La vendetta dei sauditi (benedetta da Trump)

La vendetta dei sauditi (benedetta da Trump)
Verso l’occupazione militare del Qatar
di Federico Dezzani
L’Arabia saudita ed i Paesi arabi gravitanti nella sua orbita hanno sorpreso il mondo con la decisione di isolare per terra, aria e mare, l’emirato del Qatar: il blocco totale è il preludio di un’invasione militare o di una deposizione “morbida” dei regnanti.
Si consuma così il primo “colpo di scena” in politica estera dall’insediamento di Donald Trump: alla rivoluzione permanente della coppia Obama-Clinton, fatta di rivoluzioni colorate, ammiccamenti alla Fratellanza Mussulmana e aperture interessate all’Iran, subentra la svolta “reazionaria” della nuova amministrazione. I sauditi prendono la loro vendetta sulla piccola monarchia che cavalcò la Primavera Araba, seminando il caos in Tunisia, Libia, Egitto e Siria con il placet dell’establishment liberal.
Dopo la rivoluzione, la reazione
Lunedì 5 giugno, un fulmine ha attraversato il panorama internazionale: dopo due settimane di crescenti tensioni, l’Arabia Saudita e la variegata galassia di Paesi mussulmani che dipendono dai suoi petrodollari e/o dalla sua influenza politica (Bahrein, Emirati Arabi uniti, Egitto, Yemen, Maldive, Kuwait, Oman e governo laico-nazionalista libico) hanno annunciato un isolamento totale del Qatar, reo di “finanziare il terrorismo nella regione”.
È un blocco a 360 gradi, diplomatico e commerciale: espulsi i diplomatici, chiuse le frontiere terrestri, sospesi i voli aerei, interrotto il traffico marittimo per l’esportazione di gas liquido e l’importazione di beni di prima necessità.
Per il minuscolo, ma opulento, emirato del Qatar (piccola protuberanza della Penisola Arabica, abitata da 2 milioni di persone, di cui il 90% lavoratori stranieri) significa la morte certa: lo strangolamento economico di Doha è il preludio della defenestrazione della famiglia regnante o, nel caso in cui questa opponesse resistenza, di una veloce occupazione militare da parte dei sauditi, sulla falsariga dell’intervento del 2011 in Bahrein.
Le speranze qatariote di un soccorso esterno, da parte di qualcuno di quei Paesi occidentali dove la piccola monarchia ha riversato miliardi di petrodollari nell’ultimo decennio, sono vane: taceranno gli inglesi, gireranno lo sguardo i francesi, si tapperanno le orecchie i tedeschi.
Il soffocamento della monarchia qatariota è, infatti, una manovra saudita, ma ha ricevuto il previo avvallo di una potenza che nessuna cancelleria europea è in grado di contestare su questo campo: gli Stati Uniti d’America. Si avvera così, a distanza di sei mesi scarsi dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, almeno una delle previsioni formulate dopo la vittoria del candidato “populista” (diversamente disattese, purtroppo): la caduta in disgrazia del Qatar che, durante gli otto anni dell’amministrazione Obama, aveva scalato il rango delle potenze mediorientali, quasi come se l’intera politica della regione si decidesse nella microscopica penisola che affaccia sul Golfo Persico.
Si notino le date: il 21 maggio Trump annuncia a Riad, ospite del Consiglio di Cooperazion del Golfo, l’impegno a garantire “la stabilità” della regione, dopo le Primavere Arabe che hanno coinciso con l’amministrazione Obama; tra il 21 maggio ed il 5 giugno, i rapporti tra il Qatar ed i vicini sauditi si deteriorano velocemente e Doha è vittima di un presunto attacco informatico che viola l’agenzia di stampa governativa, pubblicando dichiarazioni pro-Iran e pro-Hezbollah; il 5 giugno, infine, Riad ed i Paesi arabi alleati annunciano il blocco totale della piccola monarchia.
Un simile esito, dopo la sconfitta alle presidenziali di novembre di Hillary Clinton (Segretario di Stato ai tempi della Primavera Araba che sconquassò il Medio Oriente nel 2011), era facilmente prevedibile: durante l’amministrazione democratica, il piccolo, ma ambizioso, Qatar lavora sodo per affermarsi come potenza regionale di primo piano, cavalcando la “rivoluzione permanente” che l’establishment liberal ha in serbo per il Medio Oriente.
Rovesciare i vecchi regimi laici-nazionalisti, sprigionare il demone della Fratellanza Mussulmana, aprire diplomaticamente all’Iran da un lato e fomentare la guerra di religione tra sunniti e sciiti dall’altro: non c’è un singolo dossier caldo in cui non compaia il nome del Qatar, spesso unito alla Turchia di Recep Erdogan.
È il Qatar che invia corpi speciali in Libia per rovesciare Muammur Gheddafi1; è il Qatar che elargisce donazioni milionarie al partito islamista Ennahda che domina la Tunisia post-Ben Ali2; è il Qatar che inietta 8 $mld nell’Egitto della Fratellanza Mussulmana, dove il presidente Mohammed Morsi ha conquistato il potere dopo la rivoluzione colorata che defenestrato Hosni Mubarack3; è il Qatar che, nel’agosto del 2014, sostiene la giunta militare islamista che si installa a Tripoli, obbligando il legittimo governo laico a fuggire a Tobruk; è il Qatar che, all’indomani della vittoria di Trump, conferma il suo sostegno all’insurrezione islamista in Siria anche nel caso in cui venisse meno l’impegno americano4.
Potendo contare sul suo relativo isolamento geografico dalle zone calde del Medio Oriente e su immense risorse finanziarie con cui è facile comprare gli sparuti sudditi, il Qatar asseconda dal 2011 in avanti il piano dell’amministrazione Obama di “ridisegnare” il Medio Oriente, puntando sul cavallo dell’islam politico (la Fratellanza Mussulmana) che nella Turchia di Recep Erdogan ha già dato discreti risultati: è un piano, quello dell’oligarchia atlantica, che incontra ovviamente forti resistenze persino tra gli stessi alleati arabi, in primis quelli più “reazionari”.

L’Arabia Saudita, in particolare, è allergica alla Fratellanza Mussulmana per due motivi: il carattere “universalista” dei partiti islamici è inconciliabile con la sua natura di Stato tribale e le loro pretese di “democraticità” non sono digeribili da una monarchia assoluta. I Saud, già preoccupati dal mantenimento dell’ordine dentro il proprio regno in rapida crescita demografica (31 milioni di abitanti di cui il 27% sotto i 14 anni), amano la stabilità: la caduta di vecchi amici come il tunisino Ben Ali e l’egiziano Hosni Mubarack, abbandonati da un giorno all’altro dagli americani, è per loro un vero e proprio affronto.
Quando l’esercito egiziano, di fronte al precipitare delle situazione interna, organizza il golpe che depone Mohammed Morsi ed incorona il feldmaresciallo Abd Al-Sisi, l’Arabia Saudita è la prima a esultare, iniettando decine di miliardi di dollari nel malconcio Paese arabo5.

Se Riad gioisce, ovviamente Doha piange: “Fall of Egypt’s Mohamed Morsi is blow to Qatari leadership” scrive il Financial Times nel 2013, notando come la repressione della Fratellanza Mussulmana sia un duro colpo per le ambizioni geopolitiche di Doha. Quello che il quotidiano della City non dice è che il termidoro egiziano è anche una debacle per lo stesso establishment atlantico, costretto a subire la reazione delle forze laico-nazionaliste arabe: sin dal 2014 è avviata, infatti, la manovra per minare la presidenza di Al-Sisi.

Insurrezione dell’ISIS nella penisola del Sinai, attentati contro la comunità coopta, isolamento diplomatico sull’onda dell’omicidio Regeni. È difficile che l’oligarchia atlantica, qualora Hillary Clinton avesse conquistato la Casa Bianca, si sarebbe “accontentata” di spodestare Al-Sisi: più facile, invece, che avrebbe giocato fino in fondo la partita, destabilizzando la stessa Arabia Saudita, “retrograda”, “illiberale” e “oppressiva”.

Contro qualsiasi previsione, Donald Trump è però emerso vincente dalla sfida elettorale e, nonostante qualche frecciata lanciata durante la campagna elettorale come la minaccia di bloccare l’import di petrolio saudita, il neo-presidente si è avvicinato rapidamente a Riad, vista come “il campione della reazione”, indispensabile per mantenere la stabilità nella regione: il primo viaggio di Trump all’estero coincide con la visita in Arabia Saudita, dove il presidente ribadisce l’impegno americano nella regione, sigla accordi militari per 110 $mld e vagheggia la nascita di una “NATO araba” per lottare contro il terrorismo e contenere l’Iran.
Se la potenza della reazione, Riad, è sugli scudi, quella della “rivoluzione” cade velocemente in disgrazia: trascorreranno meno di due settimane prima che parta la manovra per “strangolare” definitivamente l’emirato del Qatar.
Annusando l’imminente termidoro egiziano con cui i militari egiziani soppressero la Fratellanza Mussulmana, il Qatar corse allora ai ripari: con una mossa a sorpresa, dieci giorni prima che cadesse Mohammed Morsi, l’emiro Hamad ben Khalifa Al Thani abdicò nel giugno 2013 in favore del figlio 33enne.
Fu una scelta accorta, che permise alla monarchia qatariota di scongiurare la vendetta saudita. Il contesto è però oggi cambiato: l’establishment liberal ha perso la Casa Bianca, le forze della reazione sono alla ribalta e la pazienza di Riad, già alle prese con il proprio Vietnam nel vicino Yemen, è terminata: un simile miracolo non è più possibile e niente può più salvare la monarchia del Qatar. Nel futuro c’è soltanto la deposizione o l’invasione militare.
C’è chi legge lo scontro tra Riad e Doha come un capitolo del più ampio conflitto tra sunniti e sciiti: il piccolo Qatar, secondo quest’interpretazione, pagherebbe a caro prezzo le sue timide (ed interessate) aperture al vicino Iran. In realtà, il braccio di ferro tra le due monarchie è leggibile come un duello tra reazione e rivoluzione, tra assolutismo e islam politico, tra conservazione e destabilizzazione.
Grazie a Trump, la “reazione saudita” ha avuto la meglio sulla “rivoluzione qatariota”: è uno scenario tutto sommato positivo, soprattutto per quei Paesi, come l’Italia, che trarrebbero grandi vantaggi dalla stabilizzazione della regione. Pensiamo in particolare alla Libia dove, come analizzeremo nel prossimo articolo, la caduta della monarchia qatariota faciliterebbe la definitiva riappacificazione dello Stato, grazie alla soppressione degli islamisti e l’avanzata del generale Khalifa Haftar.
Gli ultimi giorni della monarchia qatariota si avvicinano: addio, piccola, infida, Doha!
Ti credevi la regina dello scacchiere mediorientale ed eri, invece, solo uno dei tanti pedoni.
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Note
1 https://www.theguardian.com/world/2011/oct/26/qatar-troops-libya-rebels-support
2 http://www.middle-east-online.com/english/?id=62816
3 https://www.ft.com/content/af5d068a-e3ef-11e2-b35b-00144feabdc0
4 http://www.reuters.com/article/us-mideast-crisis-syria-qatar-idUSKBN13L0X7
5 http://www.reuters.com/article/us-saudi-egypt-finance-idUSKCN0X20Q0

Las izquierdas latinoamericanas y la cuestión de Venezuela

Las izquierdas latinoamericanas y la cuestión de Venezuela
La crisis venezolana ha puesto de manifiesto las distintas posturas existentes en la izquierda de América Latina con respecto al «socialismo del siglo XXI»
Marcelo Pereira -Mayo 2017 -Nueva Sociedad
¿Será que nunca haremos más que confirmar
la incompetencia de la América católica
que siempre necesitará ridículos tiranos?
Caetano Veloso. Podres poderes (1984)
La crisis venezolana es un parteaguas en la izquierda latinoamericana y en el territorio más amplio del «progresismo» regional. Los motivos de esta división y la índole de las posiciones que quedan de uno y otro lado, quizá no sean tan simples como parecen. Considerar de qué modo se dividen los campos en Uruguay puede tener alguna utilidad para comprender mejor el fenómeno.
Es frecuente que se identifique el apoyo al presidente Nicolás Maduro con sectores de «izquierda ortodoxa», y en ese contexto «ortodoxia» significa al igual que el término «sesentismo», el apego a un ideario que se presupone obsoleto. Esta manera de abordar el asunto tiene algunos inconvenientes.
Por un lado, no se sabe bien de qué posiciones supuestamente perimidas se habla, ni a cuáles se considera, en cambio, moderna y razonable. Además, subyace a esa clasificación algo muy parecido a un argumento tautológico: quienes respaldan al gobierno chavista de Venezuela serían exponentes de una izquierda ortodoxa porque ese gobierno también lo es, y el hecho mismo de defenderlo probaría una identidad semejante a la suya. Pero ¿en qué sentido se puede considerar a Hugo Chávez o a sus herederos políticos parte de alguna ortodoxia izquierdista?
Si se detecta esa presunta ortodoxia en que la redistribución de los ingresos petroleros (mientras estos se mantuvieron en altos niveles) atendió mejor que antes algunas necesidades sociales básicas, o en el protagonismo omnipresente del Estado, la comprensión de lo que significa «izquierda» se queda corta.
Si se considera que el izquierdismo anacrónico del chavismo reside en atribuir culpas al imperialismo estadounidense por los males de nuestra América, o en prácticas a las que se puede aplicar la difusa categoría «populismo», estamos en el territorio caricaturesco y frívolo del Manual del perfecto idiota latinoamericano.
El hecho es que, pese al notorio deterioro de los niveles de formación y de reflexión política de la izquierda latinoamericana en las últimas décadas, parece muy difícil que algún dirigente medianamente experimentado haya llegado a ver a Chávez o a sus epígonos como modelos de referencia, o se haya tomado en serio lo del «socialismo del siglo XXI», que nunca pasó de ser un producto ideológico de baja calidad con más componentes cortoplacistas y retóricos que pensamiento estructural y estratégico (el socialismo no era, por cierto, «la electricidad más los soviets», pero mucho menos es el extractivismo más un líder carismático, con bases dependientes en extremo de la providencia estatal).
En Uruguay, la pregunta no es solo por qué algunos sectores de la izquierda apoyan abierta y decididamente al gobierno de Maduro, sino también a qué se debe que otros –a los cuales es difícil catalogar como radicales u ortodoxos– mantengan sus cuestionamientos en un tono muy matizado y comedido.
O sea, por qué, ante la clara deriva antidemocrática de ese gobierno, oscila entre la justificación y algo muy semejante a la «crítica fraterna» una izquierda como la uruguaya, cuya reivindicación de José Artigas se inscribe en una tradición muy diferente de la bolivariana. Esa tradición Artiguista es cultora de una racionalidad y un antimilitarismo que se llevan muy mal con el estilo chavista.
En ella se forjó gran parte de la identidad del Frente Amplio (FA) en la lucha contra la dictadura de 1973-1984, con una fuerte revalorización de la democracia y las libertades. No resulta casual, por ello, que el general Liber Seregni, líder histórico del FA, se negara a reunirse con Chávez cuando este visitó Uruguay en 1994, por la simple razón de que era «un militar golpista».
Hay fuertes indicios de que esa gama de actitudes tiene motivos bastante alejados de la afinidad ideológica. Consideremos brevemente seis de ellos (el orden de exposición no implica atribuirles mayor o menor importancia).
1. Desde un punto de vista geopolítico, la llegada del chavismo al gobierno de Venezuela fue un factor significativo de cambio en las relaciones entre los gobiernos latinoamericanos, y en las de estos con Estados Unidos. La escenificación en 2005, durante la IV Cumbre de las Américas realizada en Mar del Plata, del rechazo a la propuesta de Área de Libre Comercio de las Américas, con fuerte protagonismo de Chávez, tuvo un fuerte impacto simbólico como esbozo de nuevos alineamientos a escala continental, y también de relaciones eventualmente más equilibradas en el campo del «progresismo» latinoamericano, que redujeran o por lo menos contrapesaran en alguna medida el poderío brasileño.
Otro asunto es en qué medida esa escenificación simbólica correspondió a las causas reales de lo que ocurrió en Mar del Plata, y en qué medida –como seis años antes, en la III Conferencia Ministerial en Seattle de la Organización Mundial del Comercio– se impuso un relato épico que no registra el papel de fuerzas contrarias al avance del libre comercio pero muy distantes del «progresismo». Y aún otro asunto es qué suerte tuvo, luego, la Alternativa Bolivariana para las Américas (ALBA).
2. La alianza explícita de Chávez con Fidel Castro, que aseguró un acceso al petróleo venezolano crucial para la supervivencia de Cuba, le otorgó al chavismo una especie de salvoconducto a los ojos de una izquierda uruguaya que, por encima de sus diferencias y salvo raras excepciones, mantiene una actitud ante la cuestión cubana que abarca desde la adhesión incondicional hasta el silencio piadoso (una izquierda, podría decirse, históricamente «fidelizada»).
3. A las izquierdas de este siglo, asediadas por la incertidumbre estratégica y las contradicciones políticas les da vértigo cortar algunas amarras que aún las ligan a buena parte de sus bases tradicionales y de su propia historia. Por eso, una ruptura enfática con el chavismo puede parecerles más riesgosa que indispensable.
4. En su período más exitoso, Chávez pudo representar la ilusión de un atajo para sortear viejos dilemas no resueltos, en la medida en que se presentó como alguien que era al mismo tiempo nacionalista e internacionalista, gran ganador de elecciones y enterrador del sistema partidario tradicional en su país (un bipartidismo que estuvo, junto con el uruguayo, entre los más sólidos de América Latina), con voluntad de permanencia ininterrumpida en el poder pero sostenido por un pueblo dispuesto a movilizarse (como en el fallido golpe de Estado de 2002) y por un ejército politizado. De ilusión también se vive
5. Está, por supuesto, la cuestión del dinero. Una parte de los cuantiosos recursos manejados por el chavismo se destinó a resolver problemas de otros gobiernos del campo progresista latinoamericano (incluyendo a Uruguay), y a apoyar de distintas formas a sectores y dirigentes de ese campo. El modo en que esto se hizo no fue siempre transparente o siquiera confiable, pero así se establecieron vínculos fuertes y se forjaron lealtades.
6. No hacen falta teorías conspirativas para ver el avance de las derechas en las Américas y en el hemisferio norte. Ante esto, los progresistas no parecen demasiado deseosos de facilitarle el camino al gobierno a una oposición venezolana que incluye a notorios golpistas y reaccionarios, claramente alineados con intereses estadounidenses.
Las izquierdas ya deberían haber aprendido, tras numerosas lecciones desde el siglo pasado, que el criterio de defender todo lo que sea atacado por la derecha –o, peor, la idea de que algo debe ser defendido porque la derecha lo ataca– es una pésima brújula para quienes quieren rumbear hacia relaciones sociales más libres y más justas. Pero parece que todavía no lo aprendieron.

“Fui del Frente de Acción Universitaria, FAU en 1973…”

“Fui del Frente de Acción Universitaria, FAU en 1973…” Entrevista con Carlos “Melcocha” Iglesias

SAN SALVADOR, 29 de mayo de 2017. “Fíjate que nosotros en la colonia Guatemala No. 2, en los multis, allá por 1969, teníamos un grupo de estudio, que lo dirigía Vladimir Alejandro Umaña Santamaría, que entonces era de la JCS y que luego sería el primer combatiente caído de las FPL…” nos comparte Carlos Iglesias, de 64 años, conocido cariñosamente como Melcocha, un destacado militante de la Juventud Comunista en la UES de los años setenta del siglo pasado.

