estales del PT y su Gobierno; haciendo uso, claro está, de sus fondos para sobornar, financiar y obtener enormes ventajas en los países seleccionados.

En esos planes de expansión jugó un papel destacado la asesoría electoral y publicitaria de la familia SANTANA-MAURO.

No voy a adentrarme aquí en todos los casos latino-caribeños relacionados con la corruptela de ODEBRECHT, ANDRADE, VOA Y EMBRAER; situación oportuna y pérfidamente aprovechada por su competencia norteamericana a todos los niveles: político, económico, judicial, moral…Pese encarnar prácticas iguales y aun peores, debidamente protegidas, encubiertas o silenciadas por la dictadura mediática y el poder militar “made in usa”. Si no que se indague casos como los de Earon, Hally Burton, Grupo Trump, Barry Gold, General Electric…

Pero sí entiendo imprescindible darle unas pinceladas al caso dominicano en relación con ese fenómeno escandaloso y escandalizado. Esto para que se entienda, que pese a todo lo que significó positivamente Lula para el campo de las fuerzas populares y de izquierda en este país, aquí no es posible, sin pecar de encubrimiento, ignorar el daño político, moral y económico derivado de las relaciones privilegiadas del PT y LULA con la cúpula del PLD y los gobiernos corruptos y corruptores de LEONEL FERNÁNDEZ y DANILO MEDINA.

Tampoco es posible alterar la convicción que tienen amplios y diversos sectores de la República Dominicana acerca de las responsabilidades específicas e injustificables de Lula y la cúpula del PT en el impacto moralmente degradante tanto del caso ODEBRECHT como de la EMBRAER-SUPERTUCANOS, y en lo relacionado con la expansión de la corrupción política, empresarial y militar en nuestro país; lo que en el caso de Lula evidentemente no se relaciona con el enriquecimiento personal, sino más bien con una corrupción sistémica empleada en términos políticos.

Los sentimos por Lula, que pese ha haber sido –y seguir siendo en buena medida- el principal líder político de Brasil, se dejó entrampar en esa madeja de delitos políticos y empresariales interestatales, previa degradación de la original política revolucionaria y de izquierda del PT. Pero los hechos son los hechos:

LOS HECHOS EN DOMINICANA.

La cúpula del PT de Brasil optó -sobre todo al iniciarse el segundo periodo (2008) del gobierno del Partido de la Liberación Dominicana-PLD- por una relación política preferencial con la alta dirección de ese partido, que previamente se había neo-liberalizado y corrompido en alianza con el Partido Reformista Social-Cristiano liderado por Balaguer; relación que abrió paso a una fuerte, duradera y rentable CONEXIÓN del corrompido y corruptor cártel brasileño en REPUBLICA DOMINICANA.

Esta CONEXIÓN DOMINICANA, débilmente iniciada durante el gobierno de Hipólito Mejía, se desplegó durante los ocho años siguientes de la presidencia de Leonel Fernández (incluyó el contrato-estafa para la adquisición de los aviones Super-Tucanos con la EMBRAER brasileña, una parte de los 15 contratos sobrevaluados en favor ODEBRECH y los sobornos correspondientes), enlazó con la candidatura presidencial de Danilo Medina en el 2011 y continuó reforzándose durante su primer gobierno y su actual gestión, en la que se registra la súper-estafa del contrato de las plantas de carbón de Punta Catalina.

LULA, desde la presidencia de Brasil hizo de intermediario y cuando salió de ella se dispuso a hacer de “lobista político”, sin reparar en la consecuencias.

LEONEL fue el primer socio político y el principal beneficiario económico en dominicana hasta el 2012, con logros significativos iniciales para ODEBRECH y para otras empresas dominicanas y brasileñas, destacándose obras como el ACUEDUCTO DEL NORDESTE y la compra sobrevaluada e innecesaria de los SUPER-TUCANOS.

El descarte de LEONEL como referente presidencial dominicano se produjo entre el 2011 y 2012, a consecuencia de su descrédito y de su desgaste político, y ante el riesgo brasileño de perder la conexión estatal en República Dominicana si perdía el PLD..

En esa variación de la preferencia del PT gravitó la valoración mercadológica de JOAO SANTANA a favor de DANILO, quien inmediatamente visitó BRASIL, ganó el favor de los líderes del PT, estableció los primeros vínculos con su futuro asesor Joao Santana, apuntaló las relaciones con LULA, DILMA y Ejecutivos de ODEBRECH; desplazando de esa manera a LEONEL como socio político del CARTEL BRASILEÑO.

Ese paso fue consumado a raíz de la visita de Danilo Medina a Brasil y de sus entrevistas con Lula Y Dilma Roussef en el 2011, ya en su condición de candidato presidencial del PLD.

Desde ese momento se abrió el proceso hacia una fuerte implantación de JOAO SANTANA y POLIS/CARIBE (sucursal de POLIS-PROPAGANDA establecida discretamente en la calle Helios de Bella Vistas en Santo Domingo) hasta el extremo de sentar su sede el Palacio Nacional y convertir esa oficina en la Oficina Regional de los sobornos y financiamientos electorales de ODEBRECHT.

Asegurado el triunfo espurio de Danilo Medina, Lula visitó nuestro país y se entrevistó con el “presidente electo” a principio del 2013, acompañado de ALEJANDRINO ALENCAR, ejecutivo de ODEBRECH.

ODEBRECH ha admitido que invitó y financió a LULA a viajar para ayudar en diversos eventos a la expansión de las empresas brasileñas.

Tres meses después de la visita de LULA a República Dominicana se anunció la LICITACIÒN de las PLANTAS A CARBON de PUNTA CATALINA y en septiembre de ese año se aprobó el financiamiento de 656 millones de dólares a cargo del BANCO estatal de Brasil (BANDES).

Poco después se le asignó el contrato a la empresa brasileña y la STANLEY CONSULTAN en noviembre de ese mismo año declaró que solo la ODEBRECH clasificaba para esos fines, pese a representar un costo de casi mil millones de dólares más que lo ofrecido por su principal competidora.

Testimonios ofrecidos a la justicia brasileña dan cuenta además de los financiamientos de Odebrech a las campañas electorales de Danilo Medina- Margarita Cedeño en el 2012 y el 2016; algo impensable sin la mediación de Luis Ignacio – Lula- Da Silva.

Por demás, Temístocles Montás, ministro acusado de recibir soborno y financiamiento electoral, admitió uno de esos financiamientos.

¿Simple coincidencias o graves evidencias de culpabilidad compartida en la esfera de la corrupción como recurso de competencia política, no necesariamente empleado en todos los casos como factor de enriquecimiento personal?

Esas realidades son las que determinan, que a pesar de los meritos históricos y de la saña discriminatoria auspiciada por EEUU y las derechas brasileñas en contra de Lula y el PT, ese proceso judicial tenga cierto asidero en la manera como se ha manejado la cúpula del PT frente a la corrupción sistémica y su uso politiquero. Esos entrampamientos casi siempre resultan muy costoso políticamente.

Il tumulto dei Ciompi

Il tumulto dei Ciompi
by Italia.Medievale • 12 dicembre 2006 • Commenti disabilitati su Il tumulto dei Ciompi

di Ornella Mariani.

La stagione medievale compresa fra il 1289 ed il 1381 fu impegnata da una serie di rivendicazioni: un filo rosso segnò tutta l’Europa, legando le rivolte urbane della Fiandra alla ribellione rurale della Jacquerie francese di Jacques Bonhomme; l’insurrezione inglese di Tyler e Ball alla lotta dei Ciompi, non di rado saldando esigenze sociali ad interessi religiosi, come evidenzia la scheda di sintesi degli eventi:

1289: tumulto dei Follatori a Bologna;
1296/1306: tensioni nelle Fiandre di Douai;
1311/ 1313: ondata di scioperi in vari centri inglesi;
1320: protesta dei Pastorelli francesi;
1323/ 1328: sommosse contadine e urbane ancora in Fiandra;
1337: ostinate astensioni dal lavoro a Gand;
1340: disordini dei contadini in Danimarca;
1344: torbidi dei tessitori nella polacca Poznan;
1345: scontri a Firenze, per l’arresto di Ciuto Brandini, ideatore di una fratellanza tra cardatori e operai non aderenti alle Arti;
1345: ulteriori insurrezioni a Gand;
1346/1354: ribellioni antisemite accese dal contagio di peste in vaste aree fraco/tedesche;
1358: esplosione della Jacquerie nelle campagne francesi e sollevazione di Étienne Marcel a Parigi;
1363/ 1384: fermenti dei tuchins in Linguadoca e Piemonte;
1375/ 1395: proteste in Polonia contro il divieto di associazionismo dei lavoratori salariati;
1377: agitazioni in Boemia.
1378: moti a Puy e a Nimes;
1378: manifestazione dei Ciompi a Firenze;
1379/ 1381: incidenti a Gand,a Bruges e a Lubecca;
1381: marcia dei contadini su Londra ed assassinio del Primate di Canterbury.

Fra le circostanze elencate, ai fini della evoluzione del costume e dell’economia in Italia, quelle di Firenze furono certamente dotate di rilevante spessore.

A quel tempo, la gerarchia politico/sociale era costituita da un Popolo grasso, ovvero le ricche Arti Maggiori; un Popolo minuto, ovvero le borghesi Arti Minori; un Popolo magro, ovvero proletariato bracciantile, operai e commercianti minori collassati dalla crisi economica causata dalla Peste nera, nella seconda metà del ‘300.

I Ciompi, il cui nome derivava dalla corruzione del termine francese compère, erano lavoratori salariati della lana; appartenevano ad uno dei gradini più bassi della scala sociale; avevano come luogo di ritrovo la chiesa di santa Maria dei Battilani in Via delle Ruote; erano privi di rappresentanza nel sistema corporativo delle Arti e dei Mestieri e, pertanto, non godevano di alcuna attenzione politica e venivano pagati in quantità appena utile alla sopravvivenza, con una sottodivisione del fiorino.

La svalutazione del rame, col quale la moneta era coniata, fu all’origine della loro sommossa: nel 1378 essi accamparono il diritto di associazione e di presenza comunale, ponendosi fra i primi esempi di reazione economico/politica del Medio Evo.

La vicenda

Cominciò con le violente lotte fra la fazione aristocratico/borghese del Magistrato guelfo Pietro degli Albizzi, di Lapo di Castiglionchio e di Carlo Strozzi e la consorteria piccolo/borghese dei Ricci, degli Alberti, dei Medici, di Giorgio Scali e di Tommaso Strozzi colpiti nel 1372 dall’Ammonire: la legge, emanata nel 1347 ma inasprita nel 1358, condannava i ghibellini all’interdizione sine die dalle cariche pubbliche, accentuando l’ arroganza dei Capitani guelfi ed instaurando una odiosa politica della sopraffazione.

I primi sintomi di rinnovato malessere si manifestarono il 18 giugno del 1378 quando d’intesa con Alberti, Strozzi e Scali, il Gonfaloniere di Giustizia Silvestro dei Medici convocò il Collegio delle Compagnie e il Consiglio del Popolo proponendo una la rimessa in vigore per un anno degli ordinamenti giudiziari contro i Grandi; la diminuzione dell’autorità dei Capitani ed il reintegro degli Ammoniti nei loro uffici. Ma, a fronte dell’opposizione alle richieste, espressa la impossibilità a provvedere al pubblico benessere per l’ostracismo della Signoria, egli si dimise dall’incarico.

Le sue dichiarazioni, tuttavia, allarmarono il Consiglio del Popolo fino a rendere necessaria la presenza dei Priori che, lungi dal placare la concitazione, la accesero minacciando di morte i sostenitori degli Albizzi mentre Benedetto Alberti dalla finestra eccitava la gente al grido di Viva il popolo!

Chiuse le botteghe, la piazza si armò e il pericoloso fremito di reazione portò all’approvazione delle pretese avanzate da Silvestro. Il positivo risultato, però, produsse altre rivendicazioni; rimise in gioco la rivalità tra le Arti Maggiori e le Arti Minori; rilanciò il disagio degli Artigiani, subordinati alle soverchierie delle Arti.

Il 20 giugno le Corporazioni si riunirono e procedettero all’elezioni dei Sindaci per poi recarsi, munite di armi e bandiere, in piazza della Signoria ove ottennero la nomina di una Balìa di ottanta cittadini con facoltà di presentare riforme.

Mentre se ne selezionavano gli esponenti, alcuni membri delle Arti Minori con nutriti gruppi di contadini saccheggiarono ed incendiarono le abitazioni di Lapo da Castiglionchio, degli Albizzi, dei Bondelmonti, dei Pazzi, di Cario Strozzi, di Migliore Guadagni.

II 21 giugno, disorientata dai violenti incidenti del giorno avanti, la Balìa approvò importanti concessioni a favore del Popolo; revocò una serie di disposizioni riferite all’autorità dei Capitani ed emanò un’amnistia agli Ammoniti, limitandone l’esclusione dalle pubbliche funzioni ad un solo triennio.

Ripristinata la pace, furono eletti i Priori ed il nuovo Gonfaloniere, nella persona di Luigi Guicciardini: entrata in carica il 1° luglio, la Signorìa ordinò ai cittadini di deporre le armi; allontanò i protagonisti delle turbolenze dei giorni precedenti; assunse una serie di iniziative a garanzia della sicurezza pubblica.

Ma, malgrado le apparenze, gli animi erano ancora accesi; non era stato rispettato il disarmo e gli Ammoniti protestavano contro l’insufficienza dell’amnistia.

Le Corporazioni, pertanto, si riunirono nuovamente l’11 luglio ottenendo che: chi, dopo il 1320, avesse ricoperto una carica sociale di rilievo, non potesse essere ammonito e, se lo fosse già stato, venisse reimmesso nel suo diritto; il Capitanato di parte guelfa fosse sottratto alla fazione fino ad allora titolare; fossero imborsati i nomi dei futuri Capitani.

In definitiva, dai vantaggi restò escluso il solo Popolo minuto i cui esponenti, temendo d’essere puniti per l’adesione ai torbidi; impauriti dalle conseguenze dei saccheggi cui avevano partecipato ed aizzati da Simoncino Bugigatti, Paolo della Bodda, Lorenzo Riccomanni, organizzarono un piano segreto di difesa contro i provvedimenti della Signorìa che, edotta del complotto, ordinò l’arresto e la tortura del Bugigatti e di tre compagni.

E fu la rivolta dei Ciompi.

Il 20 luglio del 1378, al suono delle campane delle chiese, essi si armarono; bruciarono la casa del Gonfaloniere di Giustizia, asportandone il drappo; ottennero la liberazione dei tre detenuti e il giorno dopo assaltarono il Palazzo del Podestà donde inviarono un duro ultimatum alle Istituzioni cittadine, dettando secche ed ineludibili condizioni: abolizione del Giudice straniero dell’Arte della lana; creazione di tre nuove Corporazioni dei Mestieri; concessione al Popolo della quarta parte delle cariche pubbliche, compreso il Gonfalonierato di Giustizia; sospensione per un biennio dei giudizi per debiti inferiori ai cinquanta fiorini; limitazione del potere dei Capitani.

La Signoria accolse le istanze e il Consiglio del Popolo le approvò in attesa della ratifica del Consiglio comunale che, per legge, poteva essere riunito solo nel giorno successivo.

I Ciompi attesero, ma pretesero che le chiavi delle porte cittadine fossero consegnate ai Sindaci delle Arti e che i Priori licenziassero le milizie impegnate sulla piazza.

Il 22 luglio, mentre l’assise comunale si accingeva a pronunciarsi sulle richieste, i Ciompi intimarono alla Signorìa di abbandonare il palazzo: Tommaso Strozzi e Benedetto Alberti obbligarono i Priori ad uscire minacciando, in caso di resistenza, il massacro delle loro famiglie.

