Che la lingua definisca la nostra esperienza e dia forma alla realtà che ci circonda è un assunto abbastanza ovvio. Che ci siano parole che esprimono concetti o sensazioni che non trovano traduzione in un’altra lingua è cosa altrettanto chiara. Posso pensare di descrivere minuziosamente la saudade, l’unheimlichkeit o l’ostranenie ma nessuna descrizione catturerà mai l’essenza di queste parole che esistono appunto come significanti, involucri.
Non si tratta qui solo di intraducibilità, ma del fatto che certi termini nascono in una determinata condizione storica, emotiva o culturale, e poi si trasferiscono in un’altra lingua, a volte riadattandosi (calchi) a volte invadendo la lingua (prestiti). Non si tratta di mera intraducibilità, perchè altrimenti non si spiegherebbe come mai per un russo esistano venti parole per definire la neve e per un saudita altrettante per definire le sabbie del deserto. Si tratta piuttosto di esperienza: per ciò che non ho esperito non esiste parola.
Certo quando ci troviamo a definire condizioni meteorologiche o certi stati dell’animo la cosa può essere in qualche modo accettabile, una sorta di meraviglia di fronte alla vastità dell’esperienza del mondo possibile, purtroppo la questione però è molto più complessa e profondamente politica. Le parole non sono innocenti e tanto meno lo è la loro potenziale (in)esistenza ed uso.
Gli esempi abbondano.
Prendiamo la parola queer. L’esperienza puramente “linguistica” della parola per un anglofono è diversa da quella di un italofono. Innanzi tutto si tratta di una parola che pur avendo mutato uso e significato, pur avendo subito un cambiamento semantico, ha un’origine etimologica interna alla lingua inglese (anzi alle lingue germaniche). In altre parole, queer per un inglese non è necessariamente essenzialmente una parola legata all’identità di genere, quanto un aggettivo che potrebbe identificare anche qualcosa di strano o bizzarro. Che poi le pratiche sociali abbiano fatto prevalere il significato legato all’identità di genere e alla sessualità non toglie che si tratti di una parola che ha fatto la sua apparizione nella lingua all’inizio del XVI secolo.
In italiano queer è entrato come termine alieno negli ultimi decenni, un prestito per dare forma a un’identità che non trova altrimenti espressione nella lingua italiana (e qui sarebbe da notare che anche in inglese al momento c’è un po’ di confusione, dato che la parola si riferisce sia all’identità di genere che alla sessualità). Questo ha fatto sì che la percezione del termine sia spesso legata a un momento di esitazione e confusione che hanno sicuramente prodotto conseguenze importanti sulla percezione delle persone queer nella società italiana. L’”anomalia” linguistica riflette un disorientamento di fronte al concetto di queerness che può talvolta assumere dimensioni mostruose quando arriva ai banchi parlamentari.
Come queer anche le identità non-binarie non trovano facile inclusione nella lingua italiana, dove spesso si cercano soluzioni più o meno intrusive che a volte purtroppo portano a una dolorosa derisione o a infuocati dibattiti il cui risultato è un ancora maggior esclusione di queste persone. Ma qui siamo nel reame della sintassi e non più del vocabolario.
Un esempio diverso, ma ugualmente illuminante, è l’uso di migrant ed expat nella lingua inglese. I due termini identificano ugualmente una persona che ha lasciato un paese per entrare, in questo caso, nel Regno Unito, la differenza sta nella variabili economiche e sociali associate al paese di origine: Italia, Francia, Stati Uniti, Australia, expats.
Albania, Mozambico, Sri Lanka, migrant. Classe operaia: migrant, media-borghesia: expat. Perché è necessaria una distinzione simile per definire lo stesso soggetto? Soggetto che in molti casi ha, o è privato degli stessi diritti nel paese d’arrivo. Qual è l’impatto che l’uso di una o l’altra parola ha sulla percezione dei soggetti migranti? Ovviamente la demonizzazione di uno e la reverenza dell’altro e il protrarsi della colonizzazione dell’immaginario. E ci vuole poco a vedere i risultati di questo immaginario sul referendum del 2016.
La relazione tra lingua e identità non si limita però solamente al vocabolario (come anticipavo sopra). Come ricostruisce il breve e interessante Lingua ed essere di Kübra Gümüsay appena uscito per Fandango Editore, le vie attraverso cui l’uso della lingua determina e dà forma alla nostra identità e al nostro relazionarsi sono infinite e spesso molto subdole.
Partendo dalla sua esperienza personale di donna turca musulmana immigrata in Germania e portando ad esempio varie situazioni private o pubbliche in cui si è confrontata con l’Altro attraverso il linguaggio, Gümüsay dimostra come il modo di porre certe domande, la ripetizione costante di certi topoi associati ad alcune situazioni o identità portano ad una interiorizzazione di certi stereotipi e visioni e contribuiscono al loro rafforzamento e diffusione.
Se una donna musulmana viene costantemente interrogata da soggetti non-musulmani riguardo alla sua religione è possibile che si generi un’identificazione totale con la religione per cui la donna non è più considerata come soggetto “intersezionale” e “plurale”, ma solamente come musulmana. La sua alterità diventa totale identità, spingendo fuori dalla forma che la costituisce tutte le altre variabili che costituiscono la sua identità. Esemplare l’aneddoto per cui all’uscita da una conferenza, di fronte a un Berlinese che le chiede da dove venisse, Gümüsay si sente in dovere di spiegare la sua provenienza turca, quando il giovane invece voleva sapere se venisse dalla conferenza o meno.
