Normalmente le notizie dal Medio Oriente riportano gli attacchi israeliani in territorio palestinese. Questa volta, sorprendentemente per alcuni, sta accadendo il contrario. Questa volta Gaza non si difende, ma attacca. Sono passati 50 anni dalla guerra dello Yom Kippur e i commando delle Brigate Al Aqsa di Hamas entrano via terra e via aria, con missili e con pick-up. È un’operazione improvvisa e inaspettata, così improvvisa che la vigilanza ebraica viene sopraffatta; i commando palestinesi penetrano in profondità e prendono il controllo di alcune città israeliane. In termini di ampiezza, profondità ed efficacia, è probabilmente la più grande operazione militare palestinese in territorio israeliano.
La reazione di Tel Aviv è furiosa: i jet da combattimento decollano per l’attacco al suolo e bombardano indiscriminatamente. Non è una novità, purtroppo: è consuetudine scatenare offensive militari contro Gaza, lasciando sul terreno migliaia di palestinesi morti ogni volta.
Il primo ministro israeliano non si fermerà qui; al contrario, coglierà l’occasione per soffocare ulteriormente Gaza.
Vede Hamas e la Palestina come dei perdenti su un terreno virtuale. Offuscato dall’accordo con l’Arabia Saudita, rassicurato dalla condiscendenza della Casa Bianca e dell’Unione Europea, sicuro dell’incapacità di reazione dei palestinesi, il governo di ultradestra di Tel Aviv crede di aver chiuso per sempre la questione palestinese e insiste sull’occupazione militare e sulla politica degli insediamenti ebraici.
Purtroppo non c’è distinzione, come in ogni guerra, tra civili e militari, tra uffici governativi e case private, e la presa di ostaggi lo testimonia. Non ha senso contare le lamentele e le morti reciproche, perché la storia parla chiaro ma la politica sa solo contare tra vincitori e vinti. Tuttavia, in questa logica tanto orribile quanto banale, c’è un fatto nuovo, ovvero la fine della narrazione fantastica che vedeva Israele come impenetrabile, Tsahal come imbattibile, lo Shin Beth come implacabile. Dopo le dure umiliazioni militari subite da Hezbollah in Libano, anche Hamas sta finalmente facendo crollare il mito di questa millantata Sparta del terzo millennio. Lo fa nell’anniversario della guerra persa dagli arabi e alla vigilia di un possibile accordo tra Riyad e Tel Aviv.
Ci si chiede cosa voglia ottenere Hamas, perché stia lanciando un’operazione militare che sarà accolta da una risposta estremamente dura, visto che Netanyahu non aspetta altro che porre fine a Gaza una volta per tutte e, con la scusa della guerra, distrarre gli israeliani dalle nefandezze del proprio governo. Vale la pena chiedersi, come prevede il metodo, quale obiettivo politico intenda raggiungere Hamas. L’asimmetria militare è fuori discussione e il tributo che i palestinesi pagheranno sarà altissimo. E dunque perché iniziare una guerra che non potrà esser vinta data l’eccessiva disparità delle forze in campo?
Sono domande che in qualsiasi altro contesto internazionale sarebbero legittime, persino inevitabili. Ma a Gaza, dopo 75 anni di guerra, non sembrano avere più molto senso. Ci si trova infatti di fronte alla disperazione per una situazione intollerabile che, come nelle sabbie mobili, sprofonda ogni giorno di più.
Il ragionamento politico direbbe che gli obiettivi sono politici e tutti si chiedono, di fronte a questo attacco, quale possa essere la leva dei palestinesi, cioè quale e quanto sostegno possa avere la loro causa. Si fa riferimento al prossimo accordo di pace tra Arabia Saudita e Israele in cui Gaza non ha diritto di parola e nemmeno di esistere, come se la lettura arabo-sunnita della questione palestinese avesse abdicato alle ragioni del buon vicinato con lo Stato ebraico. Si ipotizza quindi che l’offensiva militare palestinese possa essere la dimostrazione che Gaza e i palestinesi non sono controllabili da intese politiche generate sopra le loro teste.
Se questo era l’obiettivo di Hamas, si può dire che sia stato raggiunto, perché la posizione dell’Arabia Saudita nei confronti di Israele è molto dura: «Riteniamo Israele responsabile delle sue ripetute provocazioni e della privazione di diritti inflitta ai palestinesi». Questo congela – almeno per una fase – ogni possibile accordo tra lo Stato sionista e la monarchia saudita.