L’accoglimento delle pretese suscitò un’ondata di trionfalismo, enfatizzata dalla esibizione del gonfalone di giustizia da parte del giovane cardatore di lana Michele di Lando. Acclamato Gonfaloniere, egli fu incaricato anche di riformare la Signoria; tuttavia saggiamente accettò solo il primo onere e, insediatosi, vietò ogni ricorso alla violenza; creò le tre nuove arti dell’Agnolo, dei Cardatori e dei Farsettai e, in onore ai patti, fece eleggere nella metà della nuova Signoria i designati del Popolo.

Il 24 luglio i neoeletti occuparono gli uffici; garantirono alla città la rimozione di tutti i vecchi rancori; richiamarono gli esuli; condonarono le pene per i fatti avvenuti; conciliarono con la volontà popolare le nuove imborsazioni del Comune ordinate dalla Balìa; divisero i ruoli in parti uguali fra le Arti Maggiori e Minori e la recenti istituite dai Ciompi che, da quel momento, contarono su Magistrati scelti dal proprio gruppo e, a tutela dei loro interessi, sedettero nei Consigli della Repubblica.

A conferma della generale pacificazione, nella Messa celebrata il 3 agosto in San Giovanni, presente la Signoria, fu revocato l’interdetto ecclesiastico.

Persuasi del buon esito della rivoluzione e del miglioramento delle loro condizioni economiche e politiche, i Ciompi si ritrovarono, invece, privi di lavoro e reddito: a causa dei tumulti, le fabbriche erano state chiuse.

L’aumento della disoccupazione produsse nuove turbolenze.

Il 27 agosto una riunione in piazza San Marco; un’altra in Santa Maria Novella ed una terza davanti al Palazzo della Signorìa degenerarono in scontri brutali: l’esame delle nuove proteste fu affidato ai nuovi Priori che sarebbero entrati nella carica solo il successivo 1° settembre.

Il 31 agosto fu rinfacciato al Gonfaloniere Michele di Lando il disinteresse per le difficoltà economiche di quanti lo avevano eletto e gli fu duramente ingiunto di dimettersi: irritato da tanta insolenza, egli pose mano alla spada; fece arrestare i sediziosi; munito dell’insegna, scese in piazza e, raccolta al grido di libertà una schiera di armati, aggredì e disperse i Ciompi che, sconfitti dal loro stesso referente, persero tutte le posizioni conquistate.

Il 1° settembre, infatti, la nuova Signoria escluse i membri popolari dal Governo e disciolse una delle tre nuove Arti avvantaggiando la piccola Borghesia di Silvestro dei Medici, Benedetto Alberti, Giorgio Scali e Tommaso Strozzi.

La pace era sfumata e la gente era agitata dalle continue prepotenze dello Strozzi e dello Scali, un compagno del quale fu arrestato il 15 gennaio del 1382.

Senza indugio, essi assalirono il palazzo del Capitano del Popolo e liberarono il detenuto; ma la Signoria reagì immediatamente: Tommaso Strozzi fuggì a Mantova; lo Scali, invece, fu spietatamente decapitato.

Il 21 gennaio, occupata la piazza, armi in pugno la fazione degli Albizzi istituì una Balìa di centotrè cittadini cui dettero l’incarico di riformare l’Esecutivo.

Prevalse, naturalmente, l’odio che cancellò ogni elemento rivoluzionario; oppresse le due Arti di recente istituzione; stabilì che dal 1° marzo il Gonfaloniere di Giustizia sarebbe stato selezionato fra le Arti Maggiori; annullò le sentenze di Ammonizione; avviò una dura persecuzione degli avversari irrogando molte pene capitali ed esiliando Silvestro de’ Medici a Modena per cinque anni e Michele di Lando a Chioggia e poi a Padova, condannandolo nel novembre del 1383 in contumacia alla decapitazione ed alla confisca dei beni per essersi avvicinato a Firenze, in spregio dei limiti di duecento miglia di distanza impostigli.

La rivoluzione era sostanzialmente fallita e, come scrisse Filippo Villani,…I Ciompi se ne andarono sì come gente rotta, et senza capo et sentimento, perché si fidavano et furono traditi da loro medesimi… mentre la dominazione del Popolo grasso, alleato col Popolo minuto, era di fatto restaurata.

Analogamente si era conclusa la Peasant’s Revolt inglese, dovuta ad una endemica crisi economica nazionale; a riforme agrarie inadeguate ed alla politica feudale di sfruttamento delle terre attraverso manodopera sottopagata e ridotti in servitù: esplosa dopo la vana attesa di un Secondo Avvento che riscattasse le sofferenze successive al morbo della peste e riaffermasse principi di equità sociale, anch’essa fu brutalmente repressa.

Estratto da “it.wikipedia.org/wiki/Rivolta_dei_contadini”

Bibliografia:
Storia Universale Vallardi (XX vol.)
Storia d’Italia Einaudi (XIV vol.)

La revuelta de los Ciompi: una insurrección proletaria en la Florencia del siglo XIV

La revuelta de los Ciompi: una insurrección proletaria en la Florencia del siglo XIV

“La lucha entre el capitalista y el obrero asalariado se inicia al comenzar el capitalismo”. Marx, El Capital.

“Hay una alianza contra el bien común cuando cierta clase de gente jura, o garantiza, o conviene que no trabajará más a un precio tan bajo como antes, y aumenta ese precio por su propio designio, se pone de acuerdo en no trabajar por menos, y establece entre sí castigos o amenazas contra los compañeros que no observen esa alianza. Aquel que lo tolerara actuaría contra el derecho común, y nunca podrían concertarse buenos contratos de trabajo, porque los miembros de todos los oficios se esforzarían por exigir salarios más elevados que lo razonable, y el interés común no puede soportar que se atente contra él. Por ello, tan pronto como semejantes alianzas se ponen en conocimiento del soberano o de otros señores, ellos deben echar mano de todas las personas acordadas y tenerlas en larga y celosa prisión. Y, luego de una larga pena de prisión, se puede imponer a cada una setenta sueldos de multa”. Philippe de Beaumanoir (1252-1296), Coutumes de Beauvaisis.
“Aunque los primeros indicios de producción capitalista se presentan ya, esporádicamente, en algunas ciudades del Mediterráneo durante los siglos XIV y XV”, escribe Marx en su famoso capítulo acerca de la acumulación originaria, “la era capitalista solo data, en realidad, del siglo XVI”.
Aquellos indicios de producción capitalista en la Italia del siglo XIV, no obstante, bastaron para que en algunas ciudades se formara una clase de obreros asalariados con capacidad para organizarse e imponer por la fuerza sus propias reivindicaciones al resto de clases, al menos momentáneamente. Por eso se puede hablar de proletariado en Flandes y en la Toscana, en aquella época, y de insurrecciones proletarias en Siena y Florencia, en 1371 y 1378 respectivamente.

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UNA SUBLEVACIÓN PROLETARIA EN LA FLORENCIA DEL SIGLO XIV (Simone Weil)

El final del siglo XIV fue, de una manera general, en Europa, un periodo de revueltas sociales y de sublevaciones populares. Los países donde el movimiento fue más violento fueron aquellos que se encontraban entre los económicamente más avanzados, es decir, Flandes e Italia; en Florencia, ciudad de grandes comerciantes pañeros y manufactureros de la lana, tomó la forma de una verdadera insurrección proletaria, que tuvo un momento victorioso. Esta insurrección conocida con el nombre de la sublevación de los Ciompi, es sin duda, la pri­mera de las insurrecciones proletarias. Por eso merece ser estudiada y aún más porque ya presenta, con una notable pu­reza, los rasgos específicos que más tarde encontraremos en los grandes movimientos de la clase obrera, entonces apenas constituida, y que aparece así como conteniendo un factor revolucionario desde su aparición.

Florencia, es durante el siglo XIV en apariencia un Es­tado corporativo. Desde los ordinamenti di giustizia de 1293, el poder está en manos de las Artes, es decir de las corporaciones. Un Arte es, o una corporación, o más fre­cuentemente una unión de corporaciones, una especie de pequeño Estado dentro del Estado, con jefes electos cuyos poderes comprenden la jurisdicción civil sobre los miembros del Arte, con el dinero de los fondos cotizados y con unos es­tatutos; y Florencia está gobernada por los priores de las Ar­tes, magistrados designados por las Artes, y un gonfalonier de justicie designado por estos priores, que tiene a sus órdenes miles de mercenarios armados. En cuanto a los nobles, los ordinamenti di giustizia los han excluido de toda función pública y sometido a unas medidas de excepción muy severas. Si a esto añadimos que todos los magistrados son elegidos para un muy corto periodo de tiempo y que deben rendir cuentas de su gestión, parece que Florencia sea una república de artesanos.

Pero en realidad las Artes florentinas nada tienen que ver con las corporaciones medievales. De entrada su número es­taba fijado en veintiuno y no podía ser modificado; en se­gundo lugar está prohibido formar un nuevo Arte. Aquellos que se hallan fuera de estos veintiuno están privados de sus derechos políticos. Después, se encuentran la Artes de los ar­tesanos y pequeños comerciantes que sí parecen las corpora­ciones ordinarias de la Edad Media; estas Artes, denominadas Artes menores, son mantenidas en un segundo plano de la vida política. El poder real corresponde a las Artes mayores a las que solamente pertenecen, si dejamos a parte los jueces, los notarios y médicos, los banqueros, los grandes comercian­tes, los fabricantes de paños y de sedas. En cuanto a aquellos que trabajan la lana o la seda, algunos son miembros menores del Arte correspondiente a su oficio, con sus derechos muy restringidos; pero la mayor parte son simplemente subordina­dos al arte, es decir, sometidos a su jurisdicción sin poseer ningún derecho; y tienen severamente prohibido no solamen­te organizarse, sino incluso reunirse entre ellos. El Arte di Por Santa María que agrupa a los fabricantes de las sederías y sobre todo el Arte della Lana son pues, no unas corporaciones, sino unos sindicatos de la patronal. Lejos de ser una democra­cia, el Estado florentino está directamente en las manos del capital bancario, comercial e industrial.

A lo largo del siglo XIV, el Arte della Lana cogió, poco a po­co, una influencia preponderante, a medida que la fabricación de tela se convirtió en el principal negocio de la ciudad, de manera que todas las grandes familias de las otras corpora­ciones, invertían en éste sus capitales. Por su estructura cons­tituye un pequeño Estado, que organiza sus servicios públicos, cobra sus impuestos, emite empréstitos, construye locales, instala almacenes, se encarga de las negociaciones y conve­nios que sobrepasan las posibilidades de cada empresario; es también un “cartel” que impone a sus miembros un máximo de producción que tienen prohibido rebasar; es sobre todo una organización de clase, que tiene como principal objetivo defender siempre los intereses de los fabricantes textiles con­tra los trabajadores. Estos, por el contrario, privados de toda capacidad de organización, se encuentran desarmados. Esta es la principal razón de la insurrección de los Ciompi.

Estos trabajadores de la lana se dividían en categorías muy diferentes, según la situación técnica, económica y social, y que, en consecuencia, cada una de ellas jugaron un rol dife­rente en la insurrección. La más numerosa era la de los obre­ros asalariados de los talleres. Cada comerciante de tejidos, tenía junto a su tienda, un gran taller, o mejor dicho, si se tie­ne en cuenta la división y la coordinación del trabajo, una ma­nufactura donde se preparaba la lana antes de pasar a las hila­turas. Los trabajos ejecutados en estos talleres lavado, lim­pieza, batanado, cardado, tramado eran en parte trabajos de peón, pero en parte también relativamente cualificados. La organización de estos talleres era como el de una fábrica mo­derna, exceptuando la maquinaria. La división y especialización del trabajo eran llevadas hasta el límite; un grupo de con­tramaestres aseguraba la vigilancia; la disciplina era una disci­plina de cuartel. Los obreros asalariados, pagados al terminar la jornada, sin tarifas, ni contratos, dependían totalmente del patrón. Este proletariado de la lana era en Florencia la parte más menospreciada de la población. Por eso también, de to­das las capas sublevadas de la población, era de prever en ellos el espíritu más radical. Se conocía a estos obreros como los Ciompi y el hecho que ellos diesen el nombre a la insurrec­ción muestra el grado de participación que en ella tuvieron.

Los hiladores y los tejedores estaban, también, reducidos de hecho a la condición de obreros asalariados; pero eran obreros a domicilio. Aislados por su mismo trabajo, privados del derecho a organizarse, no parece que hayan demostrado en ningún momento un espíritu combativo. El tejedor era, verdaderamente, un trabajador altamente cualificado; pero la ventaja que los tejedores habrían podido lograr de este hecho fue anulada, en el siglo XIV, por la afluencia a Florencia de te­jedores extranjeros, sobre todo alemanes. Los tintoreros, al contrario, también obreros muy cualificados, pero imposibles de reemplazar por extranjeros porque no había tan buenos tintoreros como en Florencia, entraron los primeros en la lu­cha reivindicativa. A decir verdad, los tintoreros estaban pri­vilegiados en comparación con otros trabajadores de la lana. La tintorería exigía una inversión de un capital considerable y esta inversión comportaba grandes riesgos; así los fabricantes no buscaban tener sus propias tintorerías. Esto hizo que el Arte della Lana construyera para el tinte grandes locales con­teniendo buena parte del utillaje y los puso a disposición de todos los industriales particulares que los quisieran utilizar; de ese modo los tintoreros no dependieron jamás de un indus­trial particular, como era el caso de los Ciompi y de los tejedo­res, cuyos oficios pertenecían a los fabricantes. Los bataneros y tundidores de tejidos, se encontraban a este respecto en la misma situación que los tintoreros. En fin, los tintoreros no estaban enteramente privados de derechos políticos. Ellos tenían una organización, puramente religiosa es verdad, pero que les permitía reunirse. No estaban simplemente subordi­nados al Arte della Lana, como los obreros de los talleres, los hilanderos y los tejedores; eran miembros, si bien “miembros menores” y tenían, por lo tanto, una cierta parte en el go­bierno. Por lo tanto sus intereses estaban lejos de coincidir con los de los Ciompi, y su actitud en el curso de la insurrec­ción lo demostró. Sin embargo, razones para sublevarse no les faltaban. Privados del derecho de organizarse para defender sus condiciones de trabajo, subordinados a sus patronos, quienes, a causa del derecho corporativo devenían sus jueces en caso de litigio, ellos habrían sido rápidamente reducidos a la misma situación de los otros obreros si no hubieran aprove­chado las crisis económicas y políticas.

Las primeras luchas sociales importantes tuvieron lugar en 1342, bajo la tiranía del duque de Atenas. Este era un aventu­rero francés a quién Florencia, empujada por las continuas querellas que en ella tenían lugar entre las familias más ricas, entregó el poder con el fin de que restableciera el orden.