Con Vladimir Umaña Santamaría

Agrega que “en este grupo de estudio estaba también Abraham López, éramos vecinos, íbamos a las marchas que convocaba ANDES y la AES en apoyo a la huelga de los maestros, íbamos como masa, a apoyar. Vladimir era un poco mayor que nosotros, y era hijo de profesores de ANDES y del PCS. Cuando se da la separación en el Partido en 1970, él se va con Cayetano…él vivía en la colonia El Bosque, en la calle A y estudiaba secundaria en el Instituto Obrero “José Celestino Castro” cuando estaba ubicado en la Avenida Cuscatlán, a la par de la FUSS, y luego fuimos compañeros en el Instituto Orantes, sobre la Calle Concepción, pero él ya tenía formación política y les daba cátedra a los profesores…para esa época llegaron a vivir a esa zona mucha gente del PC, llegó Roberto “Boca de Trapo” Castellanos Calvo y Roberto Sánchez, que ya vivían ahí, Toni “Federico” Handal, Armando “El Zarco” Herrera, y aunque era menor que nosotros Roberto Salinas.”

“Con Vladimir éramos del grupo Scout de la colonia y realizábamos excursiones, caminatas, subíamos el cerro San Jacinto, el Boquerón… a él lo agarran en la 3 de mayo para las elecciones de Molina en febrero de 1972…ya para entonces Vladimir estaba clandestinizado… En 1970 se da el quiebre en el PC, él se da cuenta y se va con Cayetano…

Fíjate que Vladimir vivía en el patio de su casa, ahí había instalado una champa en la que había metido una gran cama y varias sillas, debajo de la cama habían cajas de libros y también tenía pistolas, aunque todavía era del PC…Ahí nos reuníamos a estudiar, leíamos en esa época de entrada El Manifiesto Comunista de Marx y Engels, El Estado y la Revolución y Dos Tácticas de Lenin, y otras obras del marxismo-leninismo.”

“Salí de bachiller de Ciencias y Letras del Colegio Cervantes en el 70 e ingrese después a la U, a estudiar Psicología; Abraham también entra a Psicología, ya habían abolido las Áreas Comunes. Nuestros profesores en Psicología eran entre otros El Negro René Pacheco de Psicoestadística, el Chato Medrano, Reginaldo Hernández, psiquiatra, comunista, primer graduado salvadoreño en la URSS y que nos daba Psicología del desarrollo.”

Y nos encontramos ahí a la China, o sea Gloria Palacios, que la conocíamos porque venía también del Cervantes, y que fue después la mujer de Felipe Peña y cayeron juntos, heroicamente, allá en la colonia Santa Ursula, por Santa Anita. Ahí en Psicología estaba también Atilio Cordero, que hoy se hace llamar Atilio Montalvo y fue conocido en las FPL como Salvador Guerra; estaba Napoleón Romero, el famoso Ronco de las FPL, conocido después como Comandante Miguel Castellanos. Del Ronco me recuerdo que una vez Manuel Franco lo enfrentó y le dijo en su cara: ¡si no sos ya policía, hijo de puta, vas a terminar siéndolo!….Y cabal, traicionó.”

En la UES

“En los 70 Dago (Gutiérrez) era el responsable de la Juventud Comunista en la U, pero también estaban Semita (Oscar Orellana) y Manuel Franco…y a veces llegaba el Rusito (Américo Araujo)…Ah, y el Zarco Herrera. Ellos fueron los iniciadores de la JC en la U.

“En el 71 apoyábamos con Abraham a nivel de masa a la huelga de ANDES, íbamos nuestro grupito de la colonia y lográbamos jalar a otros bichos… Ya para enero de 1971 había embriones de las FPL en Psicología, en niveles básicos, me acuerdo que a Abraham le estaban hablando ya de las FPL, lo iban a reclutar, nos reuníamos con Tilo Cordero, ayudábamos a repartir El Rebelde… ”

“En la UES me matricule en Humanidades, y ahí como que había más ebullición de la Juventud Comunista, y también de la Juventud Socialista, del MNR, que de las FPL, que eran más clandestinas, acababan de nacer….”

“En 1972 después de la toma militar por el gobierno de Molina, iniciamos el proceso de reconstrucción del movimiento estudiantil. AGEUS era conducida por los tres “chuchos” Gómez, Meme Castillo, Humberto Mendoza, el Perico Jovel, que con la intervención del 19 de julio de 1972 se fueron al exilio en Costa Rica. Y luego de la reapertura regresan al país y crean la Liga para la Liberación, que después deviene el PRTC. La Nidia no sé cómo se separa del FUERZA y se pasa a las “ligas.”

Y entonces la JC toma las riendas del movimiento, y nos reuníamos en el Centro Mariano, que quedaba sobre la calle Gabriela Mistral. Era dirigido por el padre Javier López Aguilar, además dirigía el programa católico Fe y Alegría. Ahí trabajaba Abraham y ahí trabajaba también André Gregori, que era del ERP. Gregori era lindo para el billar, un maestro, ácido, quizás solo superado por el entonces estudiante de ingeniería, Roberto “Lomo de Cuca” Viera, el actual viceministro de Turismo, que se hacía buenos billetes jugando en los altillos del edificio La Dalia, en el centro y en los billares de la U.”

“Bajo la conducción de Dago, luego de la toma del 72, iniciamos la reconstrucción del movimiento estudiantil. En el exilio, con la U tomada, fuimos pacientemente organizando las sociedades estudiantiles en cada facultad y en cada departamento…y logramos armarlas en cada facultad en San Salvador, y hasta en Santa Ana y San Miguel, es ahí que nace el Frente de Acción Universitaria, el FAU, en este proceso organizativo…y participan Luis Castro, el Zarco Herrera, Semita, Salvador “El Cacho” Cárcamo, que estudiaba en Santa Ana.

La primera sociedad que se organizó, y es mérito del Zarco Herrera, fue la Sociedad de Estudiantes de Ciencias y Humanidades, la SECH, y reclutamos para esta tarea a los del MNR, a Jorge Blanco Gallo, que dirigía la Juventud Socialista, o el Movimiento Universitario Socialista, MUS, junto con Ramón Azahar, Juan Francisco Domínguez y un compa de apellido Aquino de Psicología, que fueron también miembros de la SECH atendiendo nuestra línea política de “Unidad en la Acción.”. Le entramos a esta tarea con gran energía… El primer presidente de la SECH fue el estudiante de periodismo Oscar de Jesús Arévalo. Luego fue Toni Martínez de Sociología.

Con Abraham íbamos a las reuniones, y en toda esta ebullición empecé a distinguir que habían como dos líderes máximos: Felipe Peña, por un lado y Dago por el otro…y aunque ya estábamos con Abraham relacionados con la Juventud Comunista todavía seguíamos repartiendo El Rebelde de las FPL, las fronteras entre las organizaciones todavía no estaban muy claras…También en Medicina, antes de la toma, Carlos Arias, otro gran dirigente, había organizado un Comando Estudiantil de Medicina que paralizó las clases en esa facultad exigiendo una política de nuevo ingreso de puertas abiertas……

“El gobierno del coronel Molina, después de la intervención a la U del 72, que duró de julio del 72 a octubre del 73, instaló sus comisionados a través de las facultades e impuso un rector (Juan Allwood Paredes), luego los jefes de comisiones de gobiernos transitorios de cada facultad se transformaron en decanos.

En el caso de Humanidades impusieron al Chele Vaquerano, en Medicina al Dr. Max Bloch, en Ingeniería y Arquitectura Rodolfo Jenkins, En Derecho estuvo el Dr. Luis Dominguez Parada, en Economía el “Chucho” Rodríguez; con todos ellos tuvimos acercamientos y los ganamos a nuestras posiciones, incluso colaboraban económicamente o con materiales para el movimiento estudiantil. Era peligroso, pues instalaron también a “los verdes” (policía interna) construyeron garitones de vigilancia en cada una de las entradas de la UES y su cuartel general arriba de las canchas de tenis.

Estaban dirigidos por el Capitán Castro Sam, secretario de la facultad y supuestamente Doctor en Filosofía. Pero más conocido por su papel de torturador en el ejército. Castro Sam quería darle golpe de estado al decano, al Chele René Vaquerano, de Educación. Decidimos entonces una línea de acercamiento al Chele y fuimos a platicar con él, y esto nos generó ganancias, él nos abrió puertas, incluso le sacamos materiales para la agitación y la propaganda.

En octubre del 73 logramos la reapertura de la UES, fue una gran victoria del movimiento estudiantil conducido por la Juventud Comunista. Iniciamos como Consejo Estudiantil Provisional, CEP, con Dago (Gutiérrez) como Presidente y Abraham López como secretario.

Iniciamos una lucha por una política de puertas abiertas, de ingreso masivo de estudiantes. Se forma el Comité Estudiantil de Nuevo Ingreso, el CENI, ahí aparece Marta Valladares posteriormente Nidia Díaz. En los días posteriores a la reapertura se da una gran ebullición organizativa alrededor de la JC, se recluta mucha gente, la Nidia anduvo cerca de nosotros, bueno, hasta el Ronco se quería zampar a la JC, y le dan tareas para probarlo, luego se va con las F y se vuelve rabioso anticomunista…

Ya para principios de 1974 los que llamábamos “ultras” o “ñurdos” que venían básicamente de las FPL y del ERP, habían comenzado a tener auge en la U. Uno de sus máximos dirigentes era Carlos Arias del ERP, estudiante de Medicina, pero que mantenía buenas relaciones con nosotros, en particular con Dago y con Manuel Franco. En febrero de ese año fueron las elecciones para AGEUS y únicamente participa el FAU, porque era el único frente estudiantil existente.

Se integra un comité ejecutivo presidido por Manuel Franco (presidente por Derecho) y Julia Mercedes Alvarenga (vicepresidenta por Ingeniería y Arquitectura). Además lo integraban Carlos Panameño (Medicina), Salvador Cárcamo (SECUO), Adán Marquina (San Miguel); e inclusive Carlos Arias del ERP. Y estaba El Tipo, el encargado del mimeógrafo, un compañero del Partido, originario de Usulután.

En el 75 fuimos de nuevo a elecciones para AGEUS pero esta vez participaron tres frentes estudiantiles: el FAU y además Universitarios Revolucionarios 19 de Julio, UR-19 que respondían a las FPL y el Frente Universitario de Estudiantes Revolucionarios “Salvador Allende”, FUERSA vinculado al ERP.

Acordate que las RN todavía no habían surgido. En la votación como FAU obtuvimos el primer lugar, el UR segundo y FUERSA el tercero, pero no sacamos más del 50 por ciento aunque veníamos trabajando desde el 72, por lo que se convoca a una segunda vuelta, en la que se unen el UR y FUERSA y crean la Alianza Revolucionaria. Pero no hubo segundas elecciones porque ellos se tomaron por la fuerza el local de AGEUS llevando sus famosas “barras móviles”.

El Partido decidió no enfrentar esta agresión de las FPL y el ERP, y nos tuvimos que conformar con un “hecho consumado.” Luego las FPL expulsaron del local a los del ERP. Habían llegado con gente de fuera para tomarse el local de AGEUS, con mechudas y cuartones, en tono amenazante. Aquí fue que Franco le dijo al Ronco la profecía que iba a ser oreja en el futuro.

Pero todavía para el 30de julio de ese año nosotros encabezamos el desfile con la bandera de AGEUS. Días antes habíamos estado con Dago y otros diputados como Rey Prendes protestando por la toma militar del Centro Universitario en Santa Ana… el 30 de julio marchamos como FAU-AGEUS, que por derecho propio nos pertenecía. Me tocó ver cómo caía bajo las balas Carlos Fonseca del UR, Manuel Franco logró por suerte zamparse al ISSS y lo vistieron de médico, así se salvó de la policía.

El 75 fue un año de quiebre. Se dio lo de AGEUS en febrero, el asesinato de Roque en mayo, la masacre estudiantil el 30 de julio, la creación del BPR el 1 de agosto. Gente cercana a nosotros como Rafael Mendoza y Ricardo Castrorrivas se pasa al BPR.

EL FAU

Y en el FAU estaba José Antonio “El Chele” Guillen, que era un poco mayor que nosotros, estudiante de Biología, que muere ya durante la guerra en las filas de las FAL; Roberto Savallos, estudiante de Derecho, y antes trabajador de la imprenta y bibliotecario (se devoró muchos libros lo que lo hizo ser muy culto, leído) que en los inicios de la guerra, conducía un Grupo de Acción Revolucionaria, GAR, antecedente de las FAL, basado en la colonia Guatemala, con 17 miembros todos de la JC, bien activos. Ya en esa época mucha gente nos pedía armas y al no haber se iban para las FPL.

El Partido dio la orientación de conformar los GAR pero no dio los medios así que cada quien se rebuscaba con recuperaciones, con asaltos a empresas y negocios como burdeles y ventas de licor para comprar armas y mantenerse activando en medio de aquella cruda represión, pero lo que no se podía era morirse de hambre y suspender actividades.

El Choco Savallos, que también era poeta, tenía también un GAR en San Marcos junto con el otro poeta Chema Cuellar. El Choco Savallos era “paloma”, audaz a ultranza. Una vez lo vi en acción allá en el centro. Pero murió en uno de estos asaltos a un burdel de la Escalón que se llamaba el Safari en 1981, de mala suerte abordaron un taxi con radio abierto en contacto con la policía y los persiguieron hasta darles alcance en el Barrio San Miguelito, donde combatió solo con su nueve milímetros contra un contingente de la policía nacional.

¿Quiénes estaban en el FAU? Con el perdón de aquellos que la memoria me traiciona en estos momentos, comenzando con las mujeres Julita de Arquitectura; Sarita una compa de Medicina chiquita, chelita, ojos claros; la Cecilia “Davis” Vega de Agronomía, pieza fundamental en esa época; Gloria Trujillo de Filosofía, la Vilma Chafoya de Medicina; Norma Guevara de Educación; la Gladys Chiquillo de Idiomas y su hermana menor; las hermanas Ena y Vilma Hernández que venían de Santa Ana y estudiaban Biología y Química; la Rosita en Economía…de ellas me recuerdo ahorita pero habían más mujeres militantes, como una compañera de la Normita, también de Educación, que era instructora de educación física y se incorporó también a las FAL, vivía en Santa Anita.

En Humanidades estaba Gladis Chiquillo, la Norma (Guevara) en Educación que junto con Rolando Mata, ambos diputados del FMLN, los reclutamos para el FAU en el 73…estaba Abraham, Chema Cuellar de Letras, Armando Herrera, Abel Moreno, de Biología, que se fue para la URSS y era el marido de Gloria, de Filosofía…Rogelio de Educación, que cayó en la época de los GAR, Fidel Nieto y el Chele Luis, estudiante de Usulután, que eran de Sociología,…En Agronomía Adonay Pimentel, que venía de ANDES. En Medicina, Vinicio, Luis Diaz…

En Derecho: Dago, Manuel Franco, Luis Castro, Antonio el “Bigote” Cabrera, Rolando el “Menfis” Gutiérrez, el “Choco” Saballos. En Ingeniería: el “Seco” Herbert Solís, el “Cacho” Salvador Cárcamo, el “Chafito” o “Koki” Handal, el “Pelón” Raúl Castro, el “chele” Bazaglia, los hermanos Castro y tres compas homos…famosos lésbicos de Arquitectura, había ya diversidad sexual en el FAU. Bueno, teníamos del tercer sexo en Economía a Julio “Culo” Martínez, ¿por qué crees que le decían así? fue presidente de la SECE y judoka de nuestra defensa personal en las marchas y actividades clandestinas de la JC, y que por cierto me salvó el 30 de julio de que un guardia me agarrara y German que se fue a la URSS.

En Economía el trabajo lo iniciamos con Evelio Ruano que fue el primer presidente de la SECE, junto con el poeta Nelson Brizuela, Oscar el “Chucho” Osegueda, Orestes, actual Ministro de Agricultura, que como muchos de nosotros estudiaba en la noche porque trabajaba en el día, Jacobo Handal y Adonay Pimentel… En Ciencias y Humanidades estábamos el Zarco Herrera, el poeta Chema Cuellar y “Zamorita”, hermano de Rubén Zamora de Letras; Abraham López, Manuel el “Chele” Martínez y yo en el Departamento de Psicología; Tony Martínez, el “Peluca”, Fidel Nieto y el “Chele” Luis en el Departamento de Sociales; Rogelio de Educación, que cayó en la época de los GAR, el “Chele” Guillén, Alpirit y René Ayala de Biología; en Odontología, “Plancha” y Gustavo Guillén que iba de candidato en la planilla de Tony para AGEUS y actualmente en Canadá; en Medicina Carlos Panameño, Carlos Flamenco, Alfonso el “Fonchín”, Rogelio Ramos y el “Diablito” Ruiz… En la Sociedad de Estudiantes del Centro Universitario de Occidente, SECUO, German o “Geiman” porque no pronunciaba bien la erre, el “Choco” Guerrero, entre otros y de Oriente recuerdo a “Flashman” por su andar pausado y un compa alto, blanco y gordo de Usulután…

Éramos más, muchos más, quienes te menciono son prácticamente los que iniciamos el trabajo de reconstrucción del movimiento estudiantil después del asalto militar de 1972, luego se incorporó mucha gente, mujeres y hombres… muchos ahora son profesionales que lograron graduarse, otros cayeron, dejaron su vida en el combate… murieron pero están vivos en mi memoria con su ejemplo de lucha revolucionaria, y otros que siguen viviendo pero que para mí ya están muertos…

Después fue que se fundó el FAPU, en el cual en un principio participamos como FAU y juventud UDN pensando en el Frente Amplio, luego la CRM, el Foro Popular, antes del golpe de la Juventud Militar en octubre de 1979, pero eso ya es otra historia…

Cómo criar a un hijo feminista

Cómo criar a un hijo feminista
Por Claire Cain Miller 5 de junio de 2017

Hoy en día es más probable que le digamos a nuestras hijas que pueden ser lo que quieran: astronautas y mamás, toscas o muy delicadas, pero no hacemos lo mismo con nuestros hijos.
Aunque les hemos dado a las niñas más opciones de roles para elegir, según los sociólogos el mundo de los niños sigue siendo muy limitado. Se les desalienta cuando tienen intereses considerados femeninos. Se les dice que sean rudos a toda costa, o bien que reduzcan su llamada “energía de niño”.
Si queremos crear una sociedad equitativa, una en la que todos puedan progresar, también debemos darles más opciones a los niños. Como señala Gloria Steinem: “Estoy contenta de que hayamos comenzado a criar a nuestras hijas más como a nuestros hijos, pero no funcionará hasta que criemos a nuestros hijos más como a nuestras hijas”.
Eso se debe a que los papeles para las mujeres no pueden expandirse si no lo hacen también los de los hombres. Sin embargo, no se trata solo de las mujeres. Los hombres se están quedando rezagados en la escuela y el trabajo porque no estamos criando niños para que tengan éxito en la nueva economía rosa. Las habilidades como la cooperación, la empatía y la diligencia —que a menudo se consideran femeninas— cada vez se valoran más en las escuelas y los trabajos de hoy, y los empleos que requieren estas habilidades son los que están creciendo con mayor rapidez.
Pero ¿cómo podemos criar hijos feministas?
Le pedí a neurocientíficos, economistas, psicólogos y otros especialistas que respondieran a esta pregunta, basados en las investigaciones y datos más recientes sobre género a nuestra disposición. Definí feminista de manera simple, como alguien que cree en la igualdad total entre hombres y mujeres. Sus consejos tienen aplicaciones amplias: están dirigidos a cualquiera que quiera criar niños amables, seguros y libres para perseguir sus sueños.
Déjalo llorar
Los niños y las niñas lloran con la misma frecuencia cuando son bebés y niños pequeños, según muestran las investigaciones.
Sin embargo, alrededor de los cinco años, los niños reciben el mensaje de que el enojo es aceptable pero que no se espera que muestren otros sentimientos, como la vulnerabilidad, dice Tony Porter, cofundador de A Call to Men, un grupo de activismo y educación.
“A nuestras hijas se les permite ser humanas, pero a nuestros hijos se les enseña a comportarse como robots”, comentó. “Enséñale que tiene una variedad completa de emociones, que puede detenerse y decir: ‘No estoy enojado; tengo miedo’, o ‘Me siento lastimado emocionalmente’, o ‘Necesito ayuda’”.
Proporciónale modelos a seguir
Los niños son particularmente receptivos cuando pasan tiempo con modelos a seguir, incluso más que las niñas, de acuerdo con lo que muestran las investigaciones.
Cada vez hay más pruebas de que los niños criados en hogares sin figura paterna tienen un peor desempeño en términos de conducta, estudios e ingresos. De acuerdo con los economistas David Autor y Melanie Wasserman, una razón para ello es que no han visto a hombres que asuman las responsabilidades de la vida. “Haz que haya hombres buenos donde esté tu hijo”, dice Porter.
Pero también bríndales modelos femeninos a seguir. Habla sobre los logros de mujeres que conoces y de mujeres famosas en los deportes, la política o los medios de comunicación. Los hijos de madres solteras por lo general respetan mucho sus logros, dice Tim King, fundador de las Urban Prep Academies para chicos afroestadounidenses de bajos recursos. Los invita a ver a otras mujeres de la misma manera.
Déjalo ser él mismo
Aun cuando los roles de género en los adultos se han mezclado, los productos para niños se han dividido más que hace 50 años, según estudios: las princesas color rosa y camiones azules ya no solo están en el pasillo de los juguetes sino también en las tasas y los cepillos de dientes. No sorprende que los intereses de los niños acaben por alinearse a eso.
Los especialistas en neurociencia dicen que los niños no nacen con esas preferencias. Hasta mediados del siglo XX, el rosa era el color para los niños y el azul para las niñas. En los estudios no se ha demostrado que los bebés tengan marcadas preferencias por determinados juguetes. La diferencia, de acuerdo con los investigadores, surge al mismo tiempo en que los niños toman conciencia de su género, alrededor de los dos o tres años, y en ese momento las expectativas sociales pueden invalidar los intereses innatos. Los estudios longitudinales muestran que la división de juguetes tiene efectos a largo plazo en las brechas de género en términos académicos, así como en el desarrollo de habilidades espaciales y sociales, según Campbell Leaper, jefe del Departamento de Psicología de la Universidad de California en Santa Cruz.
Para que los niños desarrollen todo su potencial, deben seguir sus intereses, ya sean tradicionales o no. Déjalos. La idea es no asumir que todos los niños quieren las mismas cosas y, en cambio, asegurarse de que no estén limitados.
Ofréceles actividades como jugar con bloques o masa y anima a tus hijos a intentar actividades como probarse ropa o asistir a clases de arte, incluso si no las buscan por ellos mismos, dicen los sociólogos. Denuncia los estereotipos (“Qué mal que en la caja de ese juguete solo haya fotos de niñas, porque yo sé que a los niños también les gusta jugar con casitas de muñecas”).
También puede mejorar la condición de las mujeres. Los investigadores sostienen que la razón por la que los padres alientan a sus hijas a jugar fútbol o a ser doctoras, pero no a sus hijos a tomar clases de ballet o ser enfermeros, es que lo “femenino” se vuelve sinónimo de un estatus menor.
Enséñale a hacerse cargo de sí mismo
“Algunas madres crían a sus hijas pero adoran a sus hijos”, dice Jawanza Kunjufu, escritor y conferencista sobre cómo educar a los niños negros. Hacen que sus hijas estudien, hagan tareas del hogar y vayan a la iglesia, dice, pero no es igual con sus hijos.
La diferencia se refleja en los datos: las chicas estadounidenses de entre 10 y 17 años pasan dos horas más a la semana en quehaceres que los chicos, y es 15 por ciento más probable que se les pague a los varones por hacerlos, de acuerdo con un estudio de la Universidad de Michigan.
“Enseñemos a nuestros hijos a cocinar, limpiar y cuidarse: a ser igual de competentes en la casa que como esperamos que lo sean nuestras hijas en una oficina”, dice Anne-Marie Slaughter, presidenta de New America, una organización de investigación y estrategia.
Enséñale a cuidar a otros
Las mujeres todavía son quienes cuidan más a otros —los niños y los ancianos— y se encargan de las tareas de la casa, aunque ambos padres trabajen de tiempo completo, según demuestran los datos. Los empleos de cuidador son los que están creciendo más rápido, así que hay que enseñar a los niños a cuidar de otros.
Háblales de cómo los hombres pueden equilibrar el trabajo y la familia, y cómo se espera que no solo las hijas, sino también los hijos, cuiden a sus padres y otros familiares cuando sean ancianos, dice Slaughter.
Pídele ayuda a tu hijo para hacerle sopa a un amigo enfermo o para visitar a un pariente hospitalizado. Hazlo responsable de cuidar a las mascotas y hermanos menores. Anímalo a cuidar niños, a ser entrenador o tutor. Hay un programa que lleva bebés a salones de primaria y se ha descubierto que eso aumenta la empatía y disminuye las agresiones.
Comparte el trabajo

Cuando sea posible, oponte a los roles de género en los quehaceres domésticos y el cuidado de los niños entre papá y mamá. Los actos dicen más que mil palabras, afirma Dan Clawson, sociólogo de la Universidad de Massachusetts en Amherst: “Si la mamá cocina y limpia la casa, y el papá corta el césped y sale de la casa a menudo, eso se aprende”.

También compartan el ganarse el pan. Un estudio muestra que es más probable que los hombres criados por mujeres que trabajaron por lo menos un año cuando sus hijos eran adolescentes se casen con mujeres que trabajaban. Otro encontró que los hijos de mujeres que trabajan durante cualquier periodo de tiempo antes de que ellos cumplan 14 años pasan más tiempo haciendo tareas del hogar y cuidando a los hijos cuando son adultos. “Los hombres criados por mujeres empleadas son significativamente más igualitarios en sus actitudes respecto del género”, dice Kathleen McGinn, profesora de la Escuela de Negocios de Harvard.

Aliéntalo a que tenga amigas

Una investigación de la Universidad Estatal de Arizona encontró que hacia el final del preescolar los niños comienzan a separarse según su género, y esto refuerza los estereotipos. Sin embargo, los niños a quienes se alienta a jugar con amigos del sexo opuesto aprenden a comunicarse y solucionar problemas de mejor manera.

“Cuanto más obvio es que el género se usa para categorizar a grupos o actividades, más probable es que se refuercen los sesgos y estereotipos de género”, afirma Richard Fabes, director de la Facultad Sanford de esa universidad de Arizona, donde se investiga sobre el género y la educación.

Organiza fiestas de cumpleaños y equipos de deportes mixtos cuando los niños son pequeños, para que no crean que es aceptable excluir a un grupo con base en el género, dice Christia Brown, una psicóloga del desarrollo de la Universidad de Kentucky.

Asimismo, intenta evitar las diferencias verbales: un estudio halló que cuando los maestros de preescolar decían “niños y niñas” en lugar de “niños”, los alumnos tenían más creencias estereotípicas sobre los roles de las mujeres y los hombres, y pasaban menos tiempo jugando unos con otras.
También es menos probable que los niños con amigas consideren a las mujeres como solo conquistas sexuales, señaló Porter.
Enséñales que ‘No es no’

Otras formas de enseñar respeto y mutuo acuerdo: pide a los niños que pregunten antes de tocar el cuerpo de otro desde que estén en el jardín de niños. También enséñales el poder de la palabra no: deja de hacerles cosquillas o jugar luchitas cuando la pronuncien.

Ofrece un modelo de resolución de problemas en casa. La exposición de los niños al divorcio o el abuso se ha asociado con una deficiente resolución de conflictos en relaciones románticas futuras, señaló W. Bradford Wilcox, sociólogo y director del National Marriage Project, de la Universidad de Virginia.
Pronúnciate cuando alguien sea intolerante

Di algo cuando veas burlas o acoso, y practica juegos de roles con tus niños para que puedan intervenir si los presencian, dijo Brown.
También señala cuando se estén comportando de manera inapropiada. “Son niños” no es una excusa para una mala conducta. Espera más de ellos. “Pon atención en reorientar una conducta que sea denigrante, intolerante, irrespetuosa o grosera”, recomienda King.

Nunca uses la palabra ‘Niña’ como insulto
No digas, ni dejes que tu hijo diga, que alguien lanza la pelota o corre como niña, ni uses “mariquita” o alguno de sus sinónimos más ofensivos. Lo mismo vale para las bromas sexistas.

Credit Agnes Lee
Ten cuidado con usos de la lengua más sutiles. La investigación de Emily Kane, socióloga del Bates College, muestra que los padres inculcan los roles de género tradicionales en los hijos principalmente porque temen que se conviertan en objetos de burla de otro modo.
“Todos podemos ayudar evitando los juicios, así como los pequeños y ordinarios prejuicios sobre lo que un niño disfrutará o hará bien con base en su género”, señaló. Los niños de quienes se burlan pueden decir: “No es cierto, cualquiera puede jugar con collares”, o “No soy niña, pero ¿crees que realmente son peores que los niños?”, dijo Lise Eliot, especialista en Neurociencias de la Universidad Rosalind Franklin.
Léele mucho, en especial historias sobre mujeres y niñas
Quizá hayas escuchado que los niños son muy buenos en ciencias y matemáticas, y las niñas en lenguaje y lectura: los estereotipos pueden convertirse en realidad.
Las mamás hablan más con sus hijas que con sus hijos, de acuerdo con un análisis hecho por Leaper a partir de varios estudios. Combate el estereotipo hablándoles a los niños, leyéndoles y animándolos a leer.
Lean sobre una gran variedad de personas e historias que rompan el molde, no solo las que tratan de niños que salvan al mundo y niñas que necesitan ser salvadas. Cuando un libro o una noticia siga ese molde, habla al respecto: ¿Por qué la mamá de este cuento siempre trae abrigo y casi nunca sale de la casa? ¿Por qué esta fotografía de las noticias solo muestra a hombres blancos?
“Eso debería comenzar a los tres años, cuando realmente pescan los estereotipos y se dan cuenta de ellos”, dijo Brown. “Si no los ayudas a etiquetarlos como estereotipos, asumen que así son las cosas”.
Celebra el que sea niño
Criar a un niño de esta forma no se trata solo de decirle qué no debe hacer ni de borrar por completo las diferencias de género. Por ejemplo, todos los mamíferos machos participan en juegos bruscos, indicó Eliot.
Así que jueguen a las luchitas, hagan bromas, vean deportes, trepen árboles, hagan fogatas.
Enséñale a los niños a mostrar fuerza: la fortaleza de reconocer sus emociones. Enséñales a ser proveedores para su familia: brindándole cuidados. Enséñales a ser rudos: lo suficiente para oponerse a la intolerancia. Hazlos sentir seguros: para que persigan cualquier cosa que los apasione.

El FMLN tiene 3 ases en la mano

El FMLN tiene 3 ases en la mano

El problema de ese modelo y de esa política es que solo favorecen a una pequeña élite económica, y solo golpean a los sectores medios y pobres.
06 DE JUNIO DE 2017 23:32 | por Geovani Galeas

Es verdad que el FMLN está muy lejos de su mejor momento, pero aun así tiene en su mano al menos tres cartas que pueden definir a su favor las dos próximas contiendas electorales. Para explicar esta afirmación es necesario considerar el contexto en que se despliega la actual coyuntura política.

En sus ocho años de gobierno, el FMLN ha fortalecido considerablemente el rol subsidiario del Estado, mediante una serie de programas sociales que benefician de manera directa a la población. Sin embargo, al mismo tiempo, no ha podido cambiar en lo sustantivo el modelo económico y la política fiscal que ARENA impuso al país desde 1989.

El problema de ese modelo y de esa política es que solo favorecen a una pequeña élite económica, y solo golpean a los sectores medios y pobres. Por un lado la famosa y evidentemente fallida teoría del rebalse (concentrar arriba la riqueza para que luego derrame beneficios hacia abajo); y por el otro lado una estructura tributaria regresiva, en la que el que tiene más paga menos y el que tiene menos paga más.

He dicho que el FMLN no ha podido cambiar eso, no que no ha querido cambiarlo, y ese desajuste se debe a que la política real no es el espacio de lo deseable sino de lo posible. En ese plano las buenas intenciones son irrelevantes frente al problema concreto de la correlación de fuerzas. Es decir que un programa de cambio político, en sentido progresista, como el ofertado por el FMLN,solo es viable si se cuenta con el respaldo de una clara mayoría social convertida en mayoría política que, a su vez, se traduzca en una aritmética legislativa favorable.

Y este no ha sido el caso

Las dos administraciones de izquierda han estado en minoría legislativa respecto a la derecha en su conjunto. Por lo tanto, para lograr algún margen siquiera precario de gobernabilidad se han visto obligadas a pactar con parte de esa derecha, y ya se sabe que sin concesiones no hay pacto posible. A esto hay que agregar el agravante de que ahora la llave de la mayoría calificada está en manos de ARENA, cuya única estrategia es el bloqueo de las iniciativas gubernamentales más decisivas.

En todo caso, y por un efecto de acumulación, es esta concreta correlación de fuerza lo que ha determinado que el FMLN aparezca ante la ciudadanía no como el dinamizador del cambio progresista, sino como el simple administrador de una crisis heredada por los gobiernos areneros.

El factor clave de esta circunstancia es el siguiente: ¿quién debe pagar el costo de la crisis? De la respuesta que se le dé a esta interrogante dependerá el desenlace de la actual coyuntura política. Y solo hay dos alternativas: seguir castigando a los sectores medios y pobres por la vía recorte de inversión social y del aumento de los impuestos regresivos, o corregir en sentido progresista las distorsiones estructurales de un modelo económico y de una política fiscal resultantes del proyecto neoliberal.

Si el FMLN no cede en lo primero, y al mismo tiempo da la batalla abierta y transparente por lo segundo, colocará de su lado a la mayoría social al asumir de modo claro la representación de sus intereses. Y si eso fuera así, como se afirma al principio de esta columna, las tres cartas ganadoras que el FMLN tiene en su mano podrían definir efectivamente a su favor las próximas contiendas electorales. Esos tres ases son los siguientes:

Uno. ARENA es un partido disperso dominado por sus dueños, y administrado por los delegados corporativos de esos mismos financistas. En consecuencia, el programa político de ARENA es inviable, por cuanto solo representa los intereses minoritarios y elitistas del gran capital. No es casual que los dos precandidatos presidenciales que ya se perfilan en ese partido, sean al mismo tiempo sus mayores financistas.

Dos. Aunque divorciado coyunturalmente de una parte considerable del movimiento social, el FMLN mantiene intactas la disciplina y la cohesión de su aparato partidario. La autoridad de su jefatura política no está en cuestión. Por otra parte, su programa político está ligado históricamente a los intereses de la mayoría popular y, por lo tanto, puede muy bien restaurar la relación con esa parte desafecta del movimiento social, bajo el sabio principio de que todo problema político tiene una solución política.

Tres. El FMLN tiene entre sus filas al líder político de relevo con más respaldo social y proyección política según lo demuestran de manera reiterada las encuestas sin ninguna excepción: Nayib Bukele. Ya lo hemos dicho, en términos de lenguaje popular esto equivale a que un equipo de futbol tenga en su plantilla a Leo Messi en las vísperas de una final.

La combinación estratégica de estos tres factores, en el contexto general antes descrito, supone sin duda una sinergia extraordinaria. Pero, claro está, en toda partida el éxito depende de la manera en que cada jugador administre las cartas que tiene en su mano.

El nuevo desorden mundial (2015)

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Michael Ignatieff
12 Enero 2015
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Cuando los cuerpos y las pertenencias de 298 personas cayeron del cielo el 17 de julio de 2014 y permanecieron dispersos y sin consagrar en los campos del este de Ucrania, la claridad pareció seguir en el silencio. Recordé los versos de “De inmediato enmendado”, el poema de John Ashbery:

no dejó de sorprendernos que, casi veinticinco años

[más tarde,

la claridad de estas reglas comenzara a revelarse

[por vez primera.

Ellos eran los jugadores, y nosotros, que tanto luchamos

[durante el juego,

éramos simples espectadores

(Versión de Marcelo Uribe y David Huerta.)

Poco importa ya si la acusación contra el presidente Putin es por incitar directamente a quienes derribaron el avión o por la imprudencia temeraria de haberlos abastecido de armamento. Al reafirmar su apoyo a la secesión, Putin ha tomado una decisión, y depende de los líderes de Occidente tomar las suyas. Poco importa ya si Occidente atrajo a esta nueva Rusia al expandir agresivamente a las fuerzas de la otan hasta su frontera. Ahora lo que importa es ser muy claro a fin de que las responsabilidades políticas recaigan adonde deben hacerlo, las acciones tengan consecuencias, los aliados vulnerables que están en la frontera con Rusia reciban garantías de seguridad y estas garantías resulten creíbles.

También importa comprender, sin hacerse ilusiones pero también sin alarmarse, el nuevo mundo al que nos han arrojado la anexión de Crimea y el derribo del vuelo mh17.

El horror en Ucrania no es la única sorpresa que trae claridad a su paso. Con la proclamación de un califato terrorista en las regiones fronterizas de Siria e Iraq, la disolución de la configuración de Estados que establecieron Mark Sykes y François Georges-Picot en su tratado de 1916 se dirige a un feroz desenlace. El autoproclamado Estado Islámico es algo nuevo bajo el sol: terroristas-extremistas con tanques, pozos petroleros, territorios propios y una habilidad escalofriante para dar publicidad a las atrocidades. El poder aéreo es capaz de detener su avance pero no de derrotarlos, y las fuerzas terrestres con que cuenta Estados Unidos –los peshmergas kurdos– van a tener más que suficiente con defender su patria. En Siria, Assad ha entregado las provincias del desierto al Estado Islámico. En cuanto a los iraquíes, los chiíes defenderán sus lugares sagrados en el sur, pero no pueden retomar Mosul, al norte.

Si, como parece probable, el califato resiste, en la región no habrá ningún Estado seguro. Israel puede, una vez más, “cortar el pasto” en Gaza, pero bombardear civiles no le asegura un futuro pacífico. Hasta que palestinos e israelíes reconozcan que hay un enemigo al que deben temer más de lo que se temen entre sí –la absoluta desintegración del orden mismo– no habrá paz en su región.

En el este asiático, las fuerzas navales de China y Japón se vigilan mutuamente, plataformas petroleras chinas perforan en aguas que están en disputa y, entre las capitales asiáticas, vuelan acusaciones beligerantes. China no habla ya el idioma del “ascenso silencioso”. La musculosa política exterior de Xi Jinping causa alarma en Vietnam, Corea del Sur, Japón, Taiwán, Filipinas y Estados Unidos.

Intuimos que todos estos elementos de discordia se relacionan, pero resultaría simplista afirmar que el elemento común es la incapacidad de Barack Obama para dominar la conmoción de la época que vivimos. Eso sería asumir que una administración estadounidense más sabia habría sido capaz de mantener la unidad de las placas tectónicas de un orden mundial que la ascendente presión volcánica del odio y la violencia está separando.

El derribo del vuelo mh17 y el surgimiento del califato nos hacen repensar qué era lo que mantenía unidos esos dos patrones. Hasta que se desvaneció la esperanza de la Primavera Árabe, las clases medias moderadas y globalizadas de la región creían tener el poder para marginar a las fuerzas de la furia sectaria. Debemos haber imaginado que con internet, los viajes aéreos globales, Gucci en Shanghái y bmw en Moscú, el mundo se volvía uno. Caímos víctimas de la ilusión que acarició la generación de 1914: que la economía tendría más fuerza que la política y que el comercio global limaría las rivalidades imperialistas.

Esa impresión se tenía al inicio. En la fase de globalización, que comenzó después de 1989, Rusia abasteció de gas a Alemania; Alemania abasteció a Rusia de bienes manufacturados e industriales medulares; China adquirió la deuda del Tesoro de Estados Unidos y Apple manufacturó sus gadgets en China. Pensamos que, al menos por un tiempo, con la llegada de internet, una herramienta global de información compartida consignaría la arraigada hostilidad ideológica de la Guerra Fría a la historia.

En realidad, la tercera fase de globalización no creó más convergencia política de la que destruyó la primera fase en 1914 o la segunda que llegó a su fin en 1989. Resultó que el capitalismo es promiscuo en lo político. En vez de contraer matrimonio con la libertad, el capitalismo estaba igualmente feliz metiéndose a la cama con el autoritarismo. De hecho la integración económica agudizó el conflicto entre las sociedades abiertas y las cerradas. Desde la frontera de Polonia hasta el Pacífico, desde el Círculo Ártico hasta la frontera con Afganistán, comenzó a formarse un nuevo competidor político de la democracia liberal: autoritario en su forma política, capitalista en su economía y nacionalista en su ideología. Lawrence Summers ha llamado a este nuevo régimen “mercantilismo autoritario”. La expresión sugiere el papel central del Estado y de las empresas estatales en las economías rusa y china, pero resta énfasis al crudo elemento del amiguismo, fundamental para los gobiernos de Pekín y Moscú.

Gracias a la globalización misma, el capitalismo autoritario –permítanme llamarlo así– se ha convertido en la principal competencia de la democracia liberal. Sin acceso a los mercados globales, ni Rusia ni China habrían sido capaces de deshacerse de una economía estilo comunista mientras se aferran a una política que sí lo es.

Las economías rusa y china están abiertas a las presiones competitivas de los sistemas de precios globales, pero la distribución de la recompensa económica –quién se enriquece y quién queda sumido en la pobreza– todavía la determina, en gran medida, el aparato estatal centralizado que está en manos del presidente y sus camaradas. Rusia y China son oligarquías “extractivas”: a excepción de unos cuantos miembros de un grupo, los ciudadanos no tienen acceso a los frutos del poder económico y político. En ambas sociedades, el Estado de derecho y el sistema judicial independiente solo existen en el papel. Tanto los oligarcas como los disidentes saben que si montan cualquier ofensiva política contra el régimen se usará la ley para aplastarlos.

Los expertos occidentales no dejan de insistir en que los chinos y los rusos son aliados, no rivales. Es cierto que, cuando ambos países eran comunistas, llegaron a los golpes en una fecha tan reciente como 1969. Aun hoy, más que una convicción, el suyo es un “eje de conveniencia”. Stephen Kotkin ha señalado que el intercambio comercial entre ellos es mucho menor que el que tienen con Occidente. Pero los dos países han descubierto una verdad que los mantendrá unidos aún con más fuerza en el futuro: han aprendido que la libertad de mercado capitalista es lo que permite a sus oligarquías conservar el control político. Entre más libertades privadas les permitan a sus ciudadanos, menos demandarán libertades públicas. La libertad privada –vender y comprar, heredar, viajar, la posibilidad de quejarse en la intimidad– mantiene el descontento a raya. Más aún, la libertad privada permite crecimiento, algo imposible bajo control del Estado.

Ahora, a la luz de lo ocurrido con el vuelo mh17 y del conflicto en Crimea, los “autoritarios internacionales” enfrentan una disyuntiva: dejar de desafiar a Occidente o arriesgarse a fracturar la globalización misma.

En la espiral descendente de ira y recriminaciones por Ucrania, cada una de las facciones del conflicto busca reducir el grado en que se expone económicamente al otro. Putin ha prohibido las importaciones agrícolas provenientes de los países que le han aplicado sanciones, amenaza con cerrar el espacio aéreo siberiano a las aerolíneas occidentales y quiere reducir la importación de maquinaria alemana y de tecnología de defensa occidental.

De pronto reaparecen en la agenda rusa la sustitución de las importaciones y la autarquía, dos ideas que llevaron al mundo comunista a un callejón sin salida económico. A la vez, los alemanes quieren reducir su dependencia del gas ruso y los chinos su dependencia del petróleo que proviene de la volátil zona del Medio Oriente. En la nueva atmósfera de paranoia mutua, los Estados no quieren comprar hardware o software que provenga del otro lado por miedo a que sus sistemas de defensa y de inteligencia queden expuestos a una filtración. En esta carrera por la seguridad, los aliados solo quieren hacer negocios con aliados. Los estadounidenses y los europeos seguramente tratarán de acelerar un amplio pacto de libre comercio entre ellos para reducir su dependencia de los nuevos autoritarios.

A la vez, ninguna de las partes quiere volver a la Guerra Fría, en especial los rusos y los chinos, que necesitan la globalización para hacer crecer sus economías y para contener el descontento doméstico. Por el momento, el flujo de importaciones y exportaciones que realmente se ven afectadas por las sanciones sigue siendo mínimo, en comparación con los gigantescos volúmenes del comercio global. Sin embargo, tanto para los líderes de Oriente como para los de Occidente, existe la tentación de impulsar a sus economías hacia atrás, hacia la autarquía, en nombre de la autoconfianza, a medida que descubren hasta qué grado su margen de maniobra política está constreñido por su dependencia económica con el otro bando. Ninguno de estos líderes quiere destruir la globalización, pero quizá ninguno de ellos pueda controlar en su totalidad el retroceso hacia un pasado autárquico.

La autarquía ya gobierna el mundo virtual de la información. En una era que supuestamente debía traernos una información global común, basada en un internet sin fronteras, resulta increíble lo autárquicos que se han vuelto los sistemas de información de cada uno de los bandos. Hace mucho tiempo que China impuso un control soberano sobre su internet, y policías espían y patrullan las fronteras de la “Great Firewall” para asegurarse de que los refunfuños del chat jamás se eleven al nivel de una amenaza contra el régimen. El Kremlin ha envuelto a su pueblo en una burbuja propagandística tan efectiva que, como dijo Angela Merkel hace poco, hasta el mismo Vladimir Putin está encerrado “en su propio mundo”.

A medida que Rusia y China reducen su grado de exposición económica con el otro y crean universos paralelos pero cerrados de información, los nuevos autoritarios están recurriendo a los mercados y a las reservas energéticas de uno y otro. En un encuentro reciente, Putin y Xi Jinping firmaron un acuerdo energético y de infraestructura a largo plazo que selló una alianza estratégica de tres décadas. Sus viejas disputas fronterizas han estado suspendidas desde el acuerdo que suscribieron en 2005. Después de haber descuidado su lejano oriente durante mucho tiempo, ahora Rusia acepta la hegemonía de los chinos en la región del Pacífico. Lo que hace que esta alianza autoritaria sea estable –aunque carezca de amor– es que China desempeña el papel de la pareja dominante mientras que Putin se encarga de los gemidos ideológicos.

Lo que Putin deja asentado, con una claridad ponzoñosa, desde luego, es su resentimiento hacia el “Leviatán liberal”, Estados Unidos y su red global de alianzas envolventes. En esto, tiene a un socio dispuesto en China. Mientras que para Occidente Crimea y el vuelo mh17 marcaron el momento en que se desmoronó el orden internacional posterior a 1989, para los rusos y los chinos la fractura ocurrió quince años atrás, cuando los aviones de la otan bombardearon Belgrado y alcanzaron a la embajada china. Ese momento unió a los autoritarismos chino y ruso en el panorama mundial. El precedente de Kosovo –la secesión unilateral de una gran potencia, orquestada sin el consentimiento de Naciones Unidas– dio a Putin el pretexto para actuar en Crimea, con la cautelosa aprobación de Pekín.

En los días por venir, no hay duda de que los autoritarios usarán sus asientos en el Consejo de Seguridad para defender al dictador sirio y obstaculizar la intervención humanitaria multilateral en cualquier sitio donde sus intereses estén directamente involucrados. Ambos países han sido los principales beneficiarios estratégicos de los reveses estadounidenses en Levante y, si con certeza podemos predecir más caos y violencia en Medio Oriente, será porque a ambos les conviene permanecer ahí desempeñando su papel de saboteadores, dejando que Estados Unidos cargue con toda la culpa de que la configuración estatal se haya fragmentado, desde Trípoli hasta Bagdad.

Ahora las preguntas fundamentales son si los nuevos autoritarios tienen estabilidad y si son expansionistas. Las oligarquías autoritarias pueden tomar decisiones rápidamente, en tanto que en las sociedades democráticas es necesario luchar para vencer a la oposición, a la prensa libre y a la opinión pública. También pueden canalizar sin contratiempos emociones nacionalistas a través de aventuras militares en el extranjero. Después de la toma de Crimea, los vecinos de China en Asia deben estar preguntándose en qué momento el régimen de Pekín empezará a usar la “protección” de los chinos como excusa para entrometerse en sus asuntos internos.

Sin embargo, las oligarquías autoritarias también son frágiles. Deben controlarlo todo o pueden perder el control de todo. Bajo los gobiernos de Stalin y de Mao la aspiración cada vez mayor que la gente tenía de ser escuchada fue aplastada mediante la fuerza. Bajo el capitalismo autoritario tiene que permitirse cierto grado de libertad privada. Pero, a medida que crecen sus clases medias, también lo hacen sus demandas por expresar su voz política y ese tipo de exigencias pueden resultar desestabilizadoras. La desestabilización de China llegó en 1989 en la Plaza de Tiananmén. A fines de 2011 y 2012 manifestaciones masivas en Moscú retaron al régimen ruso. Ambos regímenes sobrevivieron reprimiendo severamente el descontento doméstico, proscribiendo la ayuda externa a las organizaciones internas de derechos humanos y llevando a cabo aventuras militares en el extranjero, diseñadas para distraer a la clase media con causas nacionalistas unificadoras.

La nueva agresividad de China en Asia está impulsada por muchos factores, incluida la necesidad de hallar suministros energéticos fuera de sus costas, pero también por un deseo de reanimar a su ascendente clase media en torno a lo que Xi Jinping denomina el “sueño chino”: una visión estratégica en la que China desplaza a los estadounidenses como hegemonía regional en Asia.

La administración del presidente Obama se ha vuelto hacia la región asiática para enfrentar el desafío chino, pero menospreció a los rusos hasta los sucesos de Crimea. Dio por hecho que Putin estaba a la cabeza de una sociedad decrépita, deteriorada demográfica y económicamente. Fue ilusorio pensar así. La abundancia de recursos naturales de Rusia da a Putin una fuente de ingresos estatales, mientras que la libertad privada funciona como una válvula de seguridad que permite al régimen contener el descontento democrático. Los nuevos autoritarios se encuentran estables, y resulta complaciente suponer que se encaminan al colapso bajo el peso de la contradicción que existe entre libertad privada y tiranía pública. Hasta ahora han manejado esta incompatibilidad con suficiente pericia como para brindar poder a sus gobernantes y riqueza a su pueblo.

Los nuevos autoritarios tampoco carecen de “poder suave”. Su modelo es atractivo para las élites corruptas y extractivas de todas partes, incluso en Europa oriental, donde el disidente húngaro convertido en populista autoritario Viktor Orbán eligió la semana posterior al derribo del vuelo mh17 para proclamar su visión de Hungría como una “democracia iliberal”.

Los nuevos autoritarios tampoco carecen de una aparente legitimidad. El Partido Comunista chino se vende a sí mismo como una meritocracia, y con cada pacífica renovación de su cúpula dirigente se fortalece este principio de legitimidad. La de Putin es más incierta porque su oligarquía es todo menos meritocrática. Para construir el apoyo popular ha protegido a la Iglesia, ha fomentado una tóxica nostalgia por Stalin e incluso se ha presentado como el heredero del conservadurismo orgánico de la intelligentsia rusa del siglo XIX.

Por ejemplo, ordena a sus gobernadores regionales leer las obras de Ivan Ilyin, pero de seguro no los volúmenes en los que el conservador antibolchevique reivindicaba un país redimido por “la conciencia de la ley”. La camerata ideológica de Putin ha dado nueva vida a Konstantin Leontiev, otro eslavófilo conservador del siglo XIX, pero no al Leontiev que públicamente despreciaba la homofobia. En la China y la Rusia oficiales, la beligerancia contra la igualdad homosexual no es una característica accidental, sino algo imprescindible para la imagen que tienen de sí mismas como baluartes contra el decadente relativismo moral de Occidente.

Sin embargo, en particular los nuevos autoritarios hacen un llamado nacional, no universal, a la legitimidad. Mao pudo haber alentado a los maoístas desde Perú hasta París, pero el actual régimen revolucionario no tiene tales ambiciones y resulta poco probable que Putin proclame, como Stalin, que su país es una inspiración para todos aquellos que buscan emanciparse del yugo capitalista.

El constante reto de tener la casa en orden mantiene a raya las ambiciones globales de los gobernantes chinos. Saben que aún hay varios cientos de millones de campesinos pobres a los que es necesario integrar a la economía moderna. Pasarán décadas antes de que su renta per cápita se acerque a niveles occidentales. Putin sabe también lo miserablemente pobres que todavía son las regiones más alejadas de Rusia después de quince años bajo su gobierno. Como resultado, ni China ni Rusia están en posición de abandonar la integración económica mundial, ni pueden apostar más que a la hegemonía en sus respectivas regiones.

Aun así, todavía no hay respuesta para la pregunta por la manera en que Rusia y China definen sus regiones y sus esferas exclusivas de influencia. En particular, las acciones de Putin han hecho de este un asunto inaplazable. Como exagente de la kgb el momento de más oscuridad de Putin fue la quema de libros de claves soviéticos en la sede de la agencia en Dresde, en noviembre de 1989. Seguramente debe sentir nostalgia por el terror que el Estado soviético era capaz de infundir en sus enemigos, tanto en el interior como en el extranjero. Putin es un sibarita del miedo, pero cualquier auténtico maestro del arte del terror debe saber hasta dónde puede llegar. Aparentemente, Putin comprende los límites de sus capacidades intimidatorias.

A pesar de su discurso de “proteger” a los rusoparlantes en el “extranjero cercano”, parece poco probable que Rusia intervenga en alguno de los Estados bálticos, siempre y cuando el artículo 5 de la otan sobre la garantía de seguridad no pierda credibilidad. Putin estará satisfecho con mantener a los pueblos bálticos en el qui vive, obligándolos a respetar los derechos de las minorías rusas y a gastar en defensa más de lo que les gustaría. Tampoco tocará a Polonia, la República Checa, Rumania, Bulgaria o los Estados balcánicos. Putin acepta que ellos han abandonado su órbita, aunque su servicio secreto hará todo lo posible para desestabilizar la política de esos países.

Sin embargo, Georgia y Ucrania están en la frontera con el mar Negro y esto hace que su posición sea de vital interés nacional para Rusia. Si cualquiera de los dos cediera a la otan el derecho a tener una base en el mar Negro, eso tendría un efecto en el acceso de Rusia hacia el Mediterráneo, a través de los estrechos de Turquía y, por lo tanto, limitaría el papel ruso como potencia en Medio Oriente. Estas preocupaciones estratégicas serían totalmente reconocibles al conde Gorchákov o a cualquier diplomático zarista del siglo XIX. Igualmente tradicional –e igualmente ruso– ha sido que Putin estableciera relaciones privilegiadas con las cleptocracias musulmanas en su frontera sur. Desde tiempos zaristas, los corruptos gobernantes musulmanes han sido sus tributarios.

Puede que los objetivos estratégicos de Putin sean tradicionalmente rusos, pero es justamente esto lo que alarma a los nacionalistas ucranianos. Antes del derribo del vuelo mh17, antes de que redoblara su apoyo a la insurrección del este de Ucrania, era razonable suponer que sus metas estratégicas eran limitadas y creer que quería desestabilizar a Ucrania sin necesidad de hacerse cargo de sus múltiples problemas. También era razonable suponer que se sentía feliz de que Estados Unidos cargara con el peso de corregir la desplomada economía de Ucrania.

Tras el derribo del vuelo mh17, después de que las fuerzas ucranianas cercaran Donetsk y cortaran las líneas de abastecimiento que los insurgentes tenían con la misma Rusia, predecir el camino que tomará Putin se ha vuelto más complicado. ¿Redoblará esfuerzos una vez más para romper el cerco de los separatistas? ¿Intentará estabilizar un enclave ruso y congelarlo en el sitio, tal y como lo ha hecho con territorios-clientes dentro de Moldavia y Georgia? ¿O hará un recuento de sus pérdidas y entregará a los separatistas por el bien de una paz geoestratégica y una mayor integración global? Putin se ha arrinconado a sí mismo y, aunque buscar la paz parece razonable, no lo ha sido en lo que a Ucrania se refiere.

Tampoco está confrontado con fuerzas racionales. Ucrania no es un tablero de ajedrez, y los juegos geoestratégicos que se llevan a cabo allí siempre logran salirse del control de quienes los inician. Justo debajo de la superficie bullen emociones de fuerza volcánica, potenciadas por dos narrativas genocidas que compiten entre sí –una, rusa; la otra, ucraniana–, que se niegan a reconocer la verdad del otro. La narrativa rusa que presenta a los nacionalistas ucranianos como fascistas explora el hecho de que, efectivamente, muchos ucranianos dieron la bienvenida a los nazis durante la invasión de 1941 y algunos se convirtieron en colaboradores de los alemanes en el exterminio de sus vecinos judíos.

Según la narrativa ucraniana con la que compite, Putin busca imponer de nuevo el dominio soviético; el mismo dominio que tuvo como resultado la inanición forzada de millones de campesinos ucranianos entre 1931 y 1938. En las “tierras de sangre” de Ucrania, la memoria de aquella hambruna –llamada el Holodomor– confronta la memoria del Holocausto. No es que los provocadores –quienes explotan este pasado venenoso con el propósito de dividir– estén solo del lado ruso. Hay nacionalistas ucranianos armados y enardecidos a quienes nada les gustaría más que provocar al oso ruso. Se necesitaría apenas una chispa para que Ucrania quedara envuelta en llamas y los rusos intervinieran, esta vez, con toda su fuerza, a fin de “proteger” a las etnias rusas consolidando un Estado en el este, contiguo a la frontera rusa.

Una política occidental inteligente debe mantener este caldero por debajo del punto de ebullición ayudando a Ucrania a vencer la secesión lo antes posible. Una vez lograda la victoria militar, es posible conciliar, y solo entonces Occidente puede usar su influencia para someter a los extremistas ucranianos que buscan imponer una paz cartaginense. Los expertos occidentales en constituciones deberían ayudar a Ucrania a transferir poder a las regiones y a garantizar a los rusoparlantes un lugar de pleno derecho en el futuro político del país. A largo plazo, Europa debería darle a Ucrania un itinerario para acceder a la Unión Europea. Las instituciones financieras internacionales deberían emplear los préstamos condicionados para obligar a la corrupta élite política ucraniana a hacer una limpieza en casa. En 1994, cuando Ucrania entregó sus armas nucleares, Estados Unidos y Gran Bretaña se negaron a garantizar su seguridad. Ahora, tras las amenazas a la soberanía ucraniana, la otan sencillamente tendrá que hacerlo. La finlandización –neutralidad para Ucrania– no es una alternativa con la que se pueda trabajar mientras Crimea permanezca anexionada y continúe el riesgo de un nuevo enclave ruso en Ucrania oriental.

En Europa y en Estados Unidos resultará difícil persuadir al público, atónito y profundamente temeroso de la guerra, de que acepte todo esto. Incorporar a Ucrania a la Unión Europea y protegerla a través de las fuerzas de la otan es decir “más Europa”, algo difícil de vender en una época en que tantos europeos quieren menos Europa. Muchos reformistas ucranianos y muchos líderes europeos consideran prematuro unirse a la otan.

Por reticentes que se muestren los europeos, permitir que Europa se divida en dos, mientras a las puertas de la frontera sureste languidecen naciones como Ucrania, es una receta para que estalle la guerra civil y se dé el expansionismo ruso. Hasta que ocurrió el derribo del vuelo mh17 resultaba imposible convencer al electorado de Europa occidental de que esto es así. A partir de lo sucedido con el vuelo mh17, se ha vuelto más fácil.

El reto más difícil consiste en imponer sanciones a los rusos sin lanzarlos a los brazos de los chinos. Mantener las líneas abiertas para estos dos autoritarios, mientras se obliga a uno a pagar el precio por el derribo del vuelo mh17 y por Crimea, requiere de un criterio sofisticado. Esto es más que un mero ejercicio de compensación de señales a los competidores autoritarios. Lo que está en juego en esta calibración de sanciones es la dirección que tomará la globalización en el futuro, tanto si la economía mundial se inclina hacia una mayor apertura como si lo hace en dirección a la autarquía.

Es necesario diseñar una política para no volver a caer en la autarquía, sobre todo en medio de un clima de furia y recriminación. Una economía internacional abierta –en la que los mercados de capitales no estén politizados, y en la que pueblos libres comercien con los que no lo son– ha sido, en general, algo bueno para todos, aun cuando significa que los regímenes autoritarios son capaces de estabilizar un orden extractivo y predador.

Si la globalización ha sido algo bueno para la democracia liberal y para el capitalismo autoritario, es importante no ahondar la separación que existe entre ellos y orillarlos hacia un abismo infranqueable. Hay quienes sentirán que es refrescante odiar a Putin y gente de su calaña, pero esa es una guía muy pobre para establecer una política. El único orden global que tiene alguna oportunidad de mantener la paz es un orden pluralista que acepte que existen sociedades abiertas y sociedades cerradas; algunas libres y otras autoritarias. Un orden pluralista es aquel en que vivimos con líderes que apenas podemos tolerar y sociedades cuyos principios tenemos buenas razones para despreciar.

Podemos y debemos contener a los nuevos autoritarios, pero hace falta recordar que la doctrina de contención de George Kennan no buscaba derribar los regímenes autoritarios de su tiempo ni tampoco convertirlos a la democracia liberal. Más bien, su doctrina pretendía evitar la guerra en un mundo pluralista y darle a la democracia liberal el tiempo necesario para crecer y prosperar en una competencia pacífica con el otro bando. Quienes hacen un llamado para que exista un frente ideológico unido, un credo liberal combatiente, harían bien en recordar lo que respondió Isaiah Berlin cuando se le pidió un credo entusiasta para los liberales de la Guerra Fría:

En verdad no creo que la respuesta al comunismo sea una fe contraria, de igual fervor y militancia, etcétera, porque hay que luchar contra el demonio con las mismas armas que el demonio. Para empezar, nada es más propenso a la creación de una “fe” que reiterar constantemente que la buscamos, que debemos encontrarla, que estamos perdidos sin ella, etcétera.

Durante la Guerra Fría la autodramatización ideológica llevó a Estados Unidos al macarthismo y al aventurismo militar en el extranjero, desde Vietnam hasta Nicaragua. Además, no es nada convincente involucrarse en una batalla ideológica en el extranjero a favor de la democracia liberal, cuando resulta tan evidente que primero se necesita renovarla en casa.

El poderío estadounidense no ha perdido su arrolladora credibilidad, siempre y cuando se use en pequeñas cantidades, con perspicacia y cuidado. El verdadero problema es la disfunción democrática que existe en casa: el impasse que se ha extendido a lo largo de toda una generación entre el Congreso y el Ejecutivo, lo polarizadora y poco realista que se ha vuelto la discusión política, el estrepitoso fracaso para controlar el denigrante poder que tiene el dinero en la política, mientras que la desigualdad es más flagrante que nunca. El resultado es el debilitamiento de los bienes públicos compartidos y una desilusión cada vez más grande con la democracia misma. Otras democracias enfrentan retos parecidos pero logran contrarrestar la influencia del dinero sobre la política y han podido lograr de nuevo un equilibrio de su sistema político para que el Ejecutivo y el Legislativo funcionen con efectividad. En la guerra de ideas con los nuevos autoritarios es bueno saber que hay una gran variedad de democracias liberales a la vista, una gran variedad de formas posibles de “llegar a Dinamarca”.

Sin embargo, la estadounidense sigue siendo la democracia cuya salud determina la credibilidad misma del modelo liberal capitalista. El medio siglo transcurrido desde la guerra de Vietnam no ha sido una época feliz para Estados Unidos, ni en lo doméstico ni en lo internacional, pero una serie de tenebrosas narrativas acerca del declive secular estadounidense, por mucho ahínco con el que los enemigos de Estados Unidos puedan absorberlas, parece hacer a un lado la histórica capacidad de los estadounidenses para renovarse institucionalmente: en la era progresista, el New Deal, la Nueva Frontera. Tampoco toma en cuenta los datos duros respecto a la posición dominante que tienen las compañías estadounidenses en las tecnologías que están moldeando el siglo XXI.

Si Vladimir Putin y Xi Jinping –e incluso el Estado Islámico– apuestan por el declive de Estados Unidos llevan todas las de perder. A la vez, no cabe duda de que Richard Haass, presidente del Consejo para Relaciones Exteriores, está en lo cierto cuando afirma que una política exterior capaz de enfrentar el doble reto del nuevo autoritarismo y del nuevo extremismo debe comenzar con un esfuerzo sostenido de construcción nacional.

De continuar la disfunción democrática, se corre el riesgo tanto de una parálisis interna como de un horrendo afán de aventuras militares en el exterior, en vista de que las administraciones estadounidenses –igual que sus rivales autoritarios– se vean tentadas a distraer el descontento doméstico con guerras en el extranjero. Después del vuelo mh17, Crimea, el sangriento califato que crece en las riberas del Tigris, y la creciente tensión en el mar de China, no necesitamos violentas aventuras en el extranjero y menos aún palabras que no estén sustentadas en acciones. Necesitamos una Europa y un Estados Unidos cuyos pueblos vuelvan a creer en sus propias instituciones y en sus reformas, y acepten la oportunidad de probar de nuevo que son capaces de sobrevivir a sus adversarios, tanto autoritarios como extremistas. ~

El análisis político de coyuntura

El análisis político de coyuntura En tomo a El dieciocho brumario de Luis Bonaparte
Miguel González Madrid
Presentación
En la primavera de 1992, la primera edición de El dieciocho brumario de Luis Bonaparte de Karl Marx habrá cumplido su CXL aniversario. Marx se había interesado por estudiar la coyuntura política francesa de 1848 a 1851, que tuvo como resultado el golpe de Estado de Luis Bonaparte, sobrino de Napoleón Bonaparte. Al aplicar en forma magistral su concepción materialista de la historia, que había esbozado en escritos como La ideología alemana, demuestra “cómo la lucha de clases creó en Francia las circunstancias y las condiciones que permitieron a un personaje mediocre y grotesco representar el papel de héroe”.
Sobre esa misma coyuntura, pero de 1848 a 1850, Marx había escrito una serie de artículos bajo el título común de De 1848 a 1849, para su publicación en la revista por él editada, La Nueva Gaceta Renana, en sus números 1,2 y 3. Un artículo más, que extendía el análisis a los acontecimientos de 1850, se publicó posteriormente en la revista. F. Engels se encargará, en 1895, de publicar en un solo folleto esa serie de artículos bajo el título de Las luchas de clases en Francia de 1848 a 1850.
Los artículos publicados en La Nueva Gaceta Renana seguramente sirvieron como borrador a Marx para escribir El dieciocho brumario de Luis Bonaparte, agregando otros materiales por él producidos en 1851.
El interés de Marx por estudiar esa coyuntura estaba asociado al curso que por entonces estaban tomando las revoluciones burguesas en Europa. Aunque entre 1843 y 1848 Marx había insistido en su propuesta de colocar al proletariado como la única clase verdaderamente “revolucionaria”, capaz de romper las cadenas de la dominación burguesa, en realidad las condiciones materiales de existencia del proletariado no habían madurado, solamente en Francia esta clase mostraba un grado más elevado de desarrollo político.
En condiciones materiales, políticas, históricas y nacionales, Marx encontraría poco a poco limitaciones a su concepción filosófica sobre la revolución proletaria. Por ello, Marx comprendió que este proyecto no podía erigirse sobre un acto de voluntarismo político, y que entonces hacía falta explicar y entender los fundamentos materiales de la dominación burguesa (cfr. El Capital).
Por muchos motivos El dieciocho brumario de Luis Bonaparte puede ser releído (o leído, por quienes no lo conocen) hoy en día, a la luz de acontecimientos mundiales que han hecho estremecer y derrumbarse estructuras de poder, formatos de representación, movimientos políticos, etc., tanto del lado del capitalismo como del socialismo “real”. No es nuestro objetivo presentar enseguida un estudio sobre estas cuestiones, sino abordar un aspecto de esa obra que, en cierto modo hasta ahora, no ha sido reconocido suficientemente en las ciencias sociales: el análisis político de coyuntura. Muy lejos está esa obra de pasar como un escrito más del marxismo. Y precisamente en esta etapa crucial, y no sólo por el CXL aniversario, es que El dieciocho brumario de Luis Bonaparte debe ser revalorado como una obra con una aportación específica a las ciencias sociales de nuestro tiempo.
Además de constituir una aportación teórica sobre la explicación de algunos de los elementos específicos del Estado capitalista, El dieciocho brumario de Luis Bonaparte (DB, en adelante), que Marx escribiera en 1852 siguiendo previamente los acontecimientos histórico-políticos de Francia, en la coyuntura de 1848 a 1851,(1) también es considerada como una obra que contribuye de manera implícita a la configuración del esquema de análisis político de coyuntura. Más particularmente, se encontraría ahí esbozado, a grandes rasgos, el método marxista de análisis político de coyuntura.
Marxistas como Lenin, Gramsci, Mao Tsetung y Poulantzas, posteriormente hicieron aportaciones relevantes en la definición de un método de análisis político, sin circunscribirse al solo ámbito de la explicación de coyuntura. Lenin, por ejemplo, en varios de sus escritos busca explicar el contexto histórico y político de la Rusia de su tiempo, apuntando por otra parte, hacia la búsqueda de las condiciones necesarias para efectuar la revolución proletaria.(2)
Gramsci, a su vez, llega a proponer algunos elementos para el “análisis de las situaciones, correlaciones de fuerza”, proporcionando además análisis políticos de coyuntura sobre el fascismo, de gran valor sobre todo por la percepción de la relación compleja y desigual del Estado con los intereses de las diversas fracciones de la burguesía fascista. y por la determinación de pautas en la lucha contra el fascismo.(3)
De Mao Tse tung se cuenta con algunos escritos que simplifican la idea de la multiplicidad de aspectos de la que él llama “ley de la contradicción”, como “ley fundamental de la dialéctica materialista”, aplicándola en su comprensión de los problemas del pueblo chino (los problemas de la cooperación agrícola, de los intelectuales, de la industrialización, de las minorías nacionales, etc.),(4) y admitiendo la particularidad nacional e histórica de éste.
Finalmente, Poulantzas elabora, en 1968, una serie de propuestas teóricas sobre el Estado capitalista, cuyo círculo lógico cierra con la diferenciación y relación “de las estructuras con el campo de las prácticas de clase, […y] la relación particular del Estado y de la coyuntura, que a su vez constituye el lugar donde se descifra [aquélla]”.(5) En 1975, Poulantzas publica una muestra de análisis coyuntural en torno de las dictaduras militares en España, Portugal y Grecia, concentrándose en el balance de la correlación de fuerzas que, en un primer momento, sustentaron esas dictaduras y, en un segundo momento, provocaron su crisis.(6)
El análisis de coyuntura y la construcción de la historia
Enrique de la Garza (7) sostiene que en el DB Marx presenta “el estudio de una coyuntura específica”, la de 1848-1851 en Francia, cuyo punto de partida lo constituye un acontecimiento histórico relevante (la caída de la monarquía de Luis Felipe, en febrero de 1848) y cuyo objetivo es la explicación del golpe de Estado del 2 de diciembre de 1851, efectuado por Luis Bonaparte de acuerdo con la lógica de los acontecimientos políticos significativos ocurridos y de la correlación de fuerzas manifestada en lo que Marx llama la “escena política”.
En el DB, Marx elabora una explicación “reconstructiva” de la realidad histórico-política francesa en una coyuntura determinada y “a partir del análisis de las correlaciones de fuerzas de la lucha de clases”,(8) que, si bien se manifiestan en el nivel propiamente político, constituyen en realidad una síntesis entre lo político y lo económico, entre la superestructura y la base económica.(9)
Al registrar la secuencia de los acontecimientos y determinar las transformaciones políticas, Marx establece una periodización histórica que le permite distinguir, para explicar estas transformaciones, los cambios en la correlación de fuerzas, la especificidad orgánica y los intereses de cada una de éstas, hasta arribar al cambio culminante: el golpe de Estado.
Aparte de la apreciación subjetiva que tenía acerca de Luis Bonaparte (“un personaje mediocre y grotesco”), Marx demuestra, en contraste con los puntos de vista de Víctor Hugo y de J. Proudhon sobre el mismo acontecimiento, “cómo la lucha de clases creó en Francia las circunstancias” para que el sobrino de Napoleón procediera a efectuar ese golpe de Estado.(10)
En el mismo sentido, Engels, en el prólogo a la tercera edición del DB, reconoce que Marx fue “el primero que descubrió la gran ley que rige la marcha de la historia”, “según la cual todas las luchas históricas [políticas, religiosas, filosóficas] no son, en realidad, más que la expresión más o menos clara de luchas entre clases sociales”, condicionados, “a su vez, por el grado de desarrollo de su situación económica”.
Como muestra de esta concepción de la historia, el propio Marx, en el segundo párrafo de su obra, adelanta la tesis que en 1845 había esgrimido contra Feuerbach y Hegel, acerca de que “los hombres hacen su propia historia, pero no la hacen a su libre arbitrio, bajo circunstancias elegidas por ellos mismos, sino bajo aquellas circunstancias con que se encuentran directamente, que existen y transmiten el pasado”: “He aquí -dice Engels en su prólogo-por qué Marx no sólo estudiaba con especial predilección la historia pasada de Francia, sino que seguía también en todos sus detalles la historia contemporánea”.
No obstante que Marx parece ocuparse fundamentalmente de un acontecimiento político, siguiendo los cambios en la correlación de fuerzas y la diversa y desigual presencia de éstas en la escena política y, en consecuencia, en la esfera del Estado, algunos estudiosos del DB coinciden en afirmar que en realidad la categoría de totalidad llega a constituirse en un concepto-guía, en un concepto-ordenador de la unidad de la multiplicidad histórica.
Aunque Nicos Poulantzas sustituye este concepto por el de “Todo social”,(12) proporciona una idea precisa del tipo de análisis político presente en el DB, al sostener que la coyuntura no sería sino la condensación de las contradicciones del todo social en un momento determinado de la historia con predominio de lo político.
La totalidad o el “todo social”, entonces, no sería el todo caótico, el concreto real a simple vista, sino más bien la condensación de las contradicciones del todo en un momento histórico determinado, pero cuya percepción sólo puede efectuarse como concreto de pensamiento en un proceso simultáneo al de la distinción de los sujetos-actores y de las circunstancias que, necesariamente, resulta de una concepción teórica y epistemológica de la realidad y, en consecuencia, de un cierto modo de devenir de los acontecimientos.
En este orden, el análisis político de coyuntura, como el que encontramos en el DB, constituiría un esfuerzo por explicar la realidad, al reconstruir su particularidad espacio-temporal, percibiéndola a partir de una determinada construcción teórica y epistemológica y descubriendo su lógica de funcionamiento y de transformación. Llevado hasta este punto, el análisis de coyuntura abre un abanico de posibilidades sucesivas de tránsito de la explicación fundada en la identificación de fuerzas relevantes, de contradicciones principales, de resultantes de un conjunto de fuerzas, etc., a la presentación de escenarios de la realidad ulterior inmediata, derivados del manejo de esquemas hipotéticos construidos con numerosas variables; lo mismo a la preferencia por un posible curso ulterior del presente, pero cuya configuración ideal no se asimilan a la imaginación utópica, aun considerando al extremo el papel de las clases subalternas como subversivo.
Desde ese punto de vista, por ejemplo, una vez efectuado el análisis del golpe de Estado, Marx se plantea (capítulo VII) algunas interrogantes: “¿por qué el proletariado de París no se levantó después del 2 de diciembre?”; y también algunas respuestas de tipo hipotético: “cualquier alzamiento serio del proletariado habría dado a [la burguesía] nuevos bríos”; o de tipo propositivo-mesiánico: el “proletariado urbano” “tiene por misión derrocar el orden burgués”.(13)
En consecuencia, Marx no parece culminar ese análisis en la indicación y explicación de “lo dado” (qué, cómo y por qué sucedió), sino que además propone el curso necesario de la correlación general histórica de la lucha de clases,”(14) lo que en otros enfoques teóricos y metodológicos aparece como la “posibilidad fundamental” del cambio de la realidad histórica.
Está implícita en la obra de Marx, incluyendo El Capital, una intencionalidad histórica de cambio, de transformación, un cierto proyecto de “trabajar por la humanidad”, como habría sugerido en su declaración de “fe de profesión”, o de hacer la revolución tal como llega a planteárselo con convicción desde la introducción (en 1844) a su Crítica de la filosofía del Estado de Hegel.
No obstante el nexo lógico en el análisis de coyuntura de Marx, entre la explicación reconstructiva y la explicación propositiva, entre la comprensión de una coyuntura específica y las posibilidades del curso ulterior de la historia, el primer aspecto no queda subordinado necesariamente al segundo. Es decir, que aun aceptando las premisas teóricas y epistemológicas, que sirven de soporte a ese tipo de análisis marxista, las conclusiones pueden variar de un investigador a otro dependiendo no sólo de la especificidad de su propia intencionalidad ético-política y del contexto histórico-político en que discurra, sino también de su propia individualidad teórica, situación que le orillará a elegir entre el arribar al terreno de los simples supuestos de comportamiento de la realidad (cómo pudo ser, en un extremo, o cómo podría ser, en otro extremo, esta realidad) o proseguir hacia el terreno del deber ser (lo deseable, lo utópico, etc.), pasando por escalonamientos intermedios representados, por un lado, en la delimitación de escenarios posibles tipificados, por igual, por la identificación de una tendencia histórico general ya en curso, y por el otro, en la ilustración de un cierto curso lógico de los acontecimientos históricos como expresión única de la necesidad de su propio devenir en un sentido típico (por ejemplo: al feudalismo sucede el capitalismo; y al capitalismo, el comunismo, con sus correspondientes etapas de transición).
La explicación propositiva de Marx se ubica en esos puntos intermedios. En sus escritos políticos y filosóficos se encuentra la idea recurrente del tránsito necesario de una etapa a otra de la historia, del acontecer necesario, etc., pero siempre en asociación con la incidencia de las luchas de un sujeto histórico colectivo: una clase, ya en un modo social de producción, ya en otro, que absorbe, que involucra a las otras a tener que actuar con un cierto sentido e intención política.
Aunque recientemente muchos intelectuales críticos del marxismo han sostenido que las proposiciones de Marx son utópicas, como lo podría “demostrar” el derrumbe de las sociedades que experimentaron el “socialismo real” en Europa del Este, en realidad ellos estarían otorgando poderes de demiurgo a la obra de Marx, como si éste, en una palabra, fuese el autor del curso ulterior de la historia, con un gran poder teleológico.
Marx, ciertamente, sostuvo una serie de proposiciones derivadas de sus análisis del capitalismo, en donde puso al descubierto ciertas leyes del movimiento lógico e histórico del mismo. La necesidad del devenir lógico de la historia se convirtió, sin embargo, en una obsesión atada a la potencialidad del trabajador asalariado como sujeto de rebelión-negación del capital, como supremo factor de subversión admitido por la propia burguesía en su afán por revolucionar sus propias condiciones de dominación. “En los periodos en que la lucha de clases se acerca a su desenlace dice Marx en el Manifiesto del Partido Comunista,”(15) a propósito del carácter “negativo” progresista de la clase asalariada, relevante más en algunas coyunturas que en otras, el proceso de desintegración de la clase dominante, de toda la vieja sociedad, adquiere un carácter tan violento y tan agudo que una pequeña fracción de esa clase reniega de ella y se adhiere a la clase revolucionaria, a la clase en cuyas manos está el porvenir”.
Ya desde la introducción a la Crítica de la filosofía del Estado de Hegel,(16) Marx concibe al proletariado como el corazón de la emancipación de Alemania (su cabeza: la filosofía)(17) y, en sus escritos posteriores, como la única fuerza capaz de revolucionar las relaciones sociales existentes. Sin embargo, como en el estudio de la coyuntura política francesa de 1848-1851, Marx va descubriendo que el proceso de subversión-revolución, para transformar el capitalismo, no es lineal por el contrario; la contrarrevolución siempre está más o menos presente, desde la exclusión de los representantes políticos del proletariado de las alianzas políticas hasta el golpe de Estado. En consecuencia, las revoluciones proletarias siempre habrían estado frenadas, debilitadas, o modificadas por factores contrarrestantes propios de las circunstancias del momento, por factores de acotamiento, expresados en última instancia en la fuerza de las armas.(18)
El curso necesario de la historia se vería así modificado por dos tipos de factores: uno de carácter subjetivo, por la “acción libre” del proletariado; y otro de carácter objetivo, por la acción de resistencia del Estado y de la burguesía al avance de aquella clase. Para el caso del DB, John F. Maguire, en su libro Marx y su teoría de la política,(19) señala “la duda de que Marx considere fatalmente predeterminado el resultado de los hechos políticos de 1848-1851 o, en caso contrario, en qué sentido lo considera necesario e inevitable”; e indica que en sus análisis Marx sostiene “que las cosas podrían desarrollarse de un modo o de otro de acuerdo con la elección, la determinación y el valor de las diversas partes involucradas”. (20) Este tipo de aseveraciones “implican que los individuos podrían actuar de diversas maneras posibles”, pero además que los individuos “debieran” actuar en una forma y no en otra.
Maguire percibe que Marx siempre tiende a utilizar un “lenguaje exhortador” antes y después del desenlace de los acontecimientos, que más bien lo coloca en el papel del observador frente a la exhibición de una serie de imágenes de celuloide. También sostiene que Marx llega a reconocer la inevitabilidad de los acontecimientos cuyo desenlace, en esta perspectiva, siempre tiene una explicación, pero que no excluye el que los individuos hubieran podido elegir y tomar decisiones diferentes. Más aún, agrega Maguire, se trata de una “inevitabilidad creada”, propiciada por la puesta en juego de intereses diversos de los individuos y de las clases.(21)
La inevitabilidad en cuestión “no es un proceso absolutamente insensible y unilineal”, sino que siempre es resultado del juego de pesos y contrapesos; “no es una necesidad totalmente flexible [sino sujeta a un cierto juego de luchas tendenciales], pero sí exige que demostremos cómo podrían haber actuado los grupos en forma significativamente diferente dada la situación precisa”,(22) concluye Maguire.
El determinismo de Marx estaría, así, atenuado por una serie de posibilidades de elección y de forma de decisiones para arribar a un punto previo. Como en el caso de la proposición engelsiana, en relación con las condiciones de lucha política en la Alemania de finales del siglo XIX,(23) la opción y la decisión de luchar por la vía legal, aprovechando el derecho de sufragio, no estaría fundada, según el propio Engels, sino en el cambio sustancial de las condiciones de lucha, pero sin excluir otras opciones de lucha.
En suma, la historia quedaría así, desde esta problemática, asimilada a una colina cuya cima estaría precedida por múltiples puntos de ascenso, cuya ubicación y pertinencia siempre dependerían de las circunstancias del momento (volveremos sobre esta cuestión precisa de las implicaciones de la relación entre la concepción global de la historia y la explicación de coyuntura).
La periodización histórica
Desde el punto de vista de la intencionalidad política, el análisis político de Marx arriba a una serie de conclusiones cuyo núcleo es la proposición de revolucionar las relaciones y las instituciones capitalistas. Desde el punto de vista teórico y metodológico, sin embargo, Marx no llega a esta proposición central de un modo genérico o idealista, sino según un fundamento histórico que él mismo se encarga de explicar, a partir de la percepción de las contradicciones y de las relaciones dominantes en la sociedad burguesa. Traza así un sentido lógico del despliegue de esta sociedad que, habiendo tenido como punto de partida un proceso de descomposición, de ruptura y de transformaciones del orden social preexistente, culminaría en la manifestación de bruscas luchas sociales, de cambios cíclicos o de rupturas revolucionarias.(24)
El cambio drástico ilustrado por el golpe de Estado del 2 de diciembre de 1851,(25) por ejemplo, no constituye sino la culminación de un despliegue histórico específico de la sociedad burguesa francesa entre 1848 y 1851. Pero se trata ahí de un despliegue de fuerzas caracterizado, en un primer momento, por la alianza de las clases significativas de esa sociedad o, mejor dicho, de sus representaciones políticas (”la oposición dinástica, la burguesía republicana, la pequeña burguesía democrático-republicana, el proletariado socialdemocrático”),(26) en contra de la monarquía de Luis Felipe, de la “dominación exclusiva de la aristocracia financiera”, de una “parte reducida de la burguesía”, es decir, en contra de una forma de Estado y de un régimen político monárquico de carácter excluyente, que no expresa ni las aspiraciones del proletariado ni las de la “totalidad” de la burguesía.
En un segundo momento, caracterizado por el desplazamiento de unas fuerzas por otras, del proletariado y de la pequeña burguesía por la burguesía dinástica (27) y por la burguesía republicana.(28) En un tercer momento, por la derrota política de la burguesía republicana y de la pequeña burguesía democrático-republicano.(29) Finalmente, en un cuarto momento, por la escisión interna del Partido del Orden de (la burguesía dinástica) y por el ascenso golpista de Luis Bonaparte.
Marx elabora una periodización singular de ese despliegue de fuerzas en la escena política y en el Estado. De la Garza dice correctamente que en el DB los periodos que Marx distingue en el proceso de correlación de fuerzas corresponden “a un cambio” en ésta y “a virajes en la dirección de los procesos”.(30) Aunque Marx no explica ahí su método de análisis, de la lectura se comprende que los criterios de periodización parten de esa distinción de cambios y virajes en la correlación de fuerzas. Así, en los tres grandes periodos, en las fases y en las subfases que se establecen en el DB, se hace referencia a esos cambios.
En el primer periodo (24 febrero-4 mayo 1848), el derrocamiento de la monarquía trae aparejado un “espejismo de confraternización general” y “la fundación fugaz de la República Social“, con la consecuente formación de un gobierno provisional en el que, con excepción del proletariado, se encuentran representadas todas las clases sociales. Aquí el criterio de la periodización está dado por ese cambio drástico, por el derrocamiento de la monarquía, que a su vez crea las condiciones de un formato de compromisos políticos entre las fuerzas prorrepublicanas.
En el segundo periodo (4 mayo 1848-28 mayo 1849), aquella confraternización se disuelve, y cada una de las fuerzas políticas luchan entre sí por imponer sus propios intereses, por imprimir su propio sello a la revolución de febrero, dejando fuera de la escena política -es decir, siendo derrotados en las luchas político-públicas a los republicanos puros y a los socialistas proletarios.
En el tercer periodo, desaparece de la escena política la representación pequeñoburguesa (La Montaña), debilitada en el periodo anterior, y la que Marx considera la única defensora de la República “frente a [la] conspiración monárquica”, mientras el Partido del Orden (PO) se descompone y sucumbe con el Parlamento ante las aspiraciones imperiales de Luis Bonaparte.
En los cortes por periodos Marx parece distinguir el curso que adquiere la escisión de la burguesía parlamentaria en grandes fracciones, y la transformación que sufre la República en relación con el predominio parlamentario, que alternativamente imponen cada una de esas fracciones. De ese modo, entonces, se observa que en el primer periodo se coaliga toda la burguesía parlamentaria, con la consecuente unidad política de la clase, y se funda la República Social, en tanto que el partido “del socialismo, del comunismo”, con Augusto Blanqui a la cabeza, es “alejado de la escena pública”.

El segundo periodo es la “historia de la Asamblea Nacional Constituyente“, “es la historia de la dominación y de la disgregación de la fracción burguesa republicana” (32). Bonaparte entra en escena como protagonista central y en alianza con el PO retira de la escena política a la fracción republicana que dominó la ANC, después de haber provocado la derrota pública y parlamentaria de los socialdemócratas.(33)
Finalmente, el tercer periodo es el de la República Constitucional bajo el predominio y la pérdida de cohesión del PO. Este partido y Bonaparte se enfrentan sin más mediaciones, en una situación en la que las otras fuerzas políticas están debilitadas, incluso literalmente disueltas, perdiendo el PO posiciones ministeriales y en los altos mandos militares.

Se observa, entonces, que el criterio básico para determinar los cortes y la unidad de cada uno de los periodos se funda en los procesos de escisión y de restablecimiento de las alianzas entre las fuerzas políticas, de tal modo que en cada uno alguna fracción (para el caso de la representación parlamentaria de la burguesía) aparece como predominante en la escena política.

Al recurrir a la expresión “fuera de la escena política”, Marx se está refiriendo no a simples desplazamientos del foco de atención pública de la lucha política, ni a una simple retirada táctica voluntaria de las representaciones parlamentarias,(34) sino a verdaderas derrotas políticas traducidas ya en la pérdida de peso político en el proceso de toma de decisiones parlamentarias o incluso en la persecución política y judicial de los principales dirigentes (como en el caso de Blanqui) y de sus medios de expresión literaria (como lo ejemplifica la nueva ley de prensa que suprimió la publicación de varios periódicos considerados “revolucionarios”) o bien en la desintegración del grupo parlamentario.
En el caso de los subperiodos (correspondientes a los periodos segundo y tercero), el criterio para establecerlos se funda en el modo específico del predominio de cada fuerza política. Así, en el primer subperiodo (periodo II.1) los republicanos promueven la represión contra el proletariado.(35) En el segundo subperiodo (periodo II.2), los republicanos determinan el contenido del proyecto de Constitución.
Y en el tercer subperiodo (II.3), desde la ANC los republicanos se enfrascan en una lucha abierta contra Bonaparte y el PO, que, finalmente, pierde en las elecciones del 10 de diciembre de 1848 y de las que Bonaparte resulta presidente de la República. Los otros subperiodos (periodo III.1, III.2 y III.3) se establecen con el mismo criterio, pero teniendo como protagonista al PO, que finalmente se enfrasca en una lucha a muerte con Bonaparte.
La determinación de las fases para el caso único del subperiodo III.3 se fundamenta en la forma singular como el PO se ve disminuido, progresivamente debilitado en su lucha frente a Bonaparte. De ese modo, en la fase a (III.3.a) el PO aparece como la fuerza política predominante en el parlamento, pero pierde el alto mando sobre el ejército; en la fase b, pierde su mayoría parlamentaria; en la fase c, pierde representatividad ante la burguesía financiera y, en general, ante la totalidad de la burguesía que progresivamente se inclinaba, en consecuencia, por el gobierno de Bonaparte; y en la fase d, ocurre “el ocaso del régimen parlamentario y de la dominación burguesa”, coronado por la disolución del parlamento mediante el golpe de Estado.
Los criterios generales de la periodización, en una palabra, están definidos por las variaciones en la correlación de fuerzas. Pero hemos visto que esas variaciones se registran con diferentes ritmos bajo la égida de una fuerza política específica, por lo demás en circunstancias concretas. Es precisamente esta variación específica y singular de la correlación de fuerzas en una coyuntura histórica de un país determinado, la que va marcando la pauta para establecer cortes más finos en el proceso explicativo-reconstructivo de los acontecimientos políticos.
Los puntos de partida y de llegada (dimensión político-temporal) y la identificación de las fuerzas y de los acontecimientos políticos significativos (dimensión político-espacial), son importantes en el análisis de coyuntura, en tanto que se traducen en los acotamientos de la unicidad de la coyuntura como una totalidad histórica, que condensa las principales contradicciones y que en sí tiene un sentido específico de progresión.
Así, entonces, volviendo al DB, la caída de la monarquía de Luis Felipe y el golpe de Estado de Bonaparte, son acotamientos de la unicidad de la coyuntura en un orden principalmente horizontal, pero que indican en sí, de un lado, el sentido de progresión de los acontecimientos y el tipo de juego político de las principales fuerzas en la escena política, y de otro lado, los límites histórico-políticos de esa progresión y de ese juego.
La identificación de fuerzas y de acontecimientos significativos son también acotamientos pero de orden vertical, en la medida en que políticamente permiten percibir la relevancia y la magnitud histórica de la coyuntura. Por lo tanto, los acotamientos aquí señalados no se refieren a una simple determinación de hechos (cuándo empieza y termina la coyuntura) aunque ciertamente no se pueda prescindir de esta circunstancia ni a una pura catalogación (causal, ideal, a priori, etc.) de los sujetos-actores y de los acontecimientos.
Basta decir, después de todo, dos cosas:
a) Con De la Garza, que el derrocamiento de la monarquía de Luis Felipe se constituye en el punto de partida porque “contenía gérmenes de las contradicciones que se desarrollarían”(36) durante la coyuntura, así como el golpe de Estado se constituye en punto de llegada porque, a fin de cuentas, resuelve no propiamente la aspiración imperial de Luis Bonaparte, sino el problema de la búsqueda de condiciones para propiciar la dominación política conjunta de la burguesía; y
b) que aun con la idea de un Luis Bonaparte “mediocre y grotesco”, Marx nunca lo elimina de su percepción de los sujetos-actores, puesto que finalmente personifica la resolución de las aspiraciones burguesas de dominación conjunta.
El Estado y la clase dominante
Por lo demás, queda claro que la intensidad de las luchas de clases y el sentido inmediato y mediato que éstas previenen, siempre bajo un esquema de variaciones y desplazamientos en la escena política, van dibujando los intersticios de una coyuntura que, por ello, se hace relevante y única. No obstante, por lo menos en la perspectiva del análisis marxiano, esas luchas y las transformaciones que de ellas van derivando llegan a trascender la temporalidad y el espacio coyuntural, al indicar tendencias históricas de largo plazo del tipo siguiente: la instauración de proyectos hegemónicos asociados a cierta fracción de clase dominante, el predominio del poder ejecutivo, la capacidad de ejercicio de la autonomía relativa estatal, etc., cuya racionalidad se explica en la necesidad lógica e histórica de ejercer la dominación burguesa y de representar a esta clase, haciendo aparecer su interés particular como el interés general de la nación.
Desde luego, la relación entre el Estado y la burguesía, sobre todo en la actualidad, no se reduce en una especie de realización instrumental, funcional de aquella necesidad. La aportación teórica implícita de Marx en el DB va más allá de una idea simplificada y unilateral sobre el Estado.
Es pertinente agregar aquí, entonces, algunas afirmaciones en torno a esta cuestión:
a) El Estado constituye la condensación de la correlación de fuerzas, cuyo desciframiento puede efectuarse a través del análisis coyuntural. No se trata, por lo tanto, de una condensación “en general”, de carácter abstracto, sino de una “específica”, en un país y en un momento histórico determinados, que sin embargo presupone necesariamente las transformaciones históricas del pasado.
b) El Estado no constituye un espacio homogéneo ni monolítico, sino que está atravesado por las contradicciones de las luchas de clases, y su unidad interna es siempre heterogénea y fluctuante. Esta particularidad lo hace aparecer ya por encima de las luchas de clases o ya en función de los intereses de una sola clase o fracción de clase.
c) La unidad del Estado depende, así, de la variación de la correlación de fuerzas y de su propia capacidad para “organizar” de acuerdo con una expresión poulantziana los intereses de las diversas clases y fracciones de clases.
d) La “dominación conjunta” de la burguesía, que señala Marx, no significaría otra cosa que la configuración de la dominación contradictoria de las diversas fracciones de esa clase, en un proceso inclusivo pero desigual: inclusivo porque la dominación presupone la subordinación de otras clases y fracciones de clase, bajo premisas que la reproducen, que la hacen “soportable”; y desigual porque los intereses de las fracciones de la burguesía son heterogéneos. En relación con el Estado, el proceso de dominación es inclusivo porque aquél busca representar la diversidad de intereses, y desigual en la medida en que la mediación estatal presupone la diferenciación de intereses.
Conclusiones
Aunque en nuestro país se han publicado numerosos estudios con pretensiones de análisis de coyuntura (del “momento actual”, del “presente”), muchos de ellos de inspiración marxista, en realidad la mayoría de ellos hacen una referencia fragmentada, selectiva o incluso anecdótica de la realidad histórica significativa en cuestión, con características del análisis temático, periodístico o del ensayo.
De acuerdo con los investigadores del Programa de Seguimiento de la Realidad Mexicana ( PSRMA) (37), el análisis de coyuntura estaría integrado por tres aspectos básicos: el “seguimiento de proceso” (en el que a veces se queda el trabajo de análisis periodístico), el “estudio de coyuntura”, propiamente dicho y el “análisis de periodo”.
En este formato de análisis de coyuntura “se ‘sigue’ un proceso histórico, pero no en general, sino durante un periodo determinado, y se concibe la coyuntura no como cualquier ‘momento actual’, ni como ‘un mero detalle en el tiempo’, sino como ‘un punto privilegiado de la historia’, en que el ‘desarrollo político y económico’ muestra claramente la naturaleza de la lucha de clases y presenta vías de ‘solución’ para sus contradicciones internas”.(38)
Nicos Poulantzas había definido ya, en 1968, la coyuntura como “el lugar donde se descifra la relación de las estructuras con el campo de las prácticas”, es decir, de la imbricación de la economía, de las ideologías y del Estado con la sociedad (las luchas de clases), y cuyo estudio permite “descifrar la individualidad histórica del conjunto de una formación (social-nacional)”.(39)
De acuerdo con este autor, y según el tipo de análisis de coyuntura elaborado por el marxismo en general, la idea del Estado capitalista como “resultado”, “expresión” o “condensación” de la lucha de clases, tiende a ser el núcleo del análisis. La comprensión de las luchas de clases, o para decirlo mis elegantemente, de la correlación de fuerzas necesariamente conduce a entender la especificidad nacional e histórica del Estado; este acto de pensamiento culmina en su explicación considerándolo en dos vertientes: como Estado en sí (como estructura) y como Estado en relación con la correlación de fuerzas, según una diferenciación utilizada por Marx al final de su famosa Introducción General de 1857.
Sobre todo cuando se trata de coyunturas “contemporáneas”, respecto a las que se logra hacer un seguimiento inédito, y que reflejan además zonas de conflicto, de ruptura”(40) o de crisis, que tengan que ver con el Estado, el estudio o la interpretación histórica del periodo histórico en el que aparecen circunscritas puede llevar a sostener afirmaciones más amplias sobre las posibilidades del “cambio”, sobre factores que lo impulsan o, por el contrario, que lo restringen, que le imprimen cierto sentido, etc. Desde este punto de vista, que parece ser el caso de Marx, en el DB, el análisis de coyuntura propiciaría avanzar hacia otro tipo de estudios de la realidad histórica, por ejemplo las reinterpretaciones del pasado (tan frecuentes, aunque no exclusivas, entre los historiadores), el diseño de escenarios o la elaboración de modelos de simulación.
En la medida en que el análisis de coyuntura tiene eminentemente un carácter explicativo-reconstructivo (el caso típico es el de Marx), queda deslindado de ese otro tipo de estudios, cuya utilidad por lo general llega a coincidir con diversos círculos de poder político en su interés por la toma de decisiones.(41) Esto significa que por sí solo el análisis de coyuntura es insuficiente en esos niveles para proporcionar alternativas para la definición de modelos de elección política, de estrategias políticas. No obstante, no por ello la calidad o la excelencia de los resultados del análisis de coyuntura podrían catalogarse como muestra de “neutralidad ideológica”, tampoco tomarse como garantía de acertadas decisiones políticas, e inversamente, cuando se trata de resultados de escasa calidad explicativa-reconstructiva, éstos no necesariamente podrían ser asociados con una “excesiva” carga ideológica, ni con decisiones erráticas.
Lo inadmisible, sin embargo, desde la posición que privilegia ese carácter explicativo-reconstructivo, precisamente porque éste propicia una concepción más amplia y diversa de la realidad histórica, sigue siendo el falso “análisis de coyuntura” que, promovido y difundido desde algunos círculos de poder político, busca justificar el curso de los acontecimientos o la toma de decisiones para el futuro inmediato.
Debe subrayarse que, al contrario de la particularidad explicativa-reconstructiva del análisis de coyuntura, y aun del tipo de proposiciones complementarias de cómo pudo ser o de cómo podrá ser la realidad histórica, según la definición delimitada de una matriz “x” de supuesto,(42) los modelos de simulación, como caso extremo, se encuentran más vinculados a los procesos de toma de decisiones, y por lo tanto, a esquemas de definición “abierta” de matrices de supuestos y a un uso instrumental-operativo de la información previamente conseguida y clasificada. No obstante, no hay un abismo entre el análisis de coyuntura y los instrumentos de toma de decisiones para “influir” en el curso de la historia, sino solamente umbrales más o menos prolongados por los que el analista político puede ser inducido a transitar.(43)
A final de cuentas, resulta bastante difícil objetar la capacidad que se logra con el análisis de coyuntura para vincular, en el presente, la comprensión del pasado inmediato con la necesidad de hacer menos azaroso, previsible el futuro inmediato. Sin embargo, la realidad histórica no ha podido ser, hasta ahora, contenida en una especie de recipiente ordenador.
NOTAS
1. El lector podrá encontrar referencias recientes acerca de la preparación y publicación de El dieciocho brumario de Luis Bonaparte, en la sección de notas proporcionadas sobre todo en las Ediciones en Lenguas Extranjeras o en la edición de Progreso. En el prólogo a la segunda edición Marx dice que su amigo José Weydemeyer “proponíase editar en Nueva York, a partir del 1 de enero de 1852, un semanario político [y] me invitó a mandarle para dicho semanario la historia del coup d’etat”. Marx escribió, en efecto, un artículo cada semana, ‘hasta mediados de febrero”, bajo el título ‘El dieciocho brumario de Luis Bonaparte”, pero que no fueron publicados en ese semanario, pues nunca apareció, sino en la revista Die Revolution cuyo primer número estuvo formado por ese trabajo.
2. En el ¿Qué hacer?, Lenin explora la necesidad de establecer la organización y dirección de las masas a partir de la fundación de un partido político, para hacer la revolución proletaria en condiciones adversas de restricción política impuestas por el régimen político. Luego, en El desarrollo del capitalismo en Rusia analiza más a fondo las condiciones de formación económica del proletariado que, de acuerdo con su interpretación teórica de la obra de Marx, debía construir el sustrato social de la revolución y de la actividad de partido. En cierto modo, Lenin limitaba su análisis político por una concepción determinista de la historia, que le impedía, por ende, ponderar el verdadero grado de maduración social y política de la clase obrera rusa. Es de suponer que, por el impulso político de las luchas de clases, Lenin estaba convencido de hacer avanzar el proyecto de revolución proletaria, dando por cumplida la etapa de pleno desarrollo capitalista y de revolución burguesa.
3. De Gramsci pueden ser citados diferentes ediciones de sus escritos (principalmente de la cárcel); pero en especial citamos aquí la edición que ERA (México) hizo de sus notas sobre el fascismo en 1979 (traducción a su vez de la edición italiana en 1974).
4. Mao TseTung, Cinco tesis filosóficas, Beijing. Ediciones en Lenguas Extranjeras, 1975
5. Poder político y clases sociales en el Estado capitalista, México, Siglo XXI, pp. 44-45
6. Cfr. La crisis de las dictaduras, México, Siglo XXI
7. El método del concreto-abstracto-concreto, México, Universidad Autónoma Metropolitana-Iztapalapa, 1983. pp. 61-79.
8. Op. cit., en la misma línea de interpretación puede verse también el trabajo de Leonardo Valdés Zurita, publicado en la revista Iztapalapa, núm. 2,1980 (UAM- Iztapalapa), sobre ‘La explicación en el análisis de Karl Marx”, pp. 280-295.
9. La dicotomía base-superestructura no es lo importante en este artículo; pero en la medida en que no se reduce a una simple diferenciación y separación de niveles de una formación social, sino que remite a la concepción de totalidad contradictoria sobre ésta, en sí. si tiene relevancia en el enfoque de análisis de coyuntura marxista.
10. El dieciocho brumario de Luis Bonaparte (DB), prólogo de Marx a la segunda edición (1869), p.2
11. Remitirnos, por ejemplo, a los ya citados en las notas 7 y 8
12. En Poder político y clases sociales en el Estado capitalista, Poulantzas afirma que “sólo existe, de hecho, una formación social históricamente determinada, es decir, un todo social –en el sentido más amplio- en un momento de su existencia histórica: la Francia de Luis Bonaparte [por ejemplo…]”. Véase además las pág. 39-40
13. DB, pp. 125 y 135.
14. Véase la carta de Marx a Joseph Weydemeyer (Londres, 5 de marzo de 1852). en donde dice que entre lo que él ha aportado de nuevo acerca de las clases y luchas de clases ha sido demostrar, entre otras cosas, “que la lucha de clases conduce, necesariamente, a la dictadura del proletariado”.
15. C. Marx y F. Engels, Obras escogidas, t. I, México, Ediciones Quinto Sol, 1985, p. 119
16. La introducción a la CFEH fue publicada posteriormente a esta crítica, en los Anales Franco-Alemanes, febrero de 1884, único número editado por Arnold Ruge y Carlos Marx.
17. Lenin también llegó a considerar, en su escrito sobre la vida de Marx (Carlos C. Marx) incluido en el Diccionario enciclopédico Granat (séptima edición, tomo XXVIII, 1915), que en la CFEH y en su introducción “vemos ya al revolucionario que proclama la necesidad de una [crítica implacable contra todo lo existente] y, en particular, de una [critica de las armas] que apele a las masas y al proletariado” (cfr. p. 3 de la edición en Lenguas Extranjeras).
18. En El Capital, tercer tomo, en la sección sobre la crisis, Marx dedica un buen espacio a la explicación de los “factores contrarrestantes” de la tendencia a la caída de la tasa media de ganancia. Desde 1852, consideró en sus análisis ese tipo de factores en los procesos económicos y políticos del capitalismo. También Engels, en su introducción a Las luchas de clases en Francia de 1848 a1 850, concentra la repercusión del derecho de sufragio en la Alemania de finales del siglo XIX, al cambiar las formas de organización y de lucha de la clase obren.
“Y así se dio el caso dice Engels de que la burguesía y el gobierno llegasen a temer mucho más la actuación legal que la actuación ilegal del partido obrero [Alemán], más los éxitos electorales que los éxitos insurreccionales […] Pues también en ese terreno habían cambiado sustancialmente las condiciones de la lucha. Desde 1849 han cambiado muchísimas cosas y todas a favor de las tropas […] En cambio, del lado de los insurrectos todas las condiciones han empeorado […] También en los países latinos [europeos] se va viendo cada vez más que hay que revisar la vieja táctica. En todas partes se ha imitado el ejemplo alemán del empleo del sufragio”. Pero Engels, a fin de cuentas, no descarta, aun en esas condiciones, “el derecho a la revolución”.
19. pp. 135-147, edición del F.C.E., “La acción libre y la necesidad”
20. Op. cit., p. 135
21 Op. cit., pp. 144-145
22. Op. cit., p. 145
23. Remito a la nota 18 y, en el mejor de los casos, a la Introducción de Las luchas de clases en Francia de 1848 a1 850, Beijing. Ediciones en Lenguas Extranjeras, 1980
24. “Philippe Adair, en “Un concepto precario: la acumulación primitiva” (Les temps modernes, núm. 434, sept., 1982), refiriéndose a la génesis del capitalismo, coincide con Maurice Godelier en que todo sistema social “comprende en sí su propia estructura originaria sobre la cual se funda y se reproduce a cada instante …”
25. Golpe de Estado que “como un rayo en cielo sereno”, según Marx, sorprendió a los franceses e hizo que éstos, por ende, sin ver lar circunstancias históricas objetivas que lo produjeron, magnificaran la figura del sobrino de Napoléon.
26. DB, p. 16 p. 16. Cabe precisar aquí que cuando Marx se refiere a la “escena política” está remitiendo al mismo tiempo a las luchas políticas relevantes de las representaciones políticas de las diferentes clases y fracciones de clase.
27. La burguesía dinástica era el grupo de representantes del conjunto de la clase burguesa, y la formaban, por un lado, los legitimistas, partidarios de la rama mayor de la dinastía monárquica de los Borbones y de los intereses de los grandes propietarios territoriales y, por otro, los orleonistas, partidarios de la rama menor de esta dinastía y de los intereses de la aristocracia Financiera y de la gran burguesía”. (“Los banqueros, los reyes de la bolsa, los reyes de los ferrocarriles, los propietarios de minas de carbón y de hierro y de explotaciones forestales y una parte de los propietarios de tierra aliados a ellos”. p. 32. Las luchas de clases en Francia de 1848 a 1850.)
La burguesía dinástica, orleanistas y legitimistas, forman luego el Partido del Orden. Como se indicará también en la siguiente nota, una parte de la burguesía comercial, “la que se había llevado la parte del león en el gobierno de Luis Felipe”(p. 106. op. cit.), formaba también parte de la aristocracia financiera.
28. La burguesía republicana, o los “republicanos burgueses puros”. estaba formada por los representantes de la burguesía industrial y comercial (aunque no toda la burguesía comercial estaba ahí representada) Y constituyeron lo que Marx denominó la “oposición oficial” minoritaria en el poder legislativo durante la monarquía de Luis Felipe (1830-1848). Le National fue durante 1830-1851 el periódico de la tendencia moderada de los republicanos
29. Los pequeño burgueses democrático-republicanos eran los representantes de la pequeña burguesía; a ellos se aliaron “los socialistas pequeñoburgueses”. Entre ambas corrientes editaron el periódico LaReforme, durante 1843-1850; incluso Engels publicó algunos artículos en este periódico, entre 1847 y 1848. Los representantes políticos de la pequeña burguesía, es decir de una clase que no pretende abolir el capital ni el trabajo asalariado, sino “atenuar su antítesis y convertirla en armonía”, según Marx, formaron el partido de La Montaña.
30. El método del concreto-abstracto-concreto, op. cit., p. 77
31. DB, p. 122
32. Op. cit., p. 22
33. La derrota de los socialdemócratas, es decir, del partido de La Montaña, dice Marx, “era una victoria directa para Bonaparte. […] El partido del orden había conseguido la victoria y Bonaparte no tenía que hacer más que embolsársela”.
34. Representaciones parlamentarias, fundamentalmente pero no en un sentido restrictivo, porque las características históricas de conformación del poder político en Francia entre 1789 y 1851, se reducían en una auténtica presencia de los intereses de las clases representadas en la conformación del poder ejecutivo. Justamente, cuando Marx indica la variación de la correlación de fuerzas en la “escena política”, no hace referencia necesaria o exclusivamente a las alianzas y desplazamientos entre los partidos políticos sino en un sentido más amplio a las relaciones entre las Representaciones políticas parlamentarias de las clases y fracciones de clases sociales y el poder ejecutivo,un predominio de aquéllas sobre éste al que sólo pudo poner fin el golpe de Estado.
35. Dice Marx en el DB, sin embargo, que la represión promovida contra el proletariado, entre mayo y junio de 1848, fue el enfrentamiento de la república burguesa contra esa clase: de “La aristocracia financiera, la burguesía industrial, la clase media, los pequeños burgueses, el ejército, el lumpemproletariado organizado como guardia móvil, los intelectuales. los curas y la población del campo”, en contra de 18 mil insurrectos proletarios, tres mil de los cuales “fueron pasados a cuchillo [y] 15 mil reportados sin juicio” (DB. pp. 18-19).
36. El método del concreto-abstracto-concreto, op. cit., p. 72
37. Grupo de investigadores asociados a la revista El Cotidiano. En el suplemento del nº 42 este grupo explica detalladamente una buena parte de su concepción acerca del análisis de coyuntura.
38. Op. cit., pp. XII y XIV
39. Véase Poder político y clases sociales en el Estado capitalista, op. cit. pp. 44-45 y 113.
40. El Cotidiano, nº 42, suplemento, p. XIII
41. Según la interpretación que hacen los investigadores del PSRMA del trabajo de Jaime Osorio (El análisis de coyuntura, México, CIDAMO, 1987), éste privilegia el análisis de coyuntura en función de la necesidad de “hacer política” (El Cotidiano, nº 42, suplemento, p. IX).
42. K. Marx lleva a esos límites sus análisis teóricos e históricos, tratando de fundamentar su explicación en torno del curso histórico-tendencial del capitalismo. Al respecto, dos obras ilustran bastante bien, en ese orden, lo anterior: El Capital (cfr. los apartados sobre la determinación de la tasa de ganancia y sobre los esquemas de reproducción del capital) y el Dieciocho brumario…
43. Norberto Bobbio señala (en el Diccionario de política, México. Siglo XXI, 1981, pp. 259-260) que la ciencia política, en la actualidad, se caracteriza por la difusión de nuevas técnicas de análisis (ej. el análisis multivariado) y por fórmulas de explicación-previsión.

Modernidad y posmodernidad en el Manifiesto Comunista

MODERNIDAD Y POSMODERNIDAD EN EL MANIFIESTO COMUNISTA
Sergio de Zubiría Samper
Quiero para iniciar esta reflexión, manifestar mi emoción y felicitar a la Universidad Nacional de Colombia y al Comité Organizador “Marx Vive”, porque nos permite en estas horas tan difíciles del pensamiento crítico, darle un espacio a uno de los pensadores emblemáticos de la tradición occidental de la crítica.
El título de la presente ponencia está colmado de malentendidos, tan lleno de lugares comunes y diría que hasta de prejuicios, que relacionar Modernidad y Posmodernidad en el Manifiesto Comunista para muchos sería casi una herejía. Lo que me hace ineludible hacer referencia a algunas reglas del juego, para que podamos crear un escenario adecuado de comprensión y comunicación.
Limitaciones trágicas
El debate Modernidad/Posmodernidad, considero, ha adolecido de dos trágicas limitaciones. La primera, el prefijo “post” ha sido el término más desafortunado, porque insinúa a cualquier oyente, remite a cualquier lector, a una idea evolucionista y lineal, como si la posmodernidad viniera necesariamente después de finalizada la modernidad.
Y hoy podemos postular que los teóricos más rigurosos de la posmodernidad nunca la han entendido así, como una etapa siguiente o una etapa post a la experiencia vital de la modernidad. La segunda gran limitación es nuestro todavía persistente maniqueísmo; siempre tendemos a caricaturizar la perspectiva distinta a la nuestra.
Y en ese sentido, en las caricaturizaciones se dan ejemplos tan disímiles, como para algunos creer que la posmodernidad simplemente es “todo vale”, o un relativismo escéptico o simplemente una nueva ideología de consumo. Una alumna mía, con ese pensamiento casi imagen que caracteriza actualmente a muchos jóvenes, un día me decía: “Eso que usted está hablando me suena es como a importaculismo”.
Pero, desde la otra orilla, el maniqueísmo caricaturizador posmoderno también ha visto la modernidad como la responsable de los campos de concentración, de la destrucción de la naturaleza, etc., como la filosofía de la identidad totalitaria realizada, y esa es otra caricatura.
Creo que luego de más de 15 años de debate filosófico, podemos tener una mente y un lenguaje decantado para comprender que no es posible seguir en ese maniqueísmo. Creo que hay dos textos emblemáticos y reveladores que nacen el mismo año de 1985: El discurso filosófico de la modernidad, de J. Habermas, y El fin de la modernidad, de G. Vattimo. Ambos textos muestran la altura e importancia teórica de esta discusión para comprender nuestra época. Considero que, decantando el lenguaje y luchando contra nuestro perseverante maniqueísmo, podríamos llegar a tres acuerdos provisionales.
El primero, tanto la noción de Modernidad como de Posmodernidad es muy plural y bastante polisémica. Hay modernidad neoliberal, hay modernidad rawlsiana, existe modernidad comunitarista, también modernidad habermasiana y otras alternativas. Podríamos postular hasta que, en el seno de cada una de las anteriores, existen modernidades y no sólo modernidad. García Canclini en su texto Culturas híbridas (1989), llega a plantear que en América Latina coexisten contradictoria y desigualmente varias modernidades.
El segundo, que hay ciertos “rasgos de familia”, utilizando un pertinente término de Wittgenstein, que no excluye que existan miembros de familia muy distintos. Estos “rasgos de familia”, considero, son los ejes donde gira el debate entre modernos y posmodernos, aunque las perspectivas en el seno de cada grupo son demasiado desiguales. Estos posibles cuatros ejes son: 1. Los modernos propugnan tendencialmente por el universalismo; Habermas ha aportado una frase bellísima que sintetiza el debate: “Ser resueltamente moderno es considerar que en el hablar, en el pensar y en el actuar hay principios universales”.
En cambio los posmodernos en su mayoría no están de acuerdo: ni en el pensar, ni en el hablar, ni en el actuar hay principios universales. Habrá principios contextuales, más o menos generales o comunitaristas, pero no absolutamente universales;
2. En general los modernos creen que el sentido de la historia va hacia la modernidad, y es lo deseable. En ese sentido poseen un sentido unitario de la historia: ojalá todos vayamos hacia la modernidad. Los posmodernos, en general no.
Por eso Vattimo ha expuesto reiteradamente que hoy vivimos la experiencia del fin del sentido unitario de la historia. No de la historia, como finalizada o terminada, porque ella es interminable (M. Ende), sino que hay unos que van para la modernidad, pero no necesariamente todos. Hay comunidades culturales concretas que yuxtaponen modernidad, tradición y posmodernidad, otras que desean no ir hacia la modernidad, y hay que respetarlo;
3. La experiencia del tiempo que propugnan los modernos siempre valora el futuro, el cambio, la innovación, y en ese sentido hay una cierta relación de valoración mayor hacia lo nuevo y hacia el futuro que hacia otros tiempos. En cambio, los posmodernos creen que la experiencia del tiempo puede ser diversa y por eso adoran la frase de Nietzsche “el eterno retorno de lo mismo”, o pueden comprender la frase de muchas comunidades indígenas de América Latina que dicen “el futuro está atrás, el pasado está adelante”; 4.
En general, los modernos creen en una teoría y práctica del progreso. Aunque sean muy diversos los criterios para evaluarlo, se imaginan y narran la historia como un progreso moral, un progreso cultural, un progreso técnico, mientras los posmodernos, por lo menos, tienen la duda o desconfianza ante el concepto. Será que no es posible retrocesos, será que no es posible estancamientos, no avances o de carácter contradictorio, o un “eterno retorno” sin pasado ni futuro u otras posibilidades.
Y el tercero de nuestros acuerdos provisionales: abrirnos, aunque sea por unos momentos, a la posibilidad de esa frase y giro bastante difícil, que planteara J. F. Lyotard en La posmodernidad (explicada a los niños) (1986), una apertura como homenaje a su muerte reciente: “Una obra no puede convertirse en moderna si, en principio, no es ya posmoderna. El posmodernismo así entendido no es el fin del modernismo sino su estado naciente, y este estado es constante”, aceptando que para todos nosotros, formados en la historia evolucionista es un giro bastante difícil e inaccesible.
Desde que nació la modernidad aparecieron pensadores posmodernos y, en sentido histórico, en el siglo que emergió la modernidad nacieron también componentes posmodernos. Tal tesis no podría compartirla G. Vattimo, porque este autor ubica aproximadamente el nacimiento de la posmodernidad filosófica en la segunda etapa de F. Nietzsche, luego de El origen de la tragedia (1871). De todas maneras, la propuesta de Lyotard es una posibilidad de impedir que el prefijo “post” se nutra de rasgos unilineales, evolucionistas y maniqueos.
Lecturas modernas
El Manifiesto Comunista (1848) ha sido en los últimos años tema y preocupación de lecturas modernas y posmodernas. Es notorio un renacimiento y revitalización de sus posibles lecturas gracias a esas dos perspectivas. Tal vez las propuestas más emblemáticas de una lectura moderna son las insinuadas por Marshall Berman, Todo lo sólido se desvanece en el aire (1982) y Jacques Derrida Espectros de Marx (1995), de una lectura posmoderna, esta última con un subtítulo verdaderamente atractivo: El estado de la deuda, el trabajo del duelo y la nueva internacional.
Tanto Berman como Derrida, confiesan avergonzados que hace mucho tiempo no leían el Manifiesto, como tenemos que confesarlo también algunos de nosotros, pero gracias, de alguna manera, a toda esta importante discusión moderna/posmoderna que ocupa bastante a distintos intelectuales desde los años 80, releen el Manifiesto. Derrida desde fisuras y giros posmodernos; Berman desde una propuesta de lectura moderna.
Las interpretaciones dominantes tanto del Manifiesto Comunista como del marxismo, en los años 80 y 90, consideran, y estoy de acuerdo con ello, que el texto es una pieza clave, una de las más importantes del siglo XIX para reflexionar sobre qué es eso de la modernidad.
Berman incluso narra una circunstancia bastante trágica: que cuando él tenía seis años todo el mundo le decía “usted vive en un barrio moderno, usted vive en un edificio moderno, usted vive en una ciudad moderna”, y poco después de terminar su libro, su hijo Marc de cinco años, le fue arrebatado en un accidente automovilístico y a él le dedica su obra, porque “su vida y su muerte acercan al hogar muchos de los temas e ideas del libro: la idea de que los que están más felices en el hogar, como él lo estaba, en el mundo moderno pueden ser los más vulnerables a los demonios que los rondan”.
En muy pocos casos se ha señalado que el Manifiesto Comunista pueda contener rasgos posmodernos, y considero que, en general, es plausible estar de acuerdo en que lo dominante en el texto es su carácter de pieza clave para entender esa enigmática, compleja palabra, y hoy impresionantemente polisémica: modernidad, modernización, modernismo. Pero, de todas maneras, nos arriesgaremos, con muchos grandes lectores contemporáneos de Marx y Engels, al afirmar que se pueden develar algunas fisuras, pequeños entretejidos de espectros posmodernos.
Hoy creo que el Manifiesto Comunista se podría leer, por lo menos, desde cuatro perspectivas. Propuestas de interpretación, todas ellas, que enriquecen la vitalidad de la tradición marxista. La primera: es uno de los más pertinentes textos del pensamiento occidental para apropiar qué es la modernidad en general. La segunda: en el Manifiesto nace la modernidad crítica y, en ese sentido, Marx no es tanto la apropiación de la modernidad en general, sino de un tipo de modernidad crítica.
Tercera: Marx es un crítico de la modernidad en su forma capitalista, uno de los más profundos críticos, pero postula una modernidad diferente: comunista, socialista, siempre anticapitalista. Y cuarta, que es la más difícil y arriesgada y, por momentos, no la más pertinente: el Manifiesto es una crítica de la modernidad en general, tanto en sus formas capitalistas como no-capitalistas y, en algún sentido, hay en él atisbos, pequeñas claves posmodernas.
En un recorrido sucinto por las lecturas modernas dominantes del Manifiesto Comunista, podríamos recurrir a algunas de sus tesis y acentos en el seno del interesante debate del marxismo actual.
J. Habermas sostiene que en el marco del discurso filosófico de la modernidad, el Manifiesto es el texto que denunció precozmente algunos de los elementos patógenos de la modernidad. La gran crítica contenida en el Manifiesto es al hombre y al sujeto abstracto que instauran las revoluciones burguesas modernas. Ese sujeto que vuelve la igualdad y la libertad derecho a la disociación, al egoísmo. En este sentido, el Manifiesto y el marxismo son una crítica radical a la subjetividad abstracta de la modernidad capitalista.
Irving Fetscher formula que el marxismo es una especie de aceptación crítica del desarrollo moderno capitalista, que Marx y Engels saludan en el Manifiesto la importante dinámica del crecimiento capitalista, pero al mismo tiempo critican lúcidamente los enormes destrozos, costos humanos y naturales que tiene esa forma de modernidad capitalista.
Callinicos, uno de los más recurrentes críticos de la posmodernidad, plantea que Marx, Nietzsche y Saint-Simon pueden ser considerados como los fundadores de las tres formas más influyentes de modernidad. Cada uno de ellos inaugura una tradición para entender las características centrales de la modernidad. Llama la atención que tanto para Berman como para Callinicos, Nietzsche sea situado como un típico representante de la modernidad.
Pero, quisiera detenerme un poco en el texto emblemático de Marshall Berman, que es de cierta forma el que anticipa la polémica sobre el papel del Manifiesto en el contexto de una interpretación moderna de su contenido. Berman confesando algo sobre el Manifiesto Comunista dice: “Hace más de 30 años cuando yo era joven me enseñaron que el Manifiesto Comunista era un trabajo obsoleto y que aun cuando pudiera ayudarnos a entender el mundo de 1860, lo cierto es que no tenía ninguna relación con el mundo de 1960, el mundo de la guerra fría y el Estado de bienestar. Es irónico, pero a medida que me hago viejo, el Manifiesto parece rejuvenecer y hasta podía resultar que tenga más relevancia a finales del siglo XX que a mediados del XIX”.
Cada día se convierte en una especie de guía que nos indicará cómo es en verdad la vida en el capitalismo contemporáneo; la fuerza del Manifiesto reside en la luz que hoy nos arroja para comprender la vida espiritual de fines del milenio.
Pero, además, Berman logra una definición de la modernidad de una de las maneras más literarias y vitales que pueda hacerse:
Hay una forma de experiencia vital, la experiencia del tiempo y del espacio de uno mismo y de los demás, de las posibilidades y los peligros de la vida que comparten hoy los hombres y mujeres de todo el mundo de hoy. Llamaré a este conjunto de experiencia vital, la modernidad. Ser modernos es encontrarnos en un entorno que nos promete aventuras, poder, alegría, crecimiento, transformación de nosotros y del mundo, y que al mismo tiempo amenaza con destruir todo lo que tenemos, todo lo que sabemos, todo lo que somos. En una palabra, ser modernos es formar parte de ese universo en que, como dijera Marx: todo lo sólido se desvanece en el aire.
Tuvimos la mala fortuna de que la hermosísima traducción de esa última frase, que Berman escoge como título de su libro, casi ninguno de nosotros la conoció en nuestra juventud. Berman sostiene cuatro grandes tesis del Manifiesto Comunista en su visión de la modernidad:
En primer lugar, Marx concibe la modernidad en el Manifiesto como una totalidad; totalidad cultural, totalidad económica, totalidad religiosa, y esa es una virtud, estableciendo siempre relaciones entre el todo y la parte, y viceversa. Es de los pocos pensadores que hace un esfuerzo reflexivo de comprender la interrelación y la masilla de todas las expresiones de la modernidad.
En segundo lugar, no bifurca modernidad, modernismo y modernización, como lo hacen aproximaciones como el neoliberalismo. La modernidad desde su acta de nacimiento establece las distinciones y relaciones entre estos tres momentos constitutivos del proyecto; en cambio el neoliberalismo reduce la realización del programa moderno a una modernización sin modernidad. Marx nunca le hizo el juego a esa modernización tecnológica que renuncia a la autonomía, la subjetividad, la crítica, etc.
En tercer lugar, clarifica integralmente el nexo entre cultura moderna, economía y sociedad burguesa moderna, que no lo hacen otras teorías de la modernidad. No cae en concepciones reduccionistas de tipo “culturalista” o “economicista”, sino encuentra los nexos dialécticos entre estas esferas de la vida social.

Y en cuarto lugar, logra percibir la profundas ambigüedades y contradicciones de la modernidad capitalista, así como las percibe Fausto, como las percibe Nietzsche, como las percibe Benjamin y muchos otros, pero con una gran capacidad anticipatoria. En su cuidadosa lectura del Manifiesto, ilustra estas contradiciones con cinco metáforas implícitas a lo largo de las profundas palabras de este texto: lo efímero y evanescente de la experiencia moderna; la autodestrucción innovadora; el hombre desguarnecido; la metamorfosis de todos los valores; la pérdida de aureola.

El momento más dramático de esta interpretación de la modernidad evanescente, productiva/destructiva, solipsista, incierta en los valores y que todo lo mercantiliza, es la conclusión con que cierra su lectura de Marx: ¿Cómo asumir hoy el Manifiesto Comunista y su fuerza, en una situación en que no se puede desconocer la tensión existente entre la percepción crítica de Marx y sus esperanzas radicales?

Y responde con una posición, que considero muy valiente y exigente para su cumplimiento, la cual recuerda la fértil tradición del marxismo desesperanzado de Walter Benjamin. Recordando a A. Gramsci, remite Berman a este gran marxista que entendió la esencia de una lectura contemporánea del Manifiesto, con estas bellísimas y enigmáticas frases: “Pesimismo del intelecto, optimismo de la voluntad”, próxima a aquella consigna colmada de imaginación de los jóvenes en mayo del 68: “Seamos realistas, exijamos lo imposible”.

Fisuras posmodernas

Al lado de estas propuestas modernas, encontramos por lo menos cuatro autores, que empiezan a sugerir perspectivas de leer el Manifiesto Comunista de otra manera. Que sugieren giros, matices, fisuras de carácter posmoderno. Su precursor, nos parece, es M. Blanchot, en uno de los más breves trabajos que se ha escrito sobre Marx (dos páginas), bastante desconocido por los lectores hispanoparlantes e intitulado “Los tres lenguajes de Marx”.

Blanchot, en ese trabajo de dos páginas, con inmensa agudeza, nos dice: “Siempre venideros de Marx, vemos tomar fuerza y forma a tres clases de lenguajes, los cuales son los tres necesarios, pero separados y más que opuestos, como yuxtapuestos. El contraste que los mantiene juntos designa una pluralidad de exigencias a la que desde Marx, cada uno al hablar, al escribir, no deja de sentirse sometido…”; algo muy valioso del Manifiesto, nos lo recuerda Blanchot, es que es un lenguaje, y ser comunista no es sólo aceptar un sistema o una teoría filosófica: es también un constante desafío en nuestra manera de hablar y la ineluctable necesidad del asedio de la justicia, la dignidad y la igualdad humana.

Ser comunista es una forma de hablar, una forma de hablar que está en Marx y Engels. El lenguaje comunista es siempre a la vez tácito y fuerte, político y sabio, directo e indirecto, total y fragmentario, lento y casi instantáneo. En Marx hay por lo menos tres lenguajes visibles, y en el Manifiesto se puede percibir que coexisten en forma incómoda y heterogénea.

El primero es el lenguaje filosófico, que es directo, pero lento. Marx aparece como el escritor de pensamiento, en el sentido de que ha salido de la gran tradición del logos filosófico (“lo que concebís para la propiedad antigua, no os atrevéis a admitirlo para la propiedad burguesa”). Pero, al mismo tiempo hay un lenguaje político, que es momentáneo, más que directo y más que breve, cortocircuita todo lenguaje (“el primer paso de la revolución obrera es la elevación del proletariado a clase dominante, la conquista de la democracia”). Además, hay un tercer lenguaje: es el lenguaje indirecto, el más lento de los tres, el del discurso científico (“todas las relaciones de propiedad han sufrido constantes cambios históricos, continuas transformaciones históricas”).

Uno de los problemas del marxismo posterior a Marx y Engels es que predominó uno solo de estos lenguajes. Stalin y gran parte del marxismo soviético creyeron que Marx sólo era científico. Se cortó la fuerza de su “pluralidad de exigencias”, se pasteurizó la noción de “ciencias”, y se pretendió que un mundo tan complejo fuera entregado a la custodia de un único agente.

Inspirado por momentos en M. Blanchot, Jacques Derrida empieza con una micrología, la frase inicial del Manifiesto Comunista, y dedica su texto al gran luchador comunista contra el apartheid: Chris Hani. Los Espectros de Marx: el estado de la deuda, el trabajo del duelo y la nueva internacional (1995) es una obra muy sugerente hacia una propuesta posmoderna de comprensión del Manifiesto y, en general, del pensamiento de Marx.
Como M. Berman, pero con intenciones muy diferentes, inicia su trabajo confesando sus muchos años de ausencia de lectura de este emblemático trabajo: “Hace más de un año tenía decidido llamar a los espectros por su nombre desde el título de esta conferencia de apertura ‘Espectros de Marx’; el nombre común y el nombre propio estaban ya impresos, estaban ya en el programa cuando muy recientemente releí el Manifiesto del Partido Comunista. Lo reconozco avergonzado: no lo había hecho desde hacía decenios –y eso debe revelar algo–. Bien sabía yo que allí esperaba un fantasma, y desde el comienzo, desde que se levanta el telón”.
Y unas páginas más adelante nos asevera Derrida en forma categórica: “Será siempre un fallo no leer y releer y discutir a Marx. Es decir, también a algunos otros, y más allá de la ‘lectura’ o de la ‘discusión’ de escuela. Será cada vez más un fallo, una falta contra la responsabilidad teórica, filosófica, política… No habrá porvenir sin ello. No sin Marx. No hay porvenir sin Marx. Sin la memoria y sin la herencia de Marx: en todo caso de un cierto Marx: de su genio, de al menos uno de sus espíritus. Pues ésta será nuestra hipótesis o más bien nuestra toma de partido: hay más de uno, debe haber más de uno”.
Cuando Marx afirmaba sinceramente “Yo no soy marxista”, es porque sabía que su teoría no debería ser ni unívoca ni homogénea, sino que abría la posibilidad de marxismos; y él mismo era contradictorio, porque un pensar vigoroso así tiene que ser. La vitalidad de su legado implica reconocer que existe más de un Marx, pero también menos de uno; de otra manera lo petrificamos, lo esterilizamos. No se necesita ser marxista o comunista para rendirse ante la evidencia de que “habitamos todos un mundo” que conserva de forma directa o no, visible o no, con una gran profundidad, la marca de la herencia de Marx. De al menos alguno de sus espíritus.
¿Pero cuál es el espectro que nos asedia? ¿Qué contiene el espectro que interpela al Marx del Manifiesto y a Hamlet? “¡Ah, el amor de Marx por Shakespeare!”. Nos asedia la justicia. El problema más difícil es que el derecho moderno se ha sustentado en la venganza no en la justicia, como lo saben Hamlet, Marx, Nietzsche, Benjamin, entre otros. La justicia ha tendido a reducirse en reglas, normas, representaciones jurídicas-morales o deber cumplido. Una justicia reducida a compensación o retribución. La justicia de Marx es otra justicia, como la de Shakespeare. El padre de Hamlet se le aparece como el espectro que exige el asedio y la justicia.
El espectro del Manifiesto es el asedio de una justicia distinta a una justicia solamente jurídica. Marx lo dice en sus Reflexiones de un joven para elegir profesión. Lukács hablará del jacobinismo plebeyo del joven Marx; aquel individuo que escoge el derecho por dos razones, dos ideales que aunque parezcan ser incompatibles son compatibles por el asedio de la justicia. En una profesión uno puede ennoblecer su espíritu y al mismo tiempo servirle a toda la humanidad.
La justicia tiene que ver con el donar. Quien no esté en el estado de ánimo de regalar, de donar, de tener sentimientos morales ante el dolor ajeno, nunca será justo. En ese sentido tenemos que deconstruir el espectro de Marx; necesitamos que por fin el derecho se sustraiga a la fatalidad de la venganza. Nuestra deuda con el legado del marxismo tiene que ver con una justicia que tenga que ver con el asedio, el espectro, la conjunción con el otro.
Otro pensador que, consideramos, también inaugura una posibilidad de comprensión y lectura posmoderna del pensamiento de Marx es Antonio Negri. En su ya divulgada obra El poder constituyente: ensayo sobre las alternativas de la modernidad (1994 en castellano), y en otros ensayos en colaboración con F. Guattari como Las verdades nómadas: por nuevos espacios de libertad (1989), desarrolla sugestivas propuestas de lectura del marxismo en este fin de siglo. La complejidad y lucidez de sus sugerencias nos exigirían algunas referencias más detalladas, que rebasan las intenciones de este escrito; por tanto, nos limitaremos a esbozar puntual y brevemente algunas de sus tesis.
Tanto Negri como M. Foucault perciben que las maneras para pensar el poder han sido muy estrechas. Dos modelos han predominado: los jurídicos, que sólo interrogan por lo que lo legitima, y los institucionales, que reducen el problema al Estado. Se hace necesario ampliar las dimensiones de una definición del poder con premisas tales como: el poder no es sólo una cuestión teórica sino algo constitutivo de nuestra experiencia; la relación entre racionalización y abusos del poder es evidente; no se trata de un proceso abstracto a la razón (“aburrido papel de racionalista o irracionalista” ), sino de análisis de racionalidades específicas, como la locura, la muerte, el derecho, la enfermedad, la sexualidad, etc..; analizar las formas de resistencia a los