Nell’attacco palestinese, al di là di ogni considerazione politica, c’è una chiara e forte responsabilità politica da parte dell’Occidente collettivo, che deve alla Palestina 75 anni di risposte. C’è infatti una questione profonda e irrisolta nella comunità internazionale e riguarda la libertà di manovra dello Stato di Israele. Che è l’unico Stato al mondo senza confini definiti, perché vengono ridisegnati ogni anno dalla colonizzazione forzata dei coloni ebrei. Che ha trasformato la Striscia di Gaza in un’enorme prigione a cielo aperto, dove detiene bambini, effettua operazioni di polizia radendo al suolo edifici con bombardamenti aerei e cannoni di carri armati.
È uno Stato, quello israeliano, esente dall’obbligo di rispettare le norme e i trattati che costituiscono gli strumenti giuridici della comunità delle nazioni. E non c’è solo la Palestina nella condotta illegale di Israele: invade il Libano e bombarda la Siria, alla quale ha rubato le alture del Golan. Insieme al suo principale partner, gli Stati Uniti, viola in fatto e in Diritto tutte le decisioni dell’ONU, impedisce l’accordo sul principio dei due popoli e dei due Stati perché non riconosce la Palestina, tanto meno la sovranità sul suo territorio, e ritiene che la soluzione al problema palestinese sia la sua graduale estinzione.
In assenza dell’applicazione del diritto internazionale, per i palestinesi ci sono solo tre opzioni: una città-prigione a cielo aperto come Gaza, un campo profughi o la diaspora. Prevale così la desolazione di chi vede che ogni strumento diplomatico è sempre inutile, di chi accetta molti compromessi ma non ottiene mai un solo metro di terra o un centesimo in più di diritti, di chi vede allontanarsi sempre più il sogno di uno Stato che dia valore alla nazione palestinese.
Di fronte a un destino senza speranza, decide allora di prendere le armi, non importa quale sia il prezzo da pagare, perché nel quadro generale che mette il giusto sotto il tallone della forza e consegna il diritto all’intimidazione, è stanco di giocare sempre e solo il ruolo di bersaglio predeterminato. L’idea di un riequilibrio militare, per quanto limitato, sembra prendere piede tra i palestinesi; di voler segnalare a Israele che è finito il tempo dei carri armati contro bambini armati di fionde.
Sullo sfondo di una crisi iniziata non ieri, ma 75 anni fa, e in cui sono morte centinaia di migliaia di palestinesi, emerge la manifesta inutilità degli organismi internazionali chiamati a garantire il rispetto della legge. Primo fra tutti il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in questa fase un simulacro della comunità internazionale che dovrebbe garantire. Nella sua pomposa retorica, tesa a colmare il vuoto della mancanza di iniziativa, l’ONU non solo ricorda la crisi del suo ruolo, ma anche la transizione avvenuta più di 20 anni fa tra un mondo governato dall’equilibrio di potenza e dalla deterrenza reciproca. Un mondo governato dal 1991 da un comando unipolare, dotato di un’unica mentalità e di una lettura del diritto internazionale superata, scardinata dalla potenza militare ed economica di un impero globale.
La nuova guerra israelo-palestinese non cambierà di molto gli schieramenti internazionali e ancor meno la vita miserabile di chi, come i palestinesi, è costretto a un regime umiliante e vessatorio, alla sopravvivenza in un territorio ormai destinato a reclusorio. La questione palestinese è lì, in attesa di essere affrontata e risolta. Le decine di risoluzioni ONU, così come i piani di pace, hanno sempre visto la disponibilità palestinese e l’indisponibilità israeliana. Il sogno di ogni palestinese di poter indossare ed esibire un passaporto con su scritto Stato di Palestina, è punto d’onore e di diritto, come ovviamente la sovranità sul suo territorio. La pace non è, né può essere la posta in gioco se si è sotto occupazione militare, se si viene uccisi, bombardati, arrestati, se si hanno le case distrutte e si nega l’accesso all’acqua.
Serve un cambio di passo, è obbligatorio riportare sotto l’egida di un organismo internazionale un piano di pace equilibrato e ragionevole, che metta fine alla violenza e porti sotto le ali protettive della comunità internazionale diritti e doveri di ciascun protagonista. La pace non è premessa ma conseguenza di un accordo che possa e debba essere difeso dall’intera comunità internazionale e che veda la nascita dello Stato palestinese, che veda il reciproco riconoscimento, necessario per lo stabilimento di rapporti di vicinato e che possa contare su una forza di interposizione militare ONU a garanzia del rispetto dell’accordo. Da qui, dal riconoscimento reciproco e dal diritto condiviso, può nascere la pace. Senza, tutt’al più si può aspirare a una tregua, breve quanto inutile.