Esta elección había sido apoyada, sobre todo, por los des­contentos, es decir, de una parte por los nobles, a quienes había devuelto el acceso a las funciones públicas pero que deseaban ver el fin del Estado corporativo, y por otra parte por el pueblo. El duque de Atenas se apoyó principalmente, durante los meses que reinó sobre los obreros, gracias a los cuales él esperaba poder resistir la hostilidad de la alta bur­guesía. Dio satisfacción a los tintoreros, que se quejaban de ser pagados con años de retraso y de estar sin recursos lega­les, y que demandaban poder constituir un vigesimosegundo Arte; organizó a los obreros de los talleres de la lana, no en una corporación, sino en una asociación armada. Sin embargo, poco después fue derrocado por un motín en el que tomó par­te toda la población, y no tuvo más defensores que los car­niceros y algunos obreros; el Arte de los tintoreros no fue creado, pero los proletarios de la lana guardaron sus armas, de las que se servirían en los próximos años. A la demagogia del duque de Atenas quien, subestimando el derecho corpora­tivo, dio satisfacción a todas las reivindicaciones de los obre­ros de la lana, le sucedió la más brutal dictadura capitalista. Por lo tanto las revueltas estallaron pronto. En 1343, 1.300 obreros se sublevaron; en 1345, nueva sublevación dirigida por un cardador y teniendo por objetivo la organización de los obreros de la lana. La gran peste de Florencia, que diezmó a la clase obrera, redujo la mano de obra y provocó así una subida de los salarios, por lo que el Arte della Lana tuvo que estable­cer nuevas tasas, recrudeció con más agudeza la lucha de cla­ses. Después de una crisis provocada por la guerra contra Pisa, y que paró momentáneamente los conflictos, la vuelta a la prosperidad, por un fenómeno frecuentemente repetido des­de entonces, provoca una huelga de los tintoreros que durará dos años y que termina con una derrota en 1372; pero esta derrota no pone fin a la agitación de las capas trabajadoras. Dicha agitación coincide con un conflicto entre la pequeña burguesía de una parte, y la gran burguesía unida en cierta medida a la nobleza, de la otra. Los nobles, en tanto que clase, han sido definitivamente batidos cuando, después de la caída del duque de Atenas, intentaron apoderarse del poder; pero entonces la mayor parte de las familias nobles se aliaron con la alta burguesía dentro del “partido güelfo”. Este partido güelfo se había formado en la lucha, tras largo tiempo aca­bada, entre Güelfos y Gibelinos; la confiscación de los bienes de los Gibelinos les dio riqueza y poder. Devino la organización política de la alta burguesía, dominando la ciudad después de la caída del duque de Atenas, falseando los escrutinios, apro­vechándose de unas medidas de excepción tomadas en otro tiempo contra los Gibelinos y mantenidas en vigor para apar­tar a sus adversarios de las funciones públicas. Cuando, a pe­sar de las maniobras del partido Güelfo, Silvestro de Medici, uno de los jefes de la pequeña burguesía, fue nombrado en junio de 1378, gonfaloniero de justicia, y propuso medidas contra la nobleza y el partido Güelfo, el conflicto se agudizó. Las compañías de las Artes salieron armadas a la calle; los obreros las apoyan e incendian algunas mansiones de los ricos y las cárceles, que están llenas de presos por deudas. Final­mente Silvestro de Medici está satisfecho. Pero como señala Maquiavelo, “guardaros de excitar una sedición en una ciudad creyendo que la pararéis o dirigiréis a vuestro gusto”.

De la dirección de la pequeña y mediana burguesía el mo­vimiento pasó a la del proletariado. Los obreros permanecie­ron en la calle; las Artes Menores los apoyaron o los dejaron hacer. Y desde este momento aparecen los rasgos que se re­producirán espontáneamente en las insurrecciones proletarias francesas y rusas: la pena de muerte es decretada por los in­surgentes contra los saqueadores. Otro rasgo peculiar de las sublevaciones de la clase obrera, el movimiento no es en mo­do alguno sanguinario; no hay derramamiento de sangre, ex­cepción hecha para un nombre: Nuto, policía particularmente odiado. La lista de las reivindicaciones de los insurgentes, lle­vada a las autoridades el 20 de julio, tiene también un carácter de clase. Se pide la modificación de los impuestos que recaen pesadamente sobre los obreros; la supresión de los “oficiales extranjeros” del Arte della Lana, que constituyen unos instru­mentos de represión contra los obreros, y juegan un rol análo­go al de la policía privada que poseen actualmente las com­pañías mineras de América. Sobre todo reclaman la creación de tres nuevas Artes; una vigesimosegundo Arte para los tintore­ros, bataneros y tundidores de tejidos, es decir, para los traba­jadores de la lana aún no reducidos a la condición de proleta­rios; una vigesimotercer Arte para los talleres y otros pequeños artesanos aún no organizados; finalmente y sobre todo un vigesimocuarto Arte para el “pueblo menudo” (popolo minu­to), es decir de hecho para el proletariado, que estaba consti­tuido entonces por los obreros de los talleres de la lana. De la misma manera que el Arte della Lana no era en realidad sino un sindicato patronal, este Arte del popolo minuto habría fun­cionado como un sindicato obrero; y debería tener la misma cuota de poder en el Estado que el sindicato de la patronal, pues los insurgentes reclamaban el tercio de las funciones públicas para las tres Artes nuevas y el tercio para las Artes menores. Al no ser aceptadas estas reivindicaciones, los obre­ros se apoderaron del Palacio el 21 de julio, conducidos por un cardador de lana convertido en contramaestre, Michele di Lando, que es inmediatamente nombrado gonfaloniero de justicia, y que forma un gobierno provisional con los jefes del movimiento de las Artes menores.

El 8 de agosto, la nueva forma de gobierno, conforme a las reivindicaciones de los obreros, es organizado y se provee de una fuerza armada compuesta no ya de mercenarios, sino de ciudadanos. La gran burguesía, sintiéndose momentánea­mente la más débil, no hace oposición abiertamente; pero cierra sus talleres y sus comercios. En cuando al proletariado, rápidamente se da cuenta que lo que ha obtenido no le da seguridad, y que un reparto igual de poder entre él, los arte­sanos y los patronos es utópico. Disuelve, entonces, la organi­zación política que se habían dado las Artes menores; elabora petición sobre petición; se retira a Santa María Novella, se organiza como lo había hecho en otras ocasiones el partido Güelfo, nombrando ocho oficiales y dieciséis consejeros, e invita a las otras Artes a venir a concertar sobre la constitución con que se debe dotar a la ciudad. Desde entonces la ciudad posee dos gobiernos, uno en el Palacio, conforme a la nueva legalidad, el otro no legal en Santa María Novella. Este go­bierno extra-legal se asemeja singularmente a un soviet; ve­remos aparecer por unos días, en el primer despertar de un proletariado en plena forma, el fenómeno esencial de las grandes insurrecciones obreras, la dualidad de poder. El prole­tariado, en agosto de 1378, opone ya, como lo haría después en febrero de 1917, a la nueva legalidad democrática que él mismo ha hecho instituir, el órgano de su propia dictadura.

Michele di Lando, hará lo que habría hecho en su lugar no importa cual buen jefe de Estado socialdemócrata: se vuelve contra sus antiguos compañeros de trabajo. Los proletarios, que tienen contra ellos al gobierno de la gran burguesía, a las Artes menores, y sin duda también las dos nuevas Artes no proletarias, son vencidos después de una sangrienta batalla y ferozmente exterminados a principios de septiembre. Se di­suelve la veinticuatroava Arte y la fuerza armada organizada en agosto; se desarma a los obreros; se traen compañías del ejército en campaña, como en París después de junio de 1848. Algunas nuevas tentativas de sublevación son llevadas a cabo en el curso de los meses siguientes, bajo la consigna: ¡Por el veinticuatroavo Arte! Son ferozmente reprimidas. Las Artes menores guardan aún algunos meses después la mayoría en las funciones públicas; pues el poder está repartido por igual entre ellos y las Artes mayores. Los tintoreros que han conser­vado su Arte, pueden aún utilizarlo para una acción reivindicativa e imponen una tarifa mínima. Pero una vez privados, por su propia culpa, del apoyo del proletariado cuya energía y re­solución los había colocado en el poder, los artesanos, los pe­queños patronos, los pequeños comerciantes, son incapaces de mantener su dominio. La burguesía, como lo remarca Maquiavelo, solo deja el campo libre en la medida en que teme al proletariado; desde el momento que lo juzga aniquilado, se deshace de sus aliados provisionales. Más bien, se descompo­nen por sí mismos a causa de la desmoralización, también ca­racterística, que penetra y desmorona sus filas. Dejaron ejecu­tar a uno de los más destacados jefes de las clases medias, Scali; y esta ejecución abrió la vía a una brutal reacción que mandó al exilio a Michele di Lando, a Benedetto Alberti y a muchos otros; significó la supresión de las vigesimosegunda y vigesimotercera Artes y de nuevo el dominio de las Artes mayo­res y el restablecimiento de las prerrogativas del partido Güel­fo. En enero de 1382, el status quo de antes de la insurrección estaba restablecido. El poder de los patronos será en lo suce­sivo absoluto y el proletariado, privado de organización, no pudiéndose reunir ni siquiera para un entierro sin un permiso especial, deberá esperar mucho tiempo antes de poder poner­lo en cuestión.

Maquiavelo, que escribe un siglo y medio después de los acontecimientos, en un periodo de calma social completa, tres siglos antes que se elabore la doctrina del materialismo histó­rico, con la maravillosa penetración que le es propia, discierne las causas de la insurrección y analiza los intereses de clase que determinaron su curso. Su relato de la insurrección, que se expone a continuación, a pesar de la indignada hostilidad aparente en su mirada hacia los insurgentes que toma erró­neamente por meros saqueadores, es importante tanto por la admirable precisión de todo aquello que responde a nuestras preocupaciones actuales, como por el carácter cautivante de su narración y la belleza del estilo.

Simone Weil

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HISTORIA DE FLORENCIA (Nicolás Machiavelo)

Apenas la primera sublevación se apaciguó, se produjo otra que dañó a la República mucho más que la anterior. La mayor parte de los incendios y saqueos ocurridos en los días prece­dentes habían sido hechos por la baja plebe de la ciudad, y quienes se habían mostrado en ellos más audaces tenían mie­do, una vez calmadas y arregladas las mayores diferencias, de ser castigados por los desmanes cometidos y de ser aban­donados, como ocurre siempre, por aquellos mismos que los habían instigado a cometer el mal. A ello se añadía el odio que el pueblo menudo tenía contra los ciudadanos ricos y contra los jefes de las Artes, porque les parecía que no recibían, de estos, un salario suficientemente justo por los trabajos reali­zados.

Cuando, en tiempos de Carlos I, la ciudad se dividió en Ar­tes, se les dio jefes y competencias a cada una de ellas y se estableció que los miembros de cada una de dichas Artes fue­ran juzgados en las causas civiles por sus propios jefes. Estas Artes, como ya dijimos, fueron doce en principio. Luego, con el tiempo, se añadieron otras varias que elevaron el número a veintiuna, y fue tal su poder, que en pocos años se adueñaron de todo el gobierno de la ciudad. Y, como entre ellas había unas más importantes y otras menos, se dividieron en mayo­res y menores, siendo siete las mayores y catorce las menores.

Precisamente de esta clasificación, junto con otros motivos que ya hemos mencionado, procedió la arrogancia de los Capi­tanes de barrio, ya que los ciudadanos que habían sido güelfos antiguamente, y bajo el gobierno de los cuales recaía siempre aquella magistratura, favorecían a los que pertenecían a las Artes mayores, mientras perseguían a los ciudadanos de las Artes menores y a quienes los defendían. Por esto se promo­vieron contra ellos todos los tumultos de los que hemos hablado. Pero, como al organizar las corporaciones de las Ar­tes, quedaron fuera, sin corporación propia, muchos de los oficios en que trabajaba el pueblo menudo y la plebe, que­dando sometidos a las otras diversas Artes, de acuerdo con el tipo de trabajo que realizaban, ocurría que, cuando no se sen­tían debidamente remunerados con el salario que percibían por sus trabajos, o se creían de alguna manera oprimidos por sus propios maestros de oficio, no tenían otro sitio al que re­currir que al magistrado del Arte que los gobernaba, del cual les parecía que no obtenían la justicia a que creían tener dere­cho.

De todas las Artes u oficios, la que mayor número tenía y tiene de ese tipo de obreros subordinados es la de la Lana; la cual, siendo como es poderosísima y la primera de todas, es la que, en mayor número que las otras, daba y da de comer con su trabajo a la mayor parte de la plebe y del pueblo menudo.

Los hombres de la plebe, tanto los que dependían del Arte de la Lana como los de las otras Artes, estaban, por las razo­nes antedichas, llenos de rencor; y, como a ese rencor se unía el miedo al castigo por los incendios y robos que se habían cometido, se reunieron de noche varias veces para hablar de lo ocurrido y cambiar impresiones sobre el peligro en que se encontraban. Con ese motivo, uno de los más decididos y ex­perimentados que allí había, para infundir ánimos a los demás les hablo de esa manera: “Si tuviéramos que decidir ahora sobre si era o no era conveniente empuñar las armas, incen­diar y saquear las casas de nuestros conciudadanos, y despojar las iglesias, yo sería uno de los que estimaría que había que pensarlo bien y quizás hasta aprobaría que se prefiriera una tranquila pobreza a una peligrosa ganancia. Pero, puesto que las armas las hemos empuñado ya y se han cometido muchos desmanes, me parece que lo que debemos pensar es que no hay por qué abandonarlas ahora y cómo podemos hallar de­fensa para los males que se han cometido. Yo creo sin ningún género de dudas que esto, aunque no nos lo diga nadie, nos lo dice nuestra misma necesidad. Estáis viendo a toda esta ciu­dad llena de rencores y de odio contra nosotros; los ciudada­nos se agrupan entre sí, la Señoría está siempre de parte de los magistrados. Podéis creer que se traman conjuras contra nosotros y que se aprestan nuevas fuerzas contra nuestras cabezas. Debemos por tanto tratar de obtener dos cosas y proponernos dos fines en nuestras deliberaciones. El primero es que no se nos pueda castigar por lo que hemos hecho en los días pasados; y el segundo, que podamos en adelante vivir con más libertad y con más satisfacciones que en el pasado. Nos conviene por lo tanto, según mi parecer, si queremos que se nos perdonen los anteriores desmanes, cometer otros nue­vos, redoblando los daños y multiplicando los incendios y los saqueos, y apañándonos para tener más cómplices, porque, cuando son muchos los que pecan, a nadie se castiga; y a las faltas pequeñas se les impone sanción, mientras que a las

