Le sirene che mi hanno svegliato ieri mattina erano accompagnate dalle concitate notizie che alla radio parlavano di forze armate entrate in Israele. Cercare di decifrare ciò che la radio diceva, era parte della cosa più importante: sapere cosa stava succedendo a familiari e amici. Molto presto la mattina, le mie nipoti sembravano liete di trovarsi in una stanza protetta che rende la vita un po’ più sicura in caso di attacco, mentre al sud un’amica mi diceva di sentirsi terrorizzata.
Si trovava nella sua stanza blindata, con la porta ben chiusa, ma senza sapere se le voci che si sentivano provenire dael resto della casa fossero di soldati israeliani o di palestinesi. A Sderot, una città a tre chilometri dal college nel quale ho insegnato negli ultimi 25 anni, i palestinesi sono entrati nella stazione di polizia e hanno ucciso tutti i presenti, poliziotti o civili, vittime che si sono aggiunte ad altri che sono stati uccisi o presi in ostaggio. Più tardi mi è stato comunicato che l’intera famiglia di uno dei nostri studenti è stata massacrata. Una delle nostre insegnanti si sta riprendendo a fatica dal trauma dell’attacco al suo kibbutz vicino alla Striscia di Gaza.
Al momento in cui scriviamo in questo sabato sera si parla di 150 morti, civili o membri delle forze armate, e di circa 1000 feriti. Decine di israeliani, soldati e civili, fatti prigionieri e portati nella Striscia di Gaza. È probabile che queste cifre tragiche aumentino nelle prossime ore.
Mentre le sirene di allarme ci avvertivano di oltre 2200 missili lanciati soprattutto verso la parte meridionale del paese, radio e televisione trasmettevano il timore che attacchi missilistici diffusissimi e distruttivi avrebbero presto colpito l’intero paese. L’ombra degli Hezbollah libanesi e forse dell’Iran si profilava più grande che mai.
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Di fronte all’enorme numero di vittime fra soldati e civili, oltre agli ostaggi a Gaza, lo stupore: come è possibile essere stati presi così alla sprovvista? I migliori servizi segreti del mondo, il miglior esercito… Miliardi investiti in ogni genere di protezioni che dovevano impedire le incursioni sotterranee del passato recente. Tanti progressi tecnologici, telecamere sofisticate a disposizione di abili soldati e soldatesse, in grado di individuare ogni possibile attacco del nemico.
Nelle ultime settimane le discussioni su un possibile attacco di Hamas sono state dominate da due questioni chiave: Hamas esprimeva un interesse crescente per il miglioramento della situazione economica nella Striscia di Gaza, mentre cercava di assicurarsi un posto nella difficile questione di un accordo tra Arabia Saudita e Israele favorito dagli Stati uniti. Per la leadership israeliana questa sarebbe la «pace» ideale: insieme all’Arabia saudita e ad alcune concessioni poco rilevanti ai palestinesi, non solo poter ottenere una presunta pace regionale, ma anche garantire la sopravvivenza del vergognoso governo di Netanyahu e dei suoi alleati di estrema destra.
E i palestinesi? Beh, per loro un po’ più di soldi da parte dei sauditi e del Qatar. E chi parteciperebbe ai negoziati? Abu Mazen, l’Olp, Hamas? Hamas nei negoziati? E l’influenza dell’Iran?
La «sorpresa» della guerra del 1973 è ancora oggi oggetto di discussione. I commentatori più esperti ci promettono che l’enorme sorpresa di oggi dovrà essere attentamente studiata. Sì, ma rimane la questione essenziale: il paradigma dominante. I migliori servizi segreti, il migliore esercito, quando ancora oggi si celebra una concezione basata sull’occupazione dei palestinesi, sul terrore di Stato, e noi che «siamo i più morali», e gli altri che esercitano un «terrore disumano».
Un popolo che sottomette un altro popolo non può essere libero e la barbarie della leadership israeliana non ci porterà mai a un miglioramento della situazione. Nei prossimi giorni le forze armate israeliane cercheranno di «cancellare l’affronto», mentre gli ostaggi israeliani saranno, forse, l’unico freno possibile alla furia di domani.