Nel 1988 usciva Eurocentrismo di Samir Amin (1931-2018), che, sfidando la rappresentazione dominante della storia e della cultura occidentali (introiettata anche da una parte del marxismo), contribuiva a innovare radicalmente le categorie interpretative del capitalismo.
In un’epoca contrassegnata (in Occidente come altrove) dalla politica identitaria, la traduzione italiana della seconda edizione dell’opera, uscita in francese nel 2008 con una Prefazione e un Capitolo conclusivo che aggiornano la versione originale, invita a riflettere sulla genealogia dei fenomeni odierni, il cui punto d’arrivo Amin così sintetizza: “l’ideologia borghese, che in origine avanzava ambizioni universalistiche, vi ha rinunciato per sostituirvi il discorso postmodernista delle ‘specificità culturali’ irriducibili (e, in forma volgare, lo scontro inevitabile delle culture)” (p. 32).
Nella sua Introduzione, Riolo ripercorre la vita di Amin dalla nascita in Egitto agli studi in Francia, suo paese di adozione. Il giovane ricercatore, che a Parigi si iscrive al PCF, si trova a lavorare alla sua tesi di dottorato in una fase in cui la Conferenza di Bandung (1955) e successivamente la Conferenza di Belgrado (1961) pongono all’ordine del giorno il processo di decolonizzazione e insieme l’emergere del movimento dei paesi non-allineati.
Diventa così urgente un confronto sulle cause dell “arretratezza” (nella terminologia occidentale) del Sud del mondo. Amin figura, insieme con Giovanni Arrighi, Andre Gunter Frank e Immanuel Wallerstein, tra i fondatori della scuola che guarda al capitalismo come sistema globale, il cui centro (l’Occidente) prospera impedendo lo sviluppo dei paesi periferici, per poter estrarre valore dalla loro forza-lavoro e depredarne le risorse naturali.
Tuttavia, rispetto agli altri capostipiti di questo filone di studi Amin è quello che più si mantiene ancorato agli strumenti concettuali coniati da Marx (in particolare, quelli di modo di produzione e formazione sociale), pur ricollocandoli in una dimensione globale.
In opere come L’accumulazione su scala mondiale. Critica del sottosviluppo (1970) e Lo sviluppo ineguale (1973), l’economista franco-egiziano sviluppa la tesi che il divario tra l’Occidente e i paesi periferici non sia affatto imputabile a un ritardo di questi ultimi, bensì costituisca la condizione necessaria dell’esistenza stessa dell’ordine fondato sul mercato. Proporre di colmare lo squilibrio con l’adozione, nel Sud del mondo, di politiche modellate sul percorso dei paesi occidentali è dunque mistificatorio.
Nel Capitolo I di Eurocentrismo, dedicato a Modernità e interpretazioni religiose, Amin discute l’eredità dell’Illuminismo, che, a differenza delle culture precedenti, riconosce all’uomo la capacità di fare la propria storia; tale libertà tuttavia è viziata dalla subordinazione alle esigenze del capitalismo.
La “ragione emancipatrice” è infatti una ragione borghese, con precise determinazioni temporali e geografiche; essa identifica la libertà con il mercato e, sul piano politico, con la democrazia, un regime in cui lo Stato ha una funzione ancillare rispetto all’economia.
Nella deriva rappresentata dall “ideologia libertaria di destra” (Hayek) scompare ogni finzione: gli esseri umani rimangono artefici della propria storia, ma il teatro in cui si muovono è una giungla. È l’epoca dell’americanizzazione del mondo. Si impone una ragione degenerata e distruttiva, che non solo rinuncia a ogni parvenza di emancipazione, ma assume la funzione di “impresa di demolizione dell’umanità” (p. 43) e del pianeta tutto.
Il marxismo è lo strumento per comprendere il mondo e trasformarlo, a patto – sul punto l’autore insiste – di partire da Marx, anziché riproporne dogmaticamente le analisi. Da Marx nondimeno Amin riprende la centralità del binomio struttura-sovrastruttura, depurandolo dalle storture deterministiche e facendone la bussola dello studio non del mero modo di produzione, ma delle formazioni sociali nella loro totalità e mutua interazione, risultato del rapporto dinamico tra l’istanza economica, quella politica e quella culturale-religiosa.
Forte di una robusta conoscenza della storia delle religioni e della filosofia (e naturalmente dell’Africa), Amin indaga il ruolo che le diverse fedi e culture hanno svolto in relazione allo sviluppo del capitalismo.