grandes y graves se les da premios. Por otra parte, cuando son muchos los que padecen los atropellos, son pocos los que tratan de vengarse, porque los daños que afectan a todos se soportan con más paciencia que los particulares. El aumentar, por tanto, los males nos hará perdonar más fácilmente y nos dará la posi­bilidad de conseguir lo que deseamos obtener para nuestra li­bertad. Y me parece que vamos hacia seguros resultados posi­tivos, porque los que podrían oponérsenos están desunidos y son ricos. Su desunión nos dará la victoria; y sus riquezas, una vez que sean nuestras, nos servirán para mantener dicha victo­ria. No os deslumbre la antigüedad de su estirpe, de la que se blasonan ante nosotros, porque todos los hombres, habiendo tenido un idéntico principio, son igualmente antiguos, y la na­turaleza nos ha hecho a todos de una idéntica manera. Si nos quedáramos todos completamente desnudos, veríais que todos somos iguales a ellos; que nos vistan a nosotros con sus trajes y a ellos con los nuestros y, sin duda alguna, nosotros parecere­mos los nobles y ellos los plebeyos; porque son sólo la pobreza y las riquezas las que nos hacen desiguales. Me duele mucho porque veo que muchos de vosotros se arrepienten, por motivos de conciencia, de las cosas hechas, y quieren abstenerse de las que vamos a cometer. De verdad que, si esto es cierto, vosotros no sois los hombres que yo creía que erais. Ni la conciencia ni la mala fama os deben desconcertar, porque los que vencen, sea cual sea el modo de su victoria, jamás sacan de esta motivo de vergüenza. En cuanto a la conciencia, no debemos preocupar­nos mucho de ella porque donde anida, como anida en noso­tros, el miedo del hambre y de la cárcel, no puede ni debe tener cabida el miedo del infierno. Y es que, si observáis el modo de proceder de los hombres, veréis que todos aquellos que han alcanzado grandes riquezas y gran poder, los han alcanzado o mediante el engaño o mediante la fuerza; y, luego, para encu­brir el carácter brutal e ilícito de esta adquisición, tratan de justificar con el falso nombre de ganancias lo que han robado con engaños y con violencia. Por el contrario, los que por poca vista o por demasiada estupidez dejan de emplear estos siste­mas, viven siempre sumidos en la esclavitud y en la pobreza, ya que los siervos fieles son siempre siervos y los hombres buenos son siempre pobres. Los únicos que se libran de la es­clavitud son los infieles y los audaces, y los únicos que se li­bran de la pobreza son los ladrones y los tramposos. Dios y la naturaleza han puesto todas las fortunas de los hombres en me­dio de ellos mismos, y éstas quedan más al alcance del robo (de la rapiña) que del trabajo y más al alcance de las malas que de las buenas artes. De ahí viene el que los hombres se coman los unos a los otros y que el más débil se lleve siempre la peor par­te. Se debe, pues, emplear la fuerza siempre que se presente la ocasión; y esta ocasión no nos la puede ofrecer mejor la for­tuna, estando como están desunidos todavía los ciudadanos, vacilante la Señoría y desconcertados los magistrados, de tal manera que, antes de que vuelvan ellos a unirse y se serenen sus ánimos, puedan ser fácilmente aplastados. De este modo, o quedaremos enteramente dueños de la ciudad o conseguiremos una parte tan importante de ella, que no solamente se nos per­donarán nuestras faltas pasadas sino que tendremos fuerza sufi­ciente para poder amenazarlos con nuevos daños. Yo reco­nozco que esta decisión es audaz y peligrosa; pero, cuando la necesidad aprieta, la audacia se considera prudencia y, en cuan­to al peligro de las grandes empresas, los valientes nunca lo tienen en consideración, porque las empresas que comienzan con peligro tienen al final su recompensa; y, de los peligros, jamás se salió sin peligro. Además yo creo que, cuando vemos que nos preparan cárceles, tormentos y muertes, es más peli­groso estarse quietos que tratar de librarse de ellos, porque en el primer caso los males son seguros mientras que en el se­gundo sólo son posibles. ¡Cuántas veces os he oído quejaros de la avaricia de vuestros superiores y de la injusticia de vuestros magistrados! Ahora es el momento no solamente de libraros de ellos, sino incluso de ponernos tan por encima de los mismos, que sean más bien ellos los que tengan que quejarse y dolerse de vosotros, que no vosotros de ellos. Las oportunidades que la ocasión nos brinda pasan volando y, una vez que han pasado, es inútil que tratemos luego de alcanzarlas. Ya veis los prepa­rativos de vuestros enemigos. Adelantémonos a sus planes, y el primero que empuñe las armas saldrá sin duda vencedor, con ruina del enemigo y encumbramiento propio. Con ello, muchos de nosotros alcanzaremos (el honor) la honra de esta victoria, y todos lograremos la seguridad”.

Estas palabras encendieron fuertemente los ánimos, ya de por sí encendidos al mal, de manera que decidieron empuñar las armas una vez que hubieran atraído a más compañeros a sus planes. Y se obligaron con juramento a socorrerse mutua­mente si alguno de ellos era apresado por los magistrados.

Mientras que estos se preparaban a adueñarse del poder, sus planes llegaron a conocimiento de los Señores que, en vista de ello, prendieron en la plaza a un tal Simoncino, por quien tuvieron noticias de toda la conjuración y de cómo pro­yectaban organizar el motín para el día siguiente. Por lo que, una vez conocido el peligro, reunieron a los miembros de los colegios y a los ciudadanos que, junto con los síndicos de las Artes, se preocupaban de la unificación de la ciudad. Pero, antes de que se reunieran, ya se había echado encima la no­che. Aconsejaron éstos a los Señores que se convocara tam­bién a los cónsules de las Artes; y estos a su vez aconsejaron unánimemente que se llamara y se hiciera entrar en Florencia a todas las tropas en campaña, y que los gonfaloneros del pueblo se presentaran por la mañana en la plaza con sus com­pañías armadas.

Mientras se sometía a tortura a Simoncino y, simultánea­mente, se reunían y deliberaban los ciudadanos, un tal Nicolo de san Friano reparaba el reloj del palacio. Este, dándose cuenta de lo que ocurría, apenas volvió a su casa, soliviantó a toda la vecindad, de manera que, en un momento, más de mil hombres armados se reunieron en la plaza del Santo Spirito. La noticia de este motín llegó a los demás conjurados y tam­bién San Pietro Maggiore y San Lorenzo, lugares por ellos de­signados, se llenaron de hombres armados.

Había ya amanecido el día, que era el 21 de julio y en la pla­za no se habían presentado más de ochenta hombres de ar­mas a favor de los Señores. De los gonfaloneros no se pre­sentó ninguno porque, al oír que toda la ciudad estaba en ar­mas, tenían miedo de dejar sus propias casas. Los primeros de la plebe que se presentaron a la referida plaza fueron los que se habían reunido en San Pietro Maggiore. Los soldados no se movieron a la llegada de éstos. Se presentó a continuación el resto de la muchedumbre y, al no encontrar resistencia, re­clamaron con terribles gritos sus prisioneros a la Señoría. Y, para conseguirlos por la fuerza, ya que con las amenazas no se los entregaban, prendieron fuego a la casa de Luigi Guicciar­dini, de manera que los Señores, por miedo a cosas peores, se los entregaron. Una vez que los liberaron, arrebataron el gon­falón o estandarte de la justicia al ejecutor que lo tenía y, enarbolándolo, prendieron fuego a las casas de muchos ciu­dadanos, persiguiendo a todos los que, por motivos públicos o privados, eran objeto de su odio. Muchos ciudadanos, para vengarse de ofensas personales, los encaminaron a casas de sus enemigos, ya que para ello bastaba sólo con que una voz gritara en medio de la multitud: “¡a casa de fulano!”, o que el que llevaba el gonfalón se dirigiera hacia allí. Se prendió fuego también a todas las escrituras del Arte della Lana. Después de haber cometido muchos desmanes, para paliarlos con algunas obras plausibles, nombraron caballeros a Silvestro de Medici y hasta otros sesenta y cuatro ciudadanos. Entre ellos estaban Benedetto y Antonio degli Alberti, Tommaso Strozzi y otros que eran partidarios suyos, aunque a muchos los obligaron por la fuerza. Entre estos hechos cabe señalar el de que a mu­chos que les habían quemado sus casas, luego, en el mismo día (tan de mano iban el beneficio y el daño), ellos mismos los nombraron caballeros. Esto es lo que ocurrió a Luigi Guicciar­dini, gonfalonero de justicia.

En medio de tantos desórdenes, los Señores, al verse aban­donados por las gentes de armas, por los jefes de las Artes y por sus propios gonfaloneros, estaban asustados, pues nadie había acudido en su auxilio de acuerdo con las órdenes recibi­das y, de los dieciséis gonfalones, solamente la enseña del León de oro y de la Ardilla, enarboladas por Giovenco della Stufa y por Giovanni Cambi, hicieron su aparición. Pero tam­poco éstos permanecieron mucho tiempo en la plaza, pues, al ver que nadie los seguía, se marcharon también.

Por otra parte, los ciudadanos, viendo la furia de aquella desatada muchedumbre y que el palacio había sido abando­nado, unos decidieron quedarse encerrados en sus casas mientras que otros prefirieron incorporarse a la turba armada para poder de esa manera, mezclados con ella, defender sus propias casas y las de sus amigos. De esta manera, se venía a acrecentar la fuerza de aquellos y a menguar la de los Señores.

Duró este tumulto todo el día y, al caer la noche se detuvie­ron junto al palacio de micer Stefano, detrás de la iglesia de San Bernabé. Su número pasaba de seis mil y, antes de que amaneciera, hicieron, mediante amenazas, que las Artes les enviaran sus enseñas. Entrada la mañana, marcharon al pala­cio del corregidor o Podestá llevando al frente el gonfalón de la justicia y las enseñas de las Artes; y, como el corregidor se negara a entregarles el palacio, lo atacaron y le obligaron a ceder.

Los señores, viendo que no podían contenerlos por la fuer­za, trataron de hacerles comprender que estaban dispuestos a pactar con ellos y, llamando a cuatro hombres de sus Colegios, los mandaron al palacio del corregidor a informarse de cuáles eran las intenciones de aquellos. Allí pudieron éstos ver que los jefes de la plebe, en unión de los síndicos de las Artes y de algunos otros ciudadanos, habían decidido ya lo que iban a exigir a la Señoría. Volvieron, pues, acompañados por cuatro delegados de la plebe, con estas peticiones concretas: que el Arte de la Lana no pudiera continuar teniendo un juez foraste­ro; que se crearan tres nuevas corporaciones de Artes, una para los cardadores y tintoreros, otra para los barberos, juboneros, sastres y análogas artes mecánicas, y la tercera para el pueblo menudo; y para estas tres nuevas Artes siempre hubie­ra dos Señores, mientras que habría tres para las catorce Artes menores; que la Señoría proveyera sedes donde pudieran re­unirse estas Artes nuevas; que ningún perteneciente a estas Artes pudiera ser obligado en el término de dos años a pagar ninguna deuda inferior a cincuenta ducados; que la Deuda pública anulara sus intereses y sólo se restituyeran los capita­les; que fueran amnistiados todos los confinados y condena­dos, y los amonestados recobraran el derecho a desempeñar cargos. Aparte de todo esto, pidieron otras muchas cosas a favor de sus particulares protectores así como, por el contra­rio, pretendieron que muchos de sus enemigos fueran confi­nados y amonestados.

Estas exigencias, aunque deshonrosas y gravosas para la república, por temor a otras cosas peores, fueron en seguida aprobadas por los Señores, por los colegios y por el Consejo del pueblo. Pero, si se quería que tuvieran validez, era necesa­rio también que se aprobaran en el Consejo municipal. Y, co­mo no se podían reunir en un solo día los dos Consejos, fue necesario esperar al siguiente. De todos modos, pareció que por el momento las Artes quedaban contentas y la plebe sa­tisfecha, y prometieron que, una vez ultimada la ley, termi­narían todos los motines.

Llegada luego la mañana, mientras el Consejo municipal es­taba deliberando, la muchedumbre, impaciente y voluble, se personó en la plaza enarbolando las acostumbradas enseñas y con tal alto y espantoso griterío que hicieron asustarse a todo el Consejo de los Señores. Por ello uno de los Señores, Guerriante Marignolli, impulsado más por el temor que por ningún otro sentimiento personal, so pretexto de vigilar la puerta desde abajo, bajó y huyó a su casa. Pero al salir no pudo ca­muflarse tan bien para que no ser reconocido por la muche­dumbre, aunque no se le hizo daño alguno; sólo que la mu­chedumbre, apenas lo vio, comenzó a gritar que todos los Se­ñores abandonaran también el palacio y que, si no, matarían a sus hijos y prenderían fuego a sus casas.

Mientras, se había aprobado ya la ley y los Señores se hab­ían retirado a sus habitaciones. Los del Consejo, que habían bajado abajo pero sin salir fuera, andaban por el pórtico y por el patio, perdidas ya sus esperanzas de poder salvar la ciudad al ver tanta deslealtad en la muchedumbre y tanta maldad o tanto temor en quienes habrían podido frenarla o dominarla. También los Señores se hallaban desconcertados y desconfia­ban de la salvación de la patria, viéndose abandonados por uno de sus propios miembros y sin que un solo ciudadano acudiera a prestarles ayuda, ni siquiera a darles ánimo. Es­tando, pues, vacilantes sobre lo que podrían o deberían hacer, micer Tommaso Strozzi y micer Benedetto Alberti, ya sea que los moviera la propia ambición deseando quedar dueños del palacio, o ya fuera porque creían obrar bien así, los persuadie­ron a ceder a las presiones del pueblo y volverse a sus propias casas como simples ciudadanos.

Esta propuesta, viniendo como venía de quienes habían si­do jefes del motín, llenó de indignación a dos de los Señores, Alamanno Acciaiuoli y Niccolo Bene, aunque los demás cedie­ran. Y, recobrando un poco de su valor, dijeron que, si los de­más se querían marchar, ellos no podían impedirlo pero que, por su parte, no estaban dispuestos a renunciar a sus cargos antes de que se cumpliera el término de los mismos, a menos de perder también la vida. Esta disconformidad de opiniones aumentó en los Señores el miedo y en el pueblo la irritación, hasta el punto de que el gonfalonero, prefiriendo acabar su magistratura con desdoro antes que con peligro, se entregó a Tommaso Strozzi, quien lo sacó de palacio y lo llevó hasta su casa. También los demás Señores, uno tras otro, se fueron de manera semejante; por lo que a Alamanno y Niccolo, viendo que se habían quedado solos, y para que no se les considerara más valientes que prudentes, se marcharon también. El pala­cio quedó así en manos de la plebe y de los Ocho de la guerra, que todavía no habían cesado en sus cargos.

Cuando la plebe entró en el palacio, llevaba en sus manos la enseña del gonfalonero de justicia un tal Michele di Lando, cardador de lana. Este, descalzo y semidesnudo, subió a la sala llevando tras de sí a toda la muchedumbre y, cuando llegó a la sala de audiencias de los Señores, se detuvo y, volviéndose hacia la muchedumbre, dijo: “Ya lo veis: el palacio es vuestro y la ciudad está en vuestras manos. ¿Qué os parece que haga­mos ahora?”. Y todos le respondieron que querían que fuera gonfalonero y Señor y que los gobernase a ellos y a la ciudad como mejor le pareciera. Aceptó Michele la Señoría pero, co­mo era hombre inteligente y prudente y que debía más a la naturaleza que a la suerte, decidió pacificar la ciudad y acabar con los tumultos. Y, para tener ocupado al pueblo y darse tiempo a sí mismo para poder ordenar las cosas, mandó que se buscara a un tal señor Nuto, a quien micer Lapo di Castiglionchio había hecho alguacil mayor (jefe de policía); y la mayor parte de los que lo rodeaban se fueron a cumplir su encargo.

Para comenzar con justicia el gobierno que se le había con­fiado, hizo ordenar públicamente que nadie incendiara o sa­queara cosa alguna y, con el fin de infundir miedo a todos, plantó horcas en la plaza.

Dando comienzo a sus reformas (del Estado), destituyó a los síndicos de las Artes y nombró otros nuevos, privó de la magistratura a los Señores y a los Colegios, y quemó las bolsas destinadas a la elección de cargos. Entre tanto, la muchedum­bre había arrastrado hasta la plaza al señor Nuto y lo había colgado por un pie en una de aquellas horcas. En un mo­mento, puesto que todos y cada uno de los que estaban a su alrededor le iban arrancando pedazos, no quedó de él más que dicho pie.

Por otra parte, los Ocho de la guerra, pensando que con la marcha de los Señores se habían quedado ellos dueños de la ciudad, habían nombrado ya a los nuevos señores. Michele, presintiendo esto, mandó a decirles que desalojaran inmedia­tamente el palacio, pues quería demostrarles a todos que sa­bía gobernar Florencia sin necesidad de su consejo. Hizo luego reunir a los síndicos de las Artes y organizó la Señoría con cua­tro miembros del pueblo menudo, dos para las Artes mayores y otros dos para las menores. Hizo además un nuevo censo y distribuyó los cargos del poder del Estado en tres partes, dis­poniendo que una de dichas partes correspondiera a las Artes nuevas, otra a las menores y la tercera a las mayores. Conce­dió a micer Silvestro dei Medici el usufructo de las tiendas del Ponte Vecchio y retuvo para sí la corregiduría de Empoli; y concedió otros muchos beneficios a muchos ciudadanos ami­gos de la plebe, no tanto para recompensarlos por su cola­boración como para que lo defendieran siempre contra sus enemigos.