Ma l’analisi di Gümüsay non si ferma a questo, si muove in più territori, va dall’analisi del discorso politico dei movimenti di destra a quella dell’hate speech che filtra dai media tedeschi per finire a mostrare come la scelta di cosa includere nel discorso e cosa omottere sia a sua volta veicolo di discriminazione. Sebbene a tratti didascalica nelle sue riflessioni, il punto importante di Gümüsay è quello di mostrare come il linguaggio sia uno strumento di influenza reciproco e che non si possa unicamente puntare il dito contro un soggetto dominante, ma che decolonizzare il pensiero (e dunque il linguaggio che lo esprime) sia un processo condiviso. Non una rivolta del dominato, bensì un comune sforzo di decostruire l’uso della e delle lingue.
Anche i nominati stessi conservano le proprie gabbie. Mentre si oppongono alle rappresentazioni che i nominanti danno di loro, disegnano loro stessi proprie rappresentazioni collettive meno demonizzanti, più positive – ma anche in queste rappresentazioni non compaiono nella loro individualità e umanità. Al collettivo viene dato un nome diverso, ma non si libera dalla denominazione in quanto tale.
E’ importante comprendere come certi vuoti linguistici siano più rumorosi ed escludenti delle parole, come il privilegio sia inscritto nella scelta di un termine piuttosto che di un altro, come le lingue in cui ci esprimiamo portino con sé la complessità e pluralità delle nostre identità, e come esse possano portare con sé una violenza epistemologica.
Emblematica a tal proposito è la bagarre scoppiata in seguito al caso della traduzione della poesia di Amanda Gorman da parte dell’olandese Marieke Lucas Rijneveld (di cui curiosamente Gümüsay sarà proprio una delle traduttrici tedesche).
Senza entrare nel merito di una questione spinosa e totalmente spuria, importante è infatti sottolineare come ha fatto Paul B. Preciado che “contro il parere di chi pensa che queste polemiche alimentino una sterile tensione identitaria (benché in effetti lo facciano) e malgrado la violenza che si abbatte ingiustamente sul/sulla traduttore/traduttrice (è assurdo uccidere il messaggero, soprattutto se è un autore di genere non binario la cui opera è in sé un atto di resistenza politica)” c’è un “carattere potenzialmente produttivo e non distruttivo in questi dibattiti. A condizione, però, di uscire dalla dialettica tra essenzialismo e universalismo e di considerare la questione come un’opportunità di de-patriarcalizzare e decolonizzare le industrie culturali.”
Il problema non è tanto l’identità di chi traduce (sarebbe ridicolo), ma il fatto che la traduzione è un processo di scelta continuo, più precisamente uno di esclusione. Come scrive Tiphaine Samoyault in Traduction et violence, la traduzione è un processo “agonista” (riprendendo la definizione di Chantal Mouffe che definisce agonismo la trasformazione di “una lotta tra nemici” in “confornto tra avversari”) costituito su una negatività di fondo impossibile da sradicare: “ogni ordine si instaura attraverso l’esclusione delle altre possibilità”.
C’è poi la questione di chi può usare le parole: per riprendere un esempio dalla comunità LGBTQ+, frocio è un termine sdoganato, addirittura talvolta ostentato con giocoso affetto, eppure se la stessa parola uscisse in un contesto professionale, da parte di una persona non appartenente alla comunità, difficilmente sarebbe accolto con lo stesso affetto. Codifica e decodifica di un messaggio linguistico dipendono largamente da variabili esterne al linguaggio stesso ed è per questo che benché sia la lingua a dare forma al nostro modo di relazionarci e di situarci nel mondo, è importante prima di tutto comprendere queste variabili.
Variabili che sono in larga parte storiche, culturali, etniche, religiose. Bisogna conoscere l’altro per comprendere il suo messaggio, bisogna smantellare le infrastrutture patriarcali e coloniali dominanti che reiterano la discriminazione e che sono iscritte profondamente nella lingua. Riprendendo ancora Samoyault, “ogni incontro con l’altro è un incontro con la lingua”.
A costo di risultare banale, penso che l’unico modo di decolonizzare la lingua e l’immaginario sia un’educazione capace di stimolare lo spirito critico, che insegni a decostruire i messaggi e a sospettarli, guardando oltre i contorni delle parole che vi sono incluse. Un’educazione che si basi largamente sull’ascolto degli altri e l’esercizio dell’empatia, un’educazione insomma che sia non solo basata su calcoli di profitto, ma che riporti al centro l’umano.
* Giorgia Tolfo (PhD in Letterature Moderne, Comparate e Postcoloniali, Università di Bologna) vive a Londra. Ha lavorato per Bloomsbury Publishing e collaborato con varie case editrici indipendenti italiane e inglesi. Lavora per British Library e Alan Turing Institute a Living with Machines, un progetto in digital humanities tra ricerca storica e intelligenza artificiale. Ha co-fondato e co-dirige il Festival di Letteratura Italiana di Londra (FILL) e collabora a progetti internazionali di promozione culturale.