Una sensibilità decisamente sui generis, nella storia del marxismo, che porta l’autore a smontare il mito del cristianesimo in generale o di una sua specifica declinazione (la Riforma protestante) come fucina della modernità capitalistica, in virtù di peculiarità – assenti in altre religioni – che avrebbero partorito il “miracolo europeo”. È vero semmai il contrario, osserva l’autore: le religioni, tutte, si sono conformate alle esigenze del modo di produzione capitalistico, ma lo hanno fatto in modo diverso.
Perché l’Europa ha rotto con il modo di produzione tributario e il mondo musulmano no? A questa domanda, gli occidentali rispondono puntando il dito contro le specificità della religione islamica; un tema agitato anche da quello che Amin chiama islam politico, espressione che raggruppa tanto i moderati quanto i fondamentalisti, accomunati da una forma di eurocentrismo rovesciato: “I due discorsi del capitalismo mondializzato e dell’islam politico non sono in conflitto, ma perfettamente complementari” (p. 95).
Manovrato da borghesie nazionali succubi delle classi dominanti europee e nordamericane, l’islam politico (inclusa la teocrazia iraniana) addebita il degrado del mondo musulmano all’Occidente, senza mettere mai in discussione la vera causa della sua subalternità: il capitalismo, che esige l’esistenza di un centro e di periferie subordinate.
L’élite occidentale ha quindi tutto l’interesse a fomentare il fondamentalismo islamico (come si è ben visto in Afghanistan): esso non solo garantisce che i popoli periferici rimangano subalterni al capitalismo mondiale, ma può sempre essere addotto come pretesto per legittimare interventi repressivi all’estero e in casa.
Quanto al cristianesimo, esso non ha creato la società borghese; piuttosto, si è rivelato più adattabile, in virtù di due assenze, rispetto alle altre due religioni: la rinuncia a costruire il regno di Dio sulla terra e la mancanza di una traduzione giuridica dei principi del Vangelo.
Nel Capitolo II, Per una teoria della cultura. Critica dell’eurocentrismo, Amin prende di mira le due declinazioni della storiografia eurocentrica, che, nel loro apparente antagonismo, condividono un approccio teleologico. La prima è quella liberale, che istituisce una continuità fra il mondo greco-romano (arbitrariamente identificato con l’Occidente e contrapposto all’Oriente), l’età feudale (cristiana) e l’avvento del capitalismo.
La seconda è la teoria degli stadi di matrice marxista, presente negli scritti giovanili di Marx ed Engels e poi canonizzata da partiti e teorici comunisti. Se la nozione di comunismo primitivo lascia il posto a quella di comunitarismo (una rete di piccole comunità cementate dalla parentela), l’operazione più dirompente di Amin è il ridimensionamento geografico e cronologico del feudalesimo, inserito nel più ampio modo di produzione tributario, i cui elementi caratterizzanti sono una struttura politica centralizzata che estrae surplus economico da un’area agraria e il ruolo ideologico legittimante delle grandi religioni.
In esso Amin ricomprende tanto il marxiano modo di produzione asiatico, che ne costituisce il nucleo centrale, quanto il feudalesimo europeo, che del modo di produzione tributario appare come un capitolo tutto sommato marginale rispetto ai regni africani e asiatici.
Coerentemente, l’autore sovverte la periodizzazione tradizionale: la cesura fra antichità e medioevo (collocata dalla storiografia eurocentrica alla fine dell’impero romano d’Occidente) viene retrodatata all’epoca dell’unificazione ellenistica dell’Oriente (300 a.C. circa).
Muovendo da un concetto di totalità a dominante, Amin propone una tipologia dualistica dei modi di produzione: mentre in quelli precapitalistici lo sfruttamento delle classi subalterne è diretto e l’istanza dominante è quella politico-ideologica, nel capitalismo lo sfruttamento è, per così dire, mascherato dal contratto fra datore di lavoro e proletario. In esso è l’istanza economica a governare direttamente le società, attraverso una mercificazione universale che ingloba perfino la forza-lavoro.
Dopo aver analizzato l’evoluzione di cultura e religione (strettamente intrecciate) nelle società tributarie delle diverse aree del mondo, nel Capitolo III, La cultura del capitalismo, Amin ripercorre l’unificazione forzata del globo a opera del capitalismo, cui corrisponde una Weltanschauung (la Ragione) solo formalmente universalistica: un mondo in cui nove miliardi di persone godano del tenore di vita degli occidentali è semplicemente inconcepibile; il sistema pretende anzi la polarizzazione fra centro e periferia e l’eliminazione dei paesi che resistono a una globalizzazione di facciata.