Estimó la plebe que Michele di Lando, al reformar el go­bierno del Estado, se había mostrado excesivamente favorable a los más ricos y que a ella no le había cabido en dicho go­bierno todo lo que necesitaba para mantenerse en el mismo y poder defenderse; de modo que, impulsados por su acostum­brada audacia, tomaron las armas y, en forma tumultuosa, se presentaron en la plaza enarbolando las enseñas y pidiendo que los Señores bajaran a la escalinata para discutir con ellos de nuevo los asuntos relativos a su seguridad y a su bienestar. Michele, viendo la arrogancia de los mismos y para no irritar­los más, pero sin escuchar sus pretensiones, censuró su modo de pedir las cosas y los exhortó a deponer las armas, pues sólo así se les concedería lo que por la fuerza no se les podía con­ceder sin menoscabo de la autoridad de la Señoría. Por todo ello, la multitud, irritada contra los del palacio, se retiró a San­ta Maria Novella, donde nombraron por su cuenta ocho jefes con sus subalternos y con otras atribuciones, que les conferían autoridad y respeto; de manera que había dos Estados y la ciudad tenía ahora dos gobiernos distintos.

Estos nuevos jefes decidieron que en el palacio hubiera siempre al lado de los Señores ocho miembros elegidos por sus propias Artes y que todos los acuerdos que tomará la Se­ñoría deberían ser confirmados por ellos. Quitaron a micer Silvestro dei Medici y a Michele di Lando todo lo que en ante­riores decisiones se les había concedido y asignaron cargos a muchos de los suyos, con subvenciones para que pudieran desempeñarlos con dignidad. Una vez tomadas estas decisio­nes, para darles validez, enviaron a dos de los suyos a la Se­ñoría para pedir que los Consejos se las confirmaran, y con el propósito de conseguirlo por la fuerza si de grado no lo conse­guían. Estos, con gran audacia y mayor presunción, expusieron su embajada a los Señores y echaron en cara al gonfalonero la dignidad que ellos mismos le habían conferido y el honor que le habían hecho, así como la mucha ingratitud y las pocas con­sideraciones con que él los había tratado. Pero como, al ter­minar el discurso, pasaran a las amenazas, no pudo Michele soportar tanta arrogancia y, considerando más el cargo que desempeñaba que su propia ínfima condición, decidió poner freno con medios extraordinarios a aquella extraordinaria in­solencia; y, sacando la espada que llevaba ceñida, los hirió gravemente y luego los hizo atar y encerrar.

Este hecho, cuando se supo, encendió de ira a toda la mu­chedumbre la cual, pensando que podría obtener con las ar­mas lo que no había conseguido desarmada, empuño furiosa y tumultuosamente dichas armas y se puso en marcha para ir a enfrentarse con los Señores. Por su parte, Michele, temiendo lo que iba a ocurrir, decidió prevenirlo, pensando que resul­taría más honroso atacar que esperar dentro de los muros al enemigo y verse precisado como sus antecesores a huir del palacio con deshonra y vergüenza. Reuniendo, pues, un gran número de ciudadanos que ya habían comenzado a darse cuenta de su error, montó a caballo y, seguido por muchos hombres armados, se dirigió a Santa Maria Novella para com­batir a la plebe.

La plebe que, como arriba dijimos, había tomado parecida decisión, casi al mismo tiempo que Michele y los suyos salían, se puso en marcha a su vez para dirigirse a la plaza; pero la casualidad hizo que sus recorridos fueran distintos y no se encontraran en el camino. Michele, al volver atrás, se en­contró con que la plaza había sido ocupada y se intentaba asaltar el Palacio. Entablando batalla con ellos, consiguió ven­cerlos, expulsando de la ciudad a una parte de ellos y forzando a los otros a deponer las armas y esconderse.

Obtenida la victoria, los tumultos se calmaron sólo por me­rito del gonfalonero, que superó entonces a todos los demás ciudadanos en valor, en prudencia y en bondad, y merece ser citado entre los pocos benefactores de la patria, pues, si hubiera habido en él intención torcida o ambiciosa, la Re­pública habría perdido enteramente la libertad y habría caído en una tiranía mayor que la del duque de Atenas. Pero su hon­radez hizo que no le pasara nunca por la mente pensamiento alguno contrario al bien público, y su prudencia le permitió llevar las cosas de manera que fueron muchos los que se pu­sieron de su parte, y pudo dominar a los otros con las armas. Todas estas cosas hicieron desconcertarse a la plebe e hicie­ron meditar a los mejores artesanos y considerar el desdoro que suponía para quienes habían domeñado la soberbia de los grandes el tener que soportar el hedor de la plebe.

Cuando Michele obtuvo esta victoria contra la plebe, se había formado ya la nueva Señoría. En ella figuraban dos indi­viduos de tan vil e infame condición, que se acrecentó en los ciudadanos el deseo de librarse de tal vergüenza. Hallándose, pues, la plaza llena de gente armada cuando los Señores to­maban posesión de sus magistraturas el día primero de sep­tiembre, apenas salieron del palacio los Señores se alzó tumul­tuosamente entre los armados el grito de que no querían en­tre los señores nadie del pueblo bajo. De modo que la Señoría, para satisfacerles, privó de la magistratura a aquellos dos, unO de los cuales se llamaba Tria y el otro era el cardador Barocco; en su lugar eligieron a Giorgio Scali y Francesco di Michele. Anularon también el Arte o corporación del pueblo bajo y a sus inscritos los privaron de los cargos, excepto a Michele di Lando y a Lorenzo di Puccio y algunos otros más cualificados. Dividieron los cargos en dos partes iguales, una de las cuales asignaron a las Artes mayores y la otra a las menores; pero decidieron que entre los Señores hubiera siempre cinco arte­sanos pertenecientes a las Artes menores y cuatro a las mayo­res, y que el cargo de gonfalonero correspondiera unas veces a uno de esos miembros y otras veces a otro. El gobierno así establecido consiguió por el momento calmar la ciudad; pero aunque se logró privar del mando de la República a la plebe, los artesanos resultaron más poderosos que los nobles, quie­nes se vieron obligados a ceder y a contentar a las Artes para quitar al pueblo bajo el favor de estas.

Todos estos hechos fueron favorecidos también por quie­nes deseaban que quedaran postrados los que, con el nombre de partido güelfo, tan duramente habían ofendido a muchos ciudadanos. Y como, entre los que habían favorecido el nuevo tipo de gobierno, figuraban micer Giorgio Scali, micer Bene­detto Alberti, micer Silvestro dei Medeci y micer Tommaso Stozzi, estos se convirtieron casi en dueños de la ciudad. Esta disposición y organización de las cosas confirmó la ya iniciada rivalidad entre los ciudadanos notables y las Artes menores, rivalidad motivada por las ambiciones de los Ricci y de los Albizzi. Puesto que de estas divisiones se siguieron luego, en diversos momentos, gravísimos efectos, y más de una vez habremos de hablar de ellos, llamaremos a uno de estos par­tidos popular y al otro plebeyo. Duró este estado de cosas tres años y estuvo saturado de destierros y muertes, por lo que los gobernantes vivían en grave alarma, siendo muy grande el número de descontentos tanto dentro como fuera de la ciu­dad. Los descontentos de dentro tramaban, o se creían que tramaban, revoluciones todos los días; y los de fuera, sin mie­do alguno que los frenase, sembraban toda suerte de des­órdenes, ya en un sitio ya en otro, unas veces por medio de algún príncipe y otras por medio de ciertas repúblicas.

Uruguay: El cerrojo progresista

Uruguay: El cerrojo progresista
Ernesto Herrera 17/03/2018

8 de marzo de 2018. “Todas juntas”. Portadas de diarios y noticieros televisivos dan cuenta de la enorme demostración. Las redes sociales explotan de feminismo. Gobernantes y opositores se tiñen de morado. Más de 200 mil mujeres (y hombres) tapizan un largo tramo de la principal avenida de Montevideo. Cientos de videos difunden las imágenes del caleidoscopio. Impresionante.

Las demandas de género y equidad tienen como destinatarios los poderes del Estado (gobierno parlamento, justicia). La espantosa ola de femicidios y la imparable “violencia doméstica” (que afectan sobre todo a mujeres jóvenes, trabajadoras y pobres), agregan la cuota de indignación y de rabia. Al paso de la marcha, en una pantalla gigante del Impo (Centro de Información Oficial) se lee que Uruguay “es el país con el índice de asesinatos de mujeres más alto del mundo”. Lo que vendría a contrariar cifras de Naciones Unidas y CEPAL (Comisión Económica para América Latina y el Caribe), que hablan de “un país con poca violencia de género”. (1)

La “brecha salarial” figura entre los tantos reclamos. Aunque “se viene reduciendo paulatinamente”, la desigualdad es un insulto: las mujeres ganan un promedio de 23,9% menos que los hombres por la misma tarea. Lo que implica nada menos “que si un hombre y una mujer comenzaran a trabajar el 1° de enero en el mismo cargo, la mujer cobraría a partir del 28 de marzo, por lo que trabajaría gratis los primeros 87 días del año”. (2)

Los contrastes en las proclamas leídas en el curso de la Marcha, no disminuyen la intensidad del “fenómeno social”. Reafirman la fertilidad del movimiento de mujeres que se adueña del espacio público. Aún si “puertas adentro” del feminismo militante se expresan “diferencias ideológicas y generacionales” que “reeditan el histórico debate entre la autonomía, la institucionalización y el rol del Estado”. (3)

Infelizmente, la Huelga Internacional de Mujeres no tuvo el mismo eco. Mientras que en algunos lugares se paralizaron las actividades total o parcialmente (salud pública, liceos públicos, Universidad de la República, y pocos del sector privado), la inmensa mayoría de las trabajadoras no pudieron acompañar la convocatoria. Aun con sindicalización, las asalariadas de fábricas, panaderías, tiendas, restaurantes, farmacias, shoppings, supermercados, empleo doméstico, limpieza subcontratada, call centers, celebraron el 8 de Marzo trabajando.

Ellas, también, exigen respeto, quieren ser libres, vivir sin miedos. Si bien no estuvieron en la Marcha, ni hicieron la Huelga. Se entienden las razones: integran ese 70% de “sectores populares” imposibilitado de realizar los “paros parciales”, que decreta el aparato del PIT-CNT. (4)

Constatación insoslayable. La crítica de la opresión patriarcal, la reivindicación de los derechos de género, y por tanto, la emancipación de la mujer, son inseparables de la lucha de clases. Sin alterar las relaciones de fuerza entre trabajo y capital, sin desafiar el despotismo patronal, sin eliminar las condiciones de empleo precario y miseria salarial, sin derrotar la amenaza del despido, sin barrer el acoso machista del lugar de trabajo, la “condición femenina” continuará en estado de subordinación. Mucho peor para trabajadoras, solas o jefas de hogar, cuyo ingreso promedio apenas supera un salario mínimo mensual de 430 dólares.

De todas maneras, es cierto que la Marcha de las Mujeres pese a sus diferencias y limitaciones comparte el podio junto a la Marcha del Silencio (20 de mayo), y a la Marcha de la Diversidad Sexual, (28 de setiembre). Son las únicas manifestaciones realmente masivas que sacuden, tres veces al año, la apatía política.

Aunque sean muy distintas. Por origen, identidades, reivindicaciones. La Marcha del Silencio (5) convocada por Madres y Familiares de Detenidos Desaparecidos, reclama Verdad y Justicia. Exige, incansablemente, el fin de la impunidad, el castigo a los criminales del terrorismo de Estado. (6) Aunque la burla del gobierno persista. (7)

La Marcha de la Diversidad Sexual, convocada por colectivos LGTBI, feministas y culturales, ONGs e instituciones oficiales, resalta derechos conquistados, avances legales, y alerta sobre discriminaciones enquistadas. Muestra un alto componente juvenil. Aunque desde hace unos años, se nota un sesgo de marketing político progresista.

No obstante distintas, convergen en ellas rasgos comunes. Son pacíficas, inclusivas, tolerantes. Revalorizan solidaridades. Si bien ninguna establece barreras de clase, ni levanta consignas anticapitalistas, ni pretende subvertir lo establecido. Es decir, no está en sus intenciones desafiar el orden del capital, ni la “autoridad legítima” del Estado y sus instituciones.

Lejos de una crítica sectaria, se trata de un dato de la realidad. Las tres Marchas presentan una nítida fotografía del país progresista. Dónde las diversas “agendas democráticas” de la “sociedad civil”, superan, largamente, los índices de “conflictividad laboral” y las plataformas “clasistas” del “movimiento obrero organizado”. Bastaría una simple comparación: el PIT-CNT dice contar con alrededor de 400 mil afiliados (30% de los/as asalariados/as con “empleo formal”), sin embargo, desde hace muchos años, no logra reunir a 5 mil trabajadores en el acto central del 1° de Mayo. La Plaza Mártires de Chicago a medio llenar. Los parques repletos. Tal cual una jornada de asueto familiar.

Horizonte infranqueable

La resistencia social existe. Es defensiva. La cartelera de luchas da cuenta de ello. Movilizaciones por los Consejos de Salarios (negociación tripartita entre gobierno, empresarios y sindicatos); protestas contra el “modelo extractivista” y en defensa del agua; trabajadores rurales que exigen el cumplimiento de la “ley de 8 horas” y el cese de la represión patronal; familiares de adolescentes presos que testimonian las torturas que aplican los funcionarios sindicalizados del Inisa (Instituto Nacional de Inclusión Social Adolescente); clasificadores de basura que reclaman dignificar su tarea; escraches a los impunes del terrorismo de Estado; mujeres en alerta que denuncian la violencia de género; reclamos por mayor presupuesto para la salud, educación y vivienda.

Pancartas y grafitis callejeros aluden al “ajuste fiscal”, las “rebajas salariales”, a la privatización y tercerización de servicios públicos, y a la corrupción (comprobada) en la Administración de Servicios de Salud del Estado (ASSE). Parece que gobernara el “neoliberalismo salvaje”.

Algunas de esas luchas han sido, masivas, radicales. Como la de maestros/as y profesores/as en el invierno de 2015. Tabaré Vázquez les decretó la “esencialidad de los servicios” que prohíbe la huelga. El Director Nacional del Trabajo era Juan Castillo, ex dirigente del PIT-CNT, hoy secretario general del Partido Comunista de Uruguay (PCU). Fueron reprimidos por las brigadas antimotines de la Guardia Republicana. Perdieron en esa ocasión y sus organizaciones quedaron debilitadas. Cumpliéndose así el propósito (hecho público ante los medios) de José Mujica: a los sindicatos de la enseñanza “hay que hacerlos mierda”. Aunque el 1° de marzo de 2010, ya posesionado como jefe de Estado, le anunciaba al Parlamento sus tres principales objetivos: “educación, educación, educación”. Una radiante Hillary Clinton lo aplaudía de pie.

Los sindicatos de la enseñanza continúan peleando. Igual que miles de trabajadores/as. Sin embargo, las aspiraciones de “salario digno” y “justicia social“, no agrietan eso que muchos comentaristas llaman “hegemonía progresista”, la cual, en verdad, funciona como cerrojo ideológico y programático. Donde la perspectiva de emancipación social y el “ir más allá” quedan encerrados en las dos premisas fundamentales que definen el “cambio posible”: aceptación del capitalismo y colaboración de clases. Las demandas tienen un límite: el horizonte infranqueable.

Dicho en palabras del jefe de los tupamaros oficiales. Por un lado, la economía capitalista “es una herramienta de la prosperidad económica.” (8) Imposible de vencer “con decretos o con decisiones meramente políticas. Es un cambio de época. Utilizamos los recursos del capitalismo con el máximo de inteligencia para tratar de tener sociedades mucho más calificadas”. (9) Por el otro, “las discusiones sindicales no pueden ser solo sobre salarios (…) El trabajador se tiene que ir empezando a envolver de las dificultades y los logros que tienen las empresas para exigir que caminen y que además se reinvierta. No podemos permanecer tan distantes de las vicisitudes que significa la peripecia de una empresa, cuando está en juego tanta cosa”. (10)

La profesora Alma Bolon ya lo había apuntado lucidamente. Mujica no es solamente “héroe de la más exitosa operación mediático-ética de la que haya registro en estas tierras”; sino “el regalo con el que la derecha uruguaya nunca se había atrevido a soñar”. (11) Tiempo después de estas lapidarias afirmaciones, un índice del Instituto Fraser con apoyo del Centro de Estudios para el Desarrollo, un think thank de corte liberal, certificaba que la adscripción del antiguo guerrillero a las “reglas” del mercado es absolutamente sincera: durante su presidencia (2010-2015), el país consiguió el “mayor grado de libertad económica”. (12)

Las consecuencias de esta espantosa metamorfosis de la “izquierda histórica” son aplastantes. Entierran principios. Borran antagonismos entre pobres y ricos. Domestican conciencias. No hay clases irreconciliables. La “cultura obrera” cede lugar al “status de clase media”. La lucha de clases se vuelve un juego de intercambios negociados o de “contrapartidas acordadas”. La “convivencia ciudadana” y el “interés nacional” como estandartes. Las percepciones socio-culturales se confunden. Hasta las más elementales.

Los “milicos represores” pasaron a ser la “Policía amiga”. Los efectivos del Ministerio del Interior (que dirige el tupamaro Eduardo Bonomi) aducen sentirse “rehenes” en los “barrios críticos” de la periferia urbana. (13) Vecinos, comerciantes y sindicatos del transporte, los convocan y apoyan. Son el arma institucional para perseguir a los “pobres malos” y, sobre todo, para castigar a los principales “enemigos de la seguridad”: los “adolescentes infractores”. El parte de guerra es un horror. Durante la presidencia de Mujica se profundizó el “Estado punitivo” con aumentos de las penas y más políticas de criminalización social (14); la mayoría de los muertos, heridos y detenidos tiene menos de 35 años; la tasa de población encarcelada es la más alta de América Latina (15), el 62% de los 12 mil “privados de libertad” es menor de 29 años.

La pobreza ya no tiene raíces socio-económicas, sino que es un “problema personal y privado” (16) cuando no consecuencia de un proceso de “lumpenización” y “favelización”. Un alto porcentaje de personas (muchísimas votantes del Frente Amplio) critican los planes sociales, piensan que lo que se hace para bajar la pobreza “es más de lo necesario”. (17) Sin molestarse en saber que las “transferencias monetarias directas” a los hogares más pobres apenas representa 0,2% del Presupuesto Nacional; ni que 350 mil personas (11% de la población total del país) todavía sobreviven en el “núcleo duro” de la “pobreza estructural”. Desde la Oficina de Planeamiento y Presupuesto (OPP) dicen que el “país igualitario” muestra signos de fractura. (17)

El PIT-CNT coopera con los “proyectos productivos”. Respalda la inversión privada, local y extranjera. Los sindicatos de la Construcción y Metalúrgicos (dirigidos por el Partido Comunista), admiten la instalación de la tercera “mega-fábrica” transnacional de pasta de celulosa: “genera empleos y masa salarial”. No importan la contaminación medio-ambiental, las exoneraciones fiscales, ni que las “obras de infraestructura vial” sean pagadas por el Estado. (18) En todos los casos mejor. Es la ley de “Participación Público-Privada” que, al fin, empieza a derramar “crecimiento económico”. Porque hasta ahora, solo se había concretado un solo emprendimiento: la construcción de una “cárcel modelo” con 1.800 plazas, donde los presos comerán pescado hasta ¡dos veces por semana!

Los gobiernos del Frente Amplio aceleraron la contrarrevolución agraria. Los propietarios del agronegocio la definen como una “revolución sorprendente” (19) Editorialistas liberales son más punzantes en el juicio. El gobierno Mujica, “será recordado por no haber concretado los desastres que los tupamaros proponían hace cuatro décadas (…) “No hay ‘reforma agraria’ (salvo la que desarrollaron con indudable éxito los empresarios brasileños en el campo uruguayo), la banca privada es toda extranjera, las relaciones con el FMI son excelentes, las multinacionales y el capital extranjero no sólo son bienvenidos sino que han sido llamados con desesperación por el liderazgo tupamaro (…) y la ‘extranjerización de la tierra’ se expandió como pocas veces en la historia del Uruguay durante los dos gobiernos del Frente Amplio”. (20) Ayuda memoria: Mujica ejerció como Ministro de Agricultura, Ganadería y Pesca (2010-2014) en el primer mandato de Vázquez.

En este cuadro, los sindicatos de trabajadores rurales denuncian la sobreexplotación, los salarios de hambre, la persecución sindical, las agresiones físicas, las deplorables condiciones laborales. Y luchan. Aunque la tasa de sindicalización ronde apenas el 6%. Reclaman fomento de producción, libre de transgénicos, destinada al mercado interno, financiación de cooperativas. Es decir, proponen otro modelo de “acceso a la tierra”. Sin embargo, “reforma agraria” y “expropiaciones” están ausentes de la extensa lista de “reivindicaciones inmediatas”. (21)

¿Ciclo o paréntesis?

1° de marzo de 2018. Ya no hay entusiasmo. Ni multitudes tomando las calles para saludar a Tabaré Vázquez, el “compañero presidente”. Como ocurría 13 años atrás, cuando el Frente Amplio asumía el gobierno nacional por primera vez. Esta vez, el progresismo optó, para “defender su gestión”, por “una nueva estrategia de comunicación”: la Cadena Nacional de Radio y Televisión. Sin barullo militante ni ondear de banderas. Así los votantes meditan atentos en sus casas.

Simultáneamente, la tropa de choque aprueba sin chistar. Tanto el contenido como la modalidad. Son los miles de “cuadros políticos” y sindicalistas que se reciclaron como “gestores/administradores” del aparato de Estado. Para empujar “más a la izquierda”. Y que siguen atornillados en sus “cargos de confianza política”. Hace rato que abandonaron la tesis de “rumbo en disputa”. Sus principales instigadores, el Movimiento de Participación Popular (MPP) y el Partido Comunista, la tacharon del diccionario. Defienden su cuota de poder en la “nueva elite gobernante”. Ejerciendo clientelismo, comprando Ongs, traficando influencias, usando dineros públicos. Haciendo carrera como capa social privilegiada.

Más de una década después de aquel “cimbronazo político” que prometía, según Tabaré Vázquez, un “camino de transformaciones” que haría “temblar las raíces de los árboles” el resultado es, cuando mucho, avaro. Incluso desde una mirada “reformista”.

Leyes de protección laboral; derechos sindicales; “recuperación salarial” (entre 2005-2013); reducción de la pobreza y la indigencia (entre 2005-2015); “agenda de nuevos derechos” (despenalización del aborto, legalización de la marihuana, matrimonio igualitario). En fin, 600 mil personas (27% de la población) integradas al “confortable” consumo de “clase media”.

No obstante, las “asignaturas pendientes” superan la lista de materias aprobadas. A pesar de una década con record histórico de “crecimiento económico”, el desempleo abierto se ubica en 8,5%. “Y lo que es más revelador de la precariedad estructural de nuestra economía, casi la mitad de la fuerza de trabajo percibe una remuneración inferior a los 600 dólares mensuales”. (22) Alrededor de 185 mil personas habitan los “asentamientos irregulares”. Las 15 mil viviendas populares que Mujica prometió en el marco de su “generoso” Plan Juntos, fueron menos de 3 mil al final de su mandato. En las “zonas vulnerables” donde predominan las “necesidades básicas insatisfechas”, el desempleo juvenil alcanza 25% y el embarazo adolescente se reproduce a tasas alarmantes. Apenas 2% de los “hijos de clase trabajadora” accede a la Universidad. En la enseñanza pública, 6 de cada 10 alumnos no completa los seis años del ciclo secundario. .

El programa económico, certificado por las Instituciones Financieras Internacionales en junio de 2005, en la ciudad de Washington, está vigente. Las ataduras a las condiciones que impone la “mundialización” capitalista, también. La fraudulenta deuda externa se paga puntualmente. Al final, el progresismo resultó un “cambio posible”…en la misma dirección.

Por tanto, es una exageración hablar de dos “ciclos” o de dos “eras”. Neoliberalismo y “pos-neoliberalismo” convergen en la misma lógica. La prosa “neo-desarrollista” apenas un eufemismo que no modifica la ecuación. La “matriz” fue diseñada por los gobiernos de coalición entre colorados y blancos en la “década perdida” de 1990 y así continúa. Los pilares son los mismos. Ley Forestal; Ley de Inversiones; Ley de Zonas Francas; Sistema de Administradoras de Fondos de Ahorro Previsional (Afap); Ley de Puertos. Cuando el Frente Amplio, era oposición de izquierda, se opuso a este proceso de contrarreformas neoliberales, promoviendo en algunos casos plebiscitos y referéndums. Ninguna fue derogada en estos 13 años.

El “ciclo progresista” consistió, justamente, en más continuidad. Desregulación financiera; desnacionalización de la producción y de la comercialización de los rubros exportables: soja (100% transgénica), carne, arroz, trigo, lácteos; concentración-extranjerización de la tierra; multiplicación del régimen de zonas francas; exoneraciones tributarias a las multinacionales de celulosa y mineras; privatizaciones y subcontrataciones.

Los sucesivos gobiernos del Frente Amplio le agregó: Impuesto a la Renta de las Personas Físicas (IRPF), primer mandato de Vázquez; ley de “Participación Público-Privada” (PPP) y ley de “Inclusión Financiera”, mandato de Mujica (23); privatización-tercerización de áreas y servicios del Banco de la República (BROU), segundo mandato de Vázquez.

La agenda económica no contempló, en ningún momento, una real distribución de la riqueza. La “rentabilidad” empresarial siempre estuvo a cubierto de los vaivenes “cíclicos” de la economía. En todo caso, el progresismo se benefició del paréntesis que abrió la “bonanza” de los commodities (entre 2004-2001), para “ocultar el “conflicto distributivo” y generar recursos de inversión pública y financiamiento del proceso asistencialista de las políticas sociales. Aunque el monto destinado a esas políticas nunca haya alcanzado el 0,4% del PBI. (24)

Desde el vamos, la política económica fue una sola. Coherente. Jamás estuvo “en disputa”. Ni hubo tire y afloje entre “dos equipos económicos”. Las directrices fueron marcadas por su principal teórico y ejecutor: el solvente Danilo Astori. El historiador y politólogo Gerardo Caetano, a quién nadie puede tildar de “radical” o desinformado, lo describe con precisión. “Me causa mucha gracia cuando me dicen que Astori es el gran perdedor en la interna frenteamplista. En los tres gobiernos frenteamplistas, luego del presidente, ha sido sin duda el hombre más poderoso en estos 11 años. Vázquez lo ha respaldado siempre o casi siempre y Mujica, aun cuando lo ha discutido, a la hora de la verdad también lo respaldó. Entonces la mera discusión de la política económica del gobierno frenteamplista se ha convertido en un tabú”. (25) Lo continúa siendo, aun si de vez en cuando hay griterío y rabieta. Y muchos militantes se sientan desconcertados. Incómodos.

Partido de Estado

Nadie pretendía, o siquiera imaginaba, que el Frente Amplio sería un gobierno de “ruptura anticapitalista”. Que fuera a poner en tela de juicio las “relaciones sociales de producción” o que demolería las instituciones del régimen burgués de dominación política. Tampoco que asumiría una postura soberanista ante la prepotencia del “campo imperialista”. De hecho, está a favor de firmar Tratados de Libre Comercio con el que sea. Por ejemplo, es uno de los socios del Mercosur más proclives a concretar, rápidamente, el que se negocia con la Unión Europea.

Su definición estratégica se basó en llegar al poder de Estado, sometiéndose al régimen de “democracia gobernable”. Ya cuando la brutal crisis económico-financiera de 2001-2003, su compromiso fue preciso: “lealtad institucional”. Mientras diversos analistas nacionales internaciones (hasta incluso el FMI) daban que el presidente de entonces, Jorge Batlle (Partido Colorado) estaba “con los días contados”, amortiguó las terribles consecuencias sociales para “no incendiar la pradera”. No hubo saqueos, ni huelgas generales, ni asambleas barriales, ni gente con cacerolas en los ómnibus como en Buenos Aires. Y mucho menos el “que se vayan todos”. Fue el último examen y lo aprobó. El trampolín hacia la victoria electoral de octubre de 2004.

Cierto. El Frente Amplio no llegó al gobierno empujado por una ola de insurgencias populares, ni rebeliones masivas. Es la diferencia con Argentina, Bolivia, Ecuador, Venezuela. No estaba obligado a ir por las “reformas estructurales” del programa “antioligárquico” y “antiimperialista” de 1971, cuando su fundación. La reforma agraria, la nacionalización de los bancos privados, la reforma urbana, la nacionalización del comercio exterior, no eran ya una seña programática de la clase trabajadora y sus aliados populares. La crisis de 2001-2003, fue un punto de inflexión. Las demandas bajaron a tierra. El desastroso cuadro socio-económico pincho la “inflación de expectativas”. Había que “recuperar” condiciones de vida soportables. Más de 150 mil trabajadores/as habían perdido el empleo en el sector privado; el salario sufrió una caída del 20%; la pobreza y la indigencia sumaban 39%.

En tal sentido, el progresismo se hizo cargo de la “herencia maldita” sembrada por la “crisis del neoliberalismo”; recompuso en parte el “tejido social”, redujo los índices de “pobreza reciente” y, fundamentalmente, restauró la “normalización” sistémica. Ejerciendo el poder como partido de Estado. O sea, como partido del orden capitalista. Hecho cualitativo y definitorio que los sectores frenteamplistas “desconcertados”, por lo general, omiten de sus análisis. Con mayorías parlamentarias propias (en los dos primeros mandatos) y sin la necesidad de formalizar un gobierno de coalición con la gran burguesía como en el caso del Partido de los Trabajadores en Brasil, el progresismo uruguayo aplicó con prudencia la estrategia de “unidad nacional” a partir de una consistente política de colaboración de clases. Que, debe decirse, contó (y cuenta) con un amplio consentimiento social.

Evidente. La “decadencia ideológica” de la “centroizquierda” fue sorteando etapas. Comenzó con las distintas “actualizaciones programáticas”, con el acceso al gobierno municipal de Montevideo hace 28 años, y con la idea verticalista de que los “cambios” son más eficientes, duraderos y sostenibles, si se realizan “desde arriba”. Desmotivando así cualquier proceso de auto-organización por fuera de lo institucional (partidos, sindicatos, gremios estudiantiles, Ongs cooptadas). Razones que también olvidan los militantes del Frente Amplio que hoy son críticos y se preguntan qué es lo que terminó y qué es lo que comienza. (26) Sin responderse sobre la naturaleza y la función actual del Frente Amplio.

Las fuerzas políticas que deciden en el Frente Amplio y sostienen al gobierno, ya no pueden considerarse “de izquierda”, ni en un sentido práctico ni programático. Su capa dirigente es, esencialmente, un grupo de funcionarios y parlamentarios que viven de los cargos públicos y las nominaciones electorales; que negocia por dentro del aparato de Estado con un conjunto de enemigos de la clase trabajadora (derecha política, poderes mediáticos, corporaciones patronales, instituciones financieras internacionales, gobiernos imperialistas o reaccionarios), Una capa social conservadora que, más allá de sus contorsiones discursivas y espasmódicos “virajes a la izquierda”, es irrecuperable, incluso para una lucha más o menos “reformista”. Su horizonte estratégico es el poder por el poder mismo, su programa está desprovisto de un proyecto de nación soberana y huérfano de cualquier noción de emancipación social.

Obviamente, esto no significa subestimar al Frente Amplio como maquinaria electoral. En este terreno seguirá gravitando. Tanto como su indiscutida capacidad de volver a reclutar votos y voluntades que se inclinan por “lo menos malo” para que “no vuelva la derecha”.

Las conclusiones que resultan de estos 13 años de progresismo en Uruguay, coinciden con las realizadas por Decio Machado y Raúl Zibechi en torno a los llamados “gobiernos nacionales y populares” o “pos-neoliberales” del “ciclo progresista” en América del Sur. “Lo que entró en crisis es un proyecto que buscó administrar el capitalismo realmente existente (o sea extractivo) pero con buenos modales. El resultado de los años dedicados a gerenciar el modelo, fue el ascenso de nuevas proles de gestores que se incrustaron en los altos escalones del Estado, ya sea como en las administraciones centrales, en las empresas estatales en alianza con empresas privadas. La crisis del progresismo devela lo que el discurso pretendió enmascarar: cómo las políticas sociales, bajo el argumento de la justicia social, el combate a la pobreza y la desigualdad, se limitaron a cooptar a los dirigentes populares para intentar domesticar los movimientos de los más pobres”. (27)

La verdadera “disputa”, entonces, pasa por (re)construir “un campo estratégico” de la izquierda socialista y revolucionaria. Y no apenas corregir el “rumbo perdido” de la antigua izquierda. Si la función central del progresismo es la de cerrajero del “potencial anticapitalista” de la clase trabajadora, el desafío de las fuerzas de “intención revolucionaria” es (o debería serlo) la de forjar una vinculación real con las resistencias sindicales y populares, siendo protagonista visible, sin pretensiones vanguardistas, proponiendo alternativas programáticas y estratégicas antagonistas del poder de Estado y de su arquitectura institucional.

Montevideo, 16 de marzo de 2018.

Notas:

1) “Uruguay es un país con poca violencia de género”. La Diaria, edición Fin de Semana, 3-3-2018.

2) “Brecha salarial: las mujeres trabajan 87 días gratis al año”. Informe Equal Pay Day divulgado por el estudio de abogados Ferrere, El País, 8-3-2018.

3) “Esta es mi revolución. El feminismo militante en Uruguay”, Daiana García, Brecha, 9-3-2018, y Correspondencia de Prensa, 9-3-2018.

4) Plenario Intersindical de Trabajadores-Convención Nacional de Trabajadores, central sindical única.

5) La Marcha recuerda el 20 de mayo de 1976, durante la dictadura (1973-1985), cuando fueron asesinados en Buenos Aires los legisladores Zelmar Michelini (Frente Amplio) y Héctor Gutiérrez Ruiz (Partido Nacional), y Rosario Barredo y William Whitelaw (militantes escindidos del movimiento tupamaro). Todos ellos se encontraban exiliados. El crimen fue cometido por militares uruguayos y argentinos en el marco de coordinación represiva de las dictaduras del Cono Sur (Argentina, Brasil, Chile, Paraguay, Uruguay), conocida más tarde como “Operación Cóndor”.

6) “Las cloacas de la impunidad”. Ernesto Herrera, Rebelión, 22-1-2015 (http://www.rebelion.org/noticia.php?id=194573) y A l´encontre, 6-2-2015 (http://alencontre.org/?s=ernesto+herrera+impunit%C3%A9)

7) “Hasta acá llegamos”, La renuncia de Familiares al Grupo por Verdad y Justicia”, Samuel Blixen, Brecha, 2-3-2018 y Correspondencia de Prensa, 3-3-2018.

8) Almuerzo de Mujica (12-12-2012) con 200 empresarios hoteleros, inmobiliarios y gastronómicos, Actividad organizada por “Destino Uruguay” en el restaurante Boca Chica de Punta del Este. Búsqueda, 27-12-2012.

9) Entrevista a Mujica, diario El Mercurio, Santiago de Chile, 5-1-2014.

10) Entrevista a Mujica, suplemento El Empresario, El País, 5-4-2013.

11) “El 14 de abril”, Ana Bolon, Brecha, 13-4-2012

12) “Uruguay tuvo con Mujica su mayor grado de libertad económica”, Búsqueda, 5-10-2017.

13) “Los policías denuncian sentirse “rehenes” en los barrios críticos”. El País, Montevideo, 9-3-2018.

14) “Seguridad, pobreza y criminalización. La profundización del estado punitivo en Uruguay”, Ana Juanche y Giani Di Palma, Revista Contrapunto, Montevideo, mayo de 2014.

15) “La benevolencia de la izquierda con los criminales es un mito”, entrevista al sociólogo Luis Eduardo Morás en el Semanario Hebreo, Montevideo Portal, 3-3-2018 y Correspondencia de Prensa, 10-3-2018

16) “La pobreza como un problema personal y privado. El ropaje des-socializante de las nuevas políticas sociales”, Bentura, Alonso, Mariatti, Brecha, 2-9-2018.

17) “Es pobre por “su culpa”: la nueva grieta uruguaya”, Tomer Urwicz, El País, 24-9-2017.

18) Ya existen dos gigantescas fábricas pasteras: una de UPM (ex Botnia), transnacional finlandesa, ubicada en la ciudad de Fray Bentos, departamento de Río Negro; y otra de Montes del Plata, propiedad de Arauco y Stora Enso, de origen chileno y sueco-finlandés, ubicada en Conchillas, departamento de Colonia. La segunda de UPM, se instalará cerca de la ciudad de Paso de los Toros, ubicada entre los departamentos de Durazno y Tacuarembó.

19) “Agro. La revolución sorprendente”, Rosanna Dellazoppa, Fin de Siglo, Montevideo, 2014.

20) “Dos años de Mujica”, Claudio Paolillo, Búsqueda, 1-3-2012.

21) “El conflicto del campo en la mirada de los trabajadores. La séptima mochila”, Salvador Neves, Brecha, 9-3-2018, y Correspondencia de Prensa, 10-3-2018.

22) “Hijos de la tierra. Apuntes sobre la economía política del Uruguay”, Gabriel Oyhantçabal. y Rodrigo Alonso, artículo publicado en el libro “Entre: ensayos sobre lo empieza y lo que termina”, Estuario editora, Montevideo, 2017.

23) A propósito del poder de los “servicios financieros” y sus consecuencias económicas y sociales, hay un estudio riguroso de Lena Levinas, investigadora del Instituto de Economía de la Universidad Federal de Río de Janeiro, “La financierización de la política social: el caso brasileño”, publicado en el sito de Sin Permiso, el 10-10-2015: (http://www.sinpermiso.info/textos/la-financierizacion-de-la-politica-social-el-caso-brasileno)

24) “Modos de ocultar el conflicto distributivo. Focopolítica en Uruguay”, Leticia Pérez, Brecha, 26-8-2016.

25) “El próximo presidente del FA tendrá que hacer varios parricidios”, entrevista a Gerardo Caetano, Brecha, 22-7-2016, y Correspondencia de Prensa, 23-7-2016.

26) Un resumen de las posiciones de estos sectores críticos, la expone el sociólogo Gabriel Delacoste en una entrevista titulada “La decadencia del progresismo no es electoral sino ideológica”, Brecha, 9-2-2018. Lacoste integra el colectivo de jóvenes académicos y activistas de diversas redes sociales, militantes del Frente Amplio, que publicaron el libro citado en la nota 22.

27) “Cambiar el mundo desde arriba. Los límites del progresismo”. Decio Machado y Raúl Zibechi, Ediciones desde abajo, Bogotá, 2016.

Primera carta a las izquierdas

Primera carta a las izquierdas
Por Boaventura de Sousa Santos *

No pongo en cuestión que exista un futuro para las izquierdas, pero su futuro no será una continuación lineal de su pasado. Definir lo que tienen en común equivale a responder la pregunta: ¿qué es la izquierda? La izquierda es un conjunto de posiciones políticas que comparten el ideal de que los seres humanos tienen todos el mismo valor, y que son el valor más alto. Ese ideal es puesto en cuestión siempre que hay relaciones sociales de poder de-sigual, esto es, de dominación. En este caso, algunos individuos o grupos satisfacen algunas de sus necesidades transformando a otros individuos o grupos en medios para sus fines. El capitalismo no es la única fuente de dominación, pero es una fuente importante.

Las diferentes comprensiones de este ideal produjeron diversas fracturas. Las principales fueron respuestas opuestas a las siguientes preguntas. ¿Puede el capitalismo ser reformado para mejorar la suerte de los dominados, o esto sólo es posible más allá del capitalismo? ¿La lucha social debe ser conducida por una clase (la clase obrera) o por diferentes clases o grupos sociales? ¿Debe ser conducida dentro de las instituciones democráticas o fuera de ellas? ¿El Estado es, en sí mismo, una relación de dominación, o puede ser movilizado para combatir las relaciones de dominación?
Las respuestas opuestas a estas preguntas estuvieron en el origen de violentas fracturas. En nombre de la izquierda se cometieron atrocidades contra la izquierda; pero, en su conjunto, las izquierdas dominaron el siglo XX (a pesar del nazismo, el fascismo y el colonialismo) y el mundo se volvió más libre e igualitario gracias a ellas. Este siglo corto de las izquierdas terminó con la caída del Muro de Berlín. Los últimos treinta años fueron marcados, por un lado, por una gestión de ruinas y de inercias y, por el otro, por la emergencia de nuevas luchas contra la dominación, con otros actores y otros lenguajes que las izquierdas no pudieron entender.
Mientras tanto, liberado de las izquierdas, el capitalismo volvió a mostrar su vocación antisocial. Ahora vuelve a ser urgente reconstruir las izquierdas para evitar la barbarie. ¿Cómo recomenzar? Con la aceptación de las siguientes ideas:
Primero, el mundo se diversificó y la diversidad se instaló en el interior de cada país. La comprensión del mundo es mucho más amplia que la comprensión occidental del mundo; no hay internacionalismo sin interculturalismo.
Segundo, el capitalismo concibe a la democracia como un instrumento de acumulación; si es preciso, la reduce a la irrelevancia y, si encuentra otro instrumento más eficiente, prescinde de ella (el caso de China). La defensa de la democracia de alta intensidad debe ser la gran bandera de las izquierdas.
Tercero, el capitalismo es amoral y no entiende el concepto de dignidad humana; defender esta dignidad es una lucha contra el capitalismo y nunca con el capitalismo (en el capitalismo, incluso las limosnas sólo existen como relaciones públicas).
Cuarto, la experiencia del mundo muestra que hay inmensas realidades no capitalistas, guiadas por la reciprocidad y el cooperativismo, a la espera de ser valoradas como el futuro dentro del presente.
Quinto, el siglo pasado reveló que la relación de los humanos con la naturaleza es una relación de dominación contra la cual hay que luchar; el crecimiento económico no es infinito.
Sexto, la propiedad privada sólo es un bien social si es una entre varias formas de propiedad y si todas están protegidas; hay bienes comunes de la humanidad (como el agua y el aire).
Séptimo, el siglo corto de las izquierdas fue suficiente para crear un espíritu igualitario entre los seres humanos que sobresale en todas las encuestas; éste es un patrimonio de las izquierdas que ellas han estado dilapidando.
Octavo, el capitalismo precisa otras formas de dominación para florecer, del racismo al sexismo y la guerra, y todas deben ser combatidas.
Noveno, el Estado es un animal extraño, mitad ángel y mitad monstruo, pero, sin él, muchos otros monstruos andarían sueltos, insaciables, a la caza de ángeles indefensos. Mejor Estado, siempre; menos Estado, nunca.
Con estas ideas, las izquierdas seguirán siendo varias, aunque ya no es probable que se maten unas a otras y es posible que se unan para detener la barbarie que se aproxima.

  • Doctor en Sociología del Derecho.

Traducción: Javier Lorca.

Deriva de la izquierda

DERIVA DE LA IZQUIERDA

Jorge Gómez Barata

MONCADA

Después de más de cuarenta años, los estados socialistas de Europa Oriental, instalados a partir de la orientación soviética, con graves problemas estructurales y carentes de apoyo popular, sucumbieron. La crisis alcanzó a la propia Unión Soviética, donde ocurrió exactamente lo mismo sin que los pueblos y las poderosas fuerzas políticas que había generado, en especial un partido de veinte millones de militantes y un movimiento sindical con 100 millones de afiliados, la defendieran.

Ante tales evidencias que desmintieron rotundamente el dogma de que el socialismo era “irreversible”, Fidel Castro llamó a los militantes cubanos a estar alerta porque los errores y las inconsecuencias podían destruir desde dentro a la Revolución y advirtió que el modelo instaurado no funcionaba. Poco después, bajo la presidencia de Raúl Castro se iniciaron las reformas que han comenzado por la economía.

Aunque separadas por el tiempo y la distancia, algo parecido ha ocurrido en América Latina donde, después de un desempeño exitoso, los gobiernos de izquierda caen uno tras otros, en este caso por el voto negativo de aquellos a quienes habían beneficiado. ¿Habrá algo en común? ¿Existirá algún elemento intrínseco que impide la consolidación del socialismo o de los enfoques de izquierda o simplemente progresistas?

Aunque se han acumulado varios ejemplos, el más relevante es el de Brasil donde los representantes del Partido del Trabajo, la principal fuerza política de la izquierda latinoamericana, Luis Ignacio Lula y Dilma Rousseff gobernaron durante 13 años, en los cuales tuvieron tiempo y condiciones para conducir una vasta obra social y acumular un enorme capital político.

Algo parecido ocurrió en Argentina donde Néstor y Cristina Kirchner gobernaron por 12 años, al cabo de los cuales el candidato que debía dar continuidad a su obra, fue derrotado convincentemente. En El Salvador la izquierda parece abocada a una catástrofe electoral.

Al dejar la presidencia Lula era más popular que al asumirla y el electorado respaldó a su candidata Dilma Rousseff que realizó una gestión de continuidad hasta que su popularidad comenzó a ser socavada por manifestaciones populares, en parte asociada a la Copa Mundial de futbol, hasta que finalmente, en 2016 fue destituida por el parlamento sin que ello provocara mayores reacciones. Tampoco la defensa de Lula, que es víctima de una injustificada persecución judicial, es respaldada por una vigorosa reacción del pueblo y las fuerzas políticas progresistas.

Ante el drama que vive el que fuera el más popular de los políticos latinoamericanos, amenazado con pasar sus últimos días en la cárcel, uno se pregunta: ¿Dónde están los partidos comunistas y las fuerzas progresistas brasileñas? ¿Dónde los poderosos sindicatos de Sao Paulo? ¿Acaso es muda la intelectualidad y la academia brasileña? ¿Se acabó en Brasil la prensa progresista y honesta? ¿No hay en ese país jóvenes y estudiantes universitarios combativos?

En Nicaragua y Uruguay donde ha prevalecido un enfoque que ha privilegiado la búsqueda de consenso nacional, las cosas han marchado mejor

La falta de respuesta a esta y otras problemáticas que afectan a la izquierda, puede estar asociada al modo como se gestionó el socialismo a lo largo de los setenta años de vigencia de un esquema plagado de dogmas e imposiciones, que impidieron a los científicos sociales y a la intelectualidad de los países socialistas y del propio país soviético, investigar, experimentar actualizar y colocar en contexto los preceptos del marxismo e incluso del leninismo.

Obviamente, es preciso realizar indagaciones serias para descubrir las razones de que, aun en ambientes favorables, la izquierda no logre consolidar sus resultados, lo cual es particularmente importante para las experiencias en curso. Se trata de una tarea urgente. Allá nos vemos.

La Habana, 14 de marzo de 2018

The Alchemist

The Alchemist
By H. P. Lovecraft

High up, crowning the grassy summit of a swelling mound whose sides are wooded near the base with the gnarled trees of the primeval forest, stands the old chateau of my ancestors. For centuries its lofty battlements have frowned down upon the wild and rugged countryside about, serving as a home and stronghold for the proud house whose honoured line is older even than the moss-grown castle walls. These ancient turrets, stained by the storms of generations and crumbling under the slow yet mighty pressure of time, formed in the ages of feudalism one of the most dreaded and formidable fortresses in all France. From its machicolated parapets and mounted battlements Barons, Counts, and even Kings had been defied, yet never had its spacious halls resounded to the footsteps of the invader.

But since those glorious years all is changed. A poverty but little above the level of dire want, together with a pride of name that forbids its alleviation by the pursuits of commercial life, have prevented the scions of our line from maintaining their estates in pristine splendour; and the falling stones of the walls, the overgrown vegetation in the parks, the dry and dusty moat, the ill-paved courtyards, and toppling towers without, as well as the sagging floors, the worm-eaten wainscots, and the faded tapestries within, all tell a gloomy tale of fallen grandeur. As the ages passed, first one, then another of the four great turrets were left to ruin, until at last but a single tower housed the sadly reduced descendants of the once mighty lords of the estate.

It was in one of the vast and gloomy chambers of this remaining tower that I, Antoine, last of the unhappy and accursed Comtes de C——, first saw the light of day, ninety long years ago. Within these walls, and amongst the dark and shadowy forests, the wild ravines and grottoes of the hillside below, were spent the first years of my troubled life. My parents I never knew. My father had been killed at the age of thirty-two, a month before I was born, by the fall of a stone somehow dislodged from one of the deserted parapets of the castle; and my mother having died at my birth, my care and education devolved solely upon one remaining servitor, an old and trusted man of considerable intelligence, whose name I remember as Pierre. I was an only child, and the lack of companionship which this fact entailed upon me was augmented by the strange care exercised by my aged guardian in excluding me from the society of the peasant children whose abodes were scattered here and there upon the plains that surround the base of the hill.

At the time, Pierre said that this restriction was imposed upon me because my noble birth placed me above association with such plebeian company. Now I know that its real object was to keep from my ears the idle tales of the dread curse upon our line, that were nightly told and magnified by the simple tenantry as they conversed in hushed accents in the glow of their cottage hearths.

Thus isolated, and thrown upon my own resources, I spent the hours of my childhood in poring over the ancient tomes that filled the shadow-haunted library of the chateau, and in roaming without aim or purpose through the perpetual dusk of the spectral wood that clothes the side of the hill near its foot. It was perhaps an effect of such surroundings that my mind early acquired a shade of melancholy. Those studies and pursuits which partake of the dark and occult in Nature most strongly claimed my attention.

Of my own race I was permitted to learn singularly little, yet what small knowledge of it I was able to gain, seemed to depress me much. Perhaps it was at first only the manifest reluctance of my old preceptor to discuss with me my paternal ancestry that gave rise to the terror which I ever felt at the mention of my great house; yet as I grew out of childhood, I was able to piece together disconnected fragments of discourse, let slip from the unwilling tongue which had begun to falter in approaching senility, that had a sort of relation to a certain circumstance which I had always deemed strange, but which now became dimly terrible.

The circumstance to which I allude is the early age at which all the Comtes of my line had met their end. Whilst I had hitherto considered this but a natural attribute of a family of short-lived men, I afterward pondered long upon these premature deaths, and began to connect them with the wanderings of the old man, who often spoke of a curse which for centuries had prevented the lives of the holders of my title from much exceeding the span of thirty-two years. Upon my twenty-first birthday, the aged Pierre gave to me a family document which he said had for many generations been handed down from father to son, and continued by each possessor. Its contents were of the most startling nature, and its perusal confirmed the gravest of my apprehensions. At this time, my belief in the supernatural was firm and deep-seated, else I should have dismissed with scorn the incredible narrative unfolded before my eyes.
The paper carried me back to the days of the thirteenth century, when the old castle in which I sat had been a feared and impregnable fortress. It told of a certain ancient man who had once dwelt on our estates, a person of no small accomplishments, though little above the rank of peasant; by name, Michel, usually designated by the surname of Mauvais, the Evil, on account of his sinister reputation. He had studied beyond the custom of his kind, seeking such things as the Philosopher’s Stone, or the Elixir of Eternal Life, and was reputed wise in the terrible secrets of Black Magic and Alchemy. Michel Mauvais had one son, named Charles, a youth as proficient as himself in the hidden arts, and who had therefore been called Le Sorcier, or the Wizard. This pair, shunned by all honest folk, were suspected of the most hideous practices. Old Michel was said to have burnt his wife alive as a sacrifice to the Devil, and the unaccountable disappearances of many small peasant children were laid at the dreaded door of these two. Yet through the dark natures of the father and the son ran one redeeming ray of humanity; the evil old man loved his offspring with fierce intensity, whilst the youth had for his parent a more than filial affection.
One night the castle on the hill was thrown into the wildest confusion by the vanishment of young Godfrey, son to Henri the Comte. A searching party, headed by the frantic father, invaded the cottage of the sorcerers and there came upon old Michel Mauvais, busy over a huge and violently boiling cauldron. Without certain cause, in the ungoverned madness of fury and despair, the Comte laid hands on the aged wizard, and ere he released his murderous hold his victim was no more. Meanwhile joyful servants were proclaiming the finding of young Godfrey in a distant and unused chamber of the great edifice, telling too late that poor Michel had been killed in vain. As the Comte and his associates turned away from the lowly abode of the alchemists, the form of Charles Le Sorcier appeared through the trees. The excited chatter of the menials standing about told him what had occurred, yet he seemed at first unmoved at his father’s fate. Then, slowly advancing to meet the Comte, he pronounced in dull yet terrible accents the curse that ever afterward haunted the house of C——.

“May ne’er a noble of thy murd’rous line
Survive to reach a greater age than thine!”

spake he, when, suddenly leaping backwards into the black wood, he drew from his tunic a phial of colourless liquid which he threw into the face of his father’s slayer as he disappeared behind the inky curtain of the night. The Comte died without utterance, and was buried the next day, but little more than two and thirty years from the hour of his birth. No trace of the assassin could be found, though relentless bands of peasants scoured the neighbouring woods and the meadow-land around the hill.
Thus time and the want of a reminder dulled the memory of the curse in the minds of the late Comte’s family, so that when Godfrey, innocent cause of the whole tragedy and now bearing the title, was killed by an arrow whilst hunting, at the age of thirty-two, there were no thoughts save those of grief at his demise. But when, years afterward, the next young Comte, Robert by name, was found dead in a nearby field from no apparent cause, the peasants told in whispers that their seigneur had but lately passed his thirty-second birthday when surprised by early death. Louis, son to Robert, was found drowned in the moat at the same fateful age, and thus down through the centuries ran the ominous chronicle; Henris, Roberts, Antoines, and Armands snatched from happy and virtuous lives when little below the age of their unfortunate ancestor at his murder.
That I had left at most but eleven years of further existence was made certain to me by the words which I read. My life, previously held at small value, now became dearer to me each day, as I delved deeper and deeper into the mysteries of the hidden world of black magic. Isolated as I was, modern science had produced no impression upon me, and I laboured as in the Middle Ages, as wrapt as had been old Michel and young Charles themselves in the acquisition of daemonological and alchemical learning. Yet read as I might, in no manner could I account for the strange curse upon my line. In unusually rational moments, I would even go so far as to seek a natural explanation, attributing the early deaths of my ancestors to the sinister Charles Le Sorcier and his heirs; yet having found upon careful inquiry that there were no known descendants of the alchemist, I would fall back to occult studies, and once more endeavour to find a spell that would release my house from its terrible burden. Upon one thing I was absolutely resolved. I should never wed, for since no other branches of my family were in existence, I might thus end the curse with myself.
As I drew near the age of thirty, old Pierre was called to the land beyond. Alone I buried him beneath the stones of the courtyard about which he had loved to wander in life. Thus was I left to ponder on myself as the only human creature within the great fortress, and in my utter solitude my mind began to cease its vain protest against the impending doom, to become almost reconciled to the fate which so many of my ancestors had met. Much of my time was now occupied in the exploration of the ruined and abandoned halls and towers of the old chateau, which in youth fear had caused me to shun, and some of which, old Pierre had once told me, had not been trodden by human foot for over four centuries. Strange and awesome were many of the objects I encountered. Furniture, covered by the dust of ages and crumbling with the rot of long dampness, met my eyes. Cobwebs in a profusion never before seen by me were spun everywhere, and huge bats flapped their bony and uncanny wings on all sides of the otherwise untenanted gloom.
Of my exact age, even down to days and hours, I kept a most careful record, for each movement of the pendulum of the massive clock in the library told off so much more of my doomed existence. At length I approached that time which I had so long viewed with apprehension. Since most of my ancestors had been seized some little while before they reached the exact age of Comte Henri at his end, I was every moment on the watch for the coming of the unknown death. In what strange form the curse should overtake me, I knew not; but I was resolved, at least, that it should not find me a cowardly or a passive victim. With new vigour I applied myself to my examination of the old chateau and its contents.
It was upon one of the longest of all my excursions of discovery in the deserted portion of the castle, less than a week before that fatal hour which I felt must mark the utmost limit of my stay on earth, beyond which I could have not even the slightest hope of continuing to draw breath, that I came upon the culminating event of my whole life. I had spent the better part of the morning in climbing up and down half-ruined staircases in one of the most dilapidated of the ancient turrets. As the afternoon progressed, I sought the lower levels, descending into what appeared to be either a mediaeval place of confinement, or a more recently excavated storehouse for gunpowder. As I slowly traversed the nitre-encrusted passageway at the foot of the last staircase, the paving became very damp, and soon I saw by the light of my flickering torch that a blank, water-stained wall impeded my journey. Turning to retrace my steps, my eye fell upon a small trap-door with a ring, which lay directly beneath my feet. Pausing, I succeeded with difficulty in raising it, whereupon there was revealed a black aperture, exhaling noxious fumes which caused my torch to sputter, and disclosing in the unsteady glare the top of a flight of stone steps. As soon as the torch, which I lowered into the repellent depths, burned freely and steadily, I commenced my descent. The steps were many, and led to a narrow stone-flagged passage which I knew must be far underground. The passage proved of great length, and terminated in a massive oaken door, dripping with the moisture of the place, and stoutly resisting all my attempts to open it. Ceasing after a time my efforts in this direction, I had proceeded back some distance toward the steps, when there suddenly fell to my experience one of the most profound and maddening shocks capable of reception by the human mind. Without warning, I heard the heavy door behind me creak slowly open upon its rusted hinges. My immediate sensations are incapable of analysis. To be confronted in a place as thoroughly deserted as I had deemed the old castle with evidence of the presence of man or spirit, produced in my brain a horror of the most acute description. When at last I turned and faced the seat of the sound, my eyes must have started from their orbits at the sight that they beheld. There in the ancient Gothic doorway stood a human figure. It was that of a man clad in a skull-cap and long mediaeval tunic of dark colour. His long hair and flowing beard were of a terrible and intense black hue, and of incredible profusion. His forehead, high beyond the usual dimensions; his cheeks, deep-sunken and heavily lined with wrinkles; and his hands, long, claw-like, and gnarled, were of such a deathly, marble-like whiteness as I have never elsewhere seen in man. His figure, lean to the proportions of a skeleton, was strangely bent and almost lost within the voluminous folds of his peculiar garment. But strangest of all were his eyes; twin caves of abysmal blackness, profound in expression of understanding, yet inhuman in degree of wickedness. These were now fixed upon me, piercing my soul with their hatred, and rooting me to the spot whereon I stood. At last the figure spoke in a rumbling voice that chilled me through with its dull hollowness and latent malevolence. The language in which the discourse was clothed was that debased form of Latin in use amongst the more learned men of the Middle Ages, and made familiar to me by my prolonged researches into the works of the old alchemists and daemonologists. The apparition spoke of the curse which had hovered over my house, told me of my coming end, dwelt on the wrong perpetrated by my ancestor against old Michel Mauvais, and gloated over the revenge of Charles Le Sorcier. He told how the young Charles had escaped into the night, returning in after years to kill Godfrey the heir with an arrow just as he approached the age which had been his father’s at his assassination; how he had secretly returned to the estate and established himself, unknown, in the even then deserted subterranean chamber whose doorway now framed the hideous narrator; how he had seized Robert, son of Godfrey, in a field, forced poison down his throat, and left him to die at the age of thirty-two, thus maintaining the foul provisions of his vengeful curse. At this point I was left to imagine the solution of the greatest mystery of all, how the curse had been fulfilled since that time when Charles Le Sorcier must in the course of Nature have died, for the man digressed into an account of the deep alchemical studies of the two wizards, father and son, speaking most particularly of the researches of Charles Le Sorcier concerning the elixir which should grant to him who partook of it eternal life and youth.
His enthusiasm had seemed for the moment to remove from his terrible eyes the hatred that had at first so haunted them, but suddenly the fiendish glare returned, and with a shocking sound like the hissing of a serpent, the stranger raised a glass phial with the evident intent of ending my life as had Charles Le Sorcier, six hundred years before, ended that of my ancestor. Prompted by some preserving instinct of self-defence, I broke through the spell that had hitherto held me immovable, and flung my now dying torch at the creature who menaced my existence. I heard the phial break harmlessly against the stones of the passage as the tunic of the strange man caught fire and lit the horrid scene with a ghastly radiance. The shriek of fright and impotent malice emitted by the would-be assassin proved too much for my already shaken nerves, and I fell prone upon the slimy floor in a total faint.
When at last my senses returned, all was frightfully dark, and my mind remembering what had occurred, shrank from the idea of beholding more; yet curiosity overmastered all. Who, I asked myself, was this man of evil, and how came he within the castle walls? Why should he seek to avenge the death of poor Michel Mauvais, and how had the curse been carried on through all the long centuries since the time of Charles Le Sorcier? The dread of years was lifted from my shoulders, for I knew that he whom I had felled was the source of all my danger from the curse; and now that I was free, I burned with the desire to learn more of the sinister thing which had haunted my line for centuries, and made of my own youth one long-continued nightmare. Determined upon further exploration, I felt in my pockets for flint and steel, and lit the unused torch which I had with me. First of all, the new light revealed the distorted and blackened form of the mysterious stranger. The hideous eyes were now closed. Disliking the sight, I turned away and entered the chamber beyond the Gothic door. Here I found what seemed much like an alchemist’s laboratory. In one corner was an immense pile of a shining yellow metal that sparkled gorgeously in the light of the torch. It may have been gold, but I did not pause to examine it, for I was strangely affected by that which I had undergone. At the farther end of the apartment was an opening leading out into one of the many wild ravines of the dark hillside forest. Filled with wonder, yet now realising how the man had obtained access to the chateau, I proceeded to return. I had intended to pass by the remains of the stranger with averted face, but as I approached the body, I seemed to hear emanating from it a faint sound, as though life were not yet wholly extinct. Aghast, I turned to examine the charred and shrivelled figure on the floor. Then all at once the horrible eyes, blacker even than the seared face in which they were set, opened wide with an expression which I was unable to interpret. The cracked lips tried to frame words which I could not well understand. Once I caught the name of Charles Le Sorcier, and again I fancied that the words “years” and “curse” issued from the twisted mouth. Still I was at a loss to gather the purport of his disconnected speech. At my evident ignorance of his meaning, the pitchy eyes once more flashed malevolently at me, until, helpless as I saw my opponent to be, I trembled as I watched him.
Suddenly the wretch, animated with his last burst of strength, raised his hideous head from the damp and sunken pavement. Then, as I remained, paralysed with fear, he found his voice and in his dying breath screamed forth those words which have ever afterward haunted my days and my nights. “Fool,” he shrieked, “can you not guess my secret? Have you no brain whereby you may recognise the will which has through six long centuries fulfilled the dreadful curse upon your house? Have I not told you of the great elixir of eternal life? Know you not how the secret of Alchemy was solved? I tell you, it is I! I! I! that have lived for six hundred years to maintain my revenge, FOR I AM CHARLES LE SORCIER!”