“L’ideologia dominante legittima così sia il capitalismo come sistema sociale sia la diseguaglianza su scala mondiale che lo accompagna. […] Il mito filocristiano, quello dell’antenato greco, la costruzione antitetica e artificiale dell’orientalismo connotano il nuovo culturalismo europeo ed eurocentrico, condannandolo irrimediabilmente ad accettarne l’anima dannata: il razzismo ineliminabile” (p. 165). Amin si spinge oltre: il nazismo, lungi dal rappresentare un’aberrazione della storia, è una possibilità sempre attuale.
Quale contributo possono offrire Marx ed Engels a un’analisi del capitalismo realmente esistente, ossia globale ma polarizzato? Amin ritiene che, nonostante alcuni spunti fecondi, Marx non si sia affrancato dall’ottimismo evoluzionistico di matrice illuministica della sua epoca, confidando nella tendenza all’omogeneizzazione (cioè europeizzazione) del mondo, con i paesi “arretrati” che recuperano il loro ritardo, lungo una traiettoria lineare.
Sarà questa l’interpretazione prevalente nella II Internazionale. Per andare oltre Marx, Amin propone di convertire la sua legge del valore (modellata sul punto più alto del sistema capitalista, quello occidentale) nella “legge del valore mondializzata”, per dare conto di una doppia polarizzazione: quella fra centro e periferie e quella all’interno delle periferie.
Mentre nei paesi centrali il consenso alla democrazia borghese è “comprato” con un aumento costante dei salari (oggi però non è più così), nelle periferie solo le borghesie vassalle del centro vedono aumentare il proprio tenore di vita, ricorrendo a regimi autocratici per soffocare il malcontento della popolazione.
Dalle sabbie mobili del capitalismo si può uscire solo con lo “sganciamento” dei popoli delle periferie mondiali dal centro del sistema. Le rivoluzioni nazionali delle periferie, con la formazione di Stati realmente autonomi, sono il primo passo di una transizione dal capitalismo globale a un socialismo inevitabilmente altrettanto mondiale (è evidente qui la presa di distanza dallo stalinismo). La transizione sarà lunga e imprevedibile, ma l’alternativa è la “barbarie capitalistica eurocentrica” (p. 215).
Amin non è stato solo un teorico; ha partecipato attivamente, come racconta Riolo, alla fondazione e alle attività del Forum mondiale per le alternative, dove ha sollevato con forza i problemi posti dallo sviluppo ineguale, a partire dalla questione contadina e da quella ambientale. Deluso dall’eurocentrismo delle influenti ONG occidentali che partecipavano al Forum, ha invocato il lancio di una V Internazionale. È con quell’esperienza che si chiude il Capitolo V, Per una visione non eurocentrica della storia, in cui l’autore sintetizza il suo contributo al dibattito globale sul capitalismo, rispondendo altresì alle critiche mossegli da esponenti del marxismo occidentale.
Eurocentrismo è un saggio di non facile lettura. Chi legge non troverà la genealogia dei concetti che Amin impiega (evidenti, ma non esplicitati, sono i debiti verso Gramsci, Althusser e Poulantzas, tra gli altri): il suo è un testo militante, non di marxologia.
Leggendolo oggi, saltano all’occhio alcune lacune. Pur condannando a più riprese la condizione delle donne nell’islam, l’autore non fa del patriarcato un elemento costitutivo dello sfruttamento capitalistico. La sua vigorosa critica del determinismo non cancella l’impressione che il margine di manovra degli esseri umani sia limitato, al cospetto delle diverse “istanze”. Va poi rimarcato che la finanziarizzazione estrema dell’economia e l’impatto sociale e antropologico di digitalizzazione e automazione sono assenti, nelle parti aggiunte per la seconda edizione (benché Amin sia ben consapevole che finanza e tecnologia sono due degli strumenti di cui il centro si avvale per tenere soggiogate le periferie).
Pur con questi limiti, Eurocentrismo colpisce per la capacità dell’autore di cogliere, già nel 1988, la formazione di un mondo multipolare (condizione necessaria, per Amin, di una transizione al socialismo) e la resistenza che a esso avrebbero opposto gli Stati Uniti nonché la centralità di quella frattura metabolica fra umanità e natura che Marx trattava nel Capitale.
Chi ancora vede nel materialismo storico un apparato fondamentale per la comprensione del mondo non può non sentire un debito imperituro nei confronti di Amin, che ne ha smascherato il vizio eurocentrico. Leggere questo testo ci costringe a fare i conti con il “culturalismo” della stessa sinistra anticapitalista, che periodicamente grida al ritorno del fascismo senza pensare che per la maggior parte dell’umanità oppressione e discriminazione sono una costante della storia.
Samir Amin: Eurocentrismo. Modernità, religione e democrazia. Critica dell’eurocentrismo, critica dei culturalismi, a cura di G. Riolo, La Città del Sole, Napoli/Potenza, 2022, pp. 274, Isbn 9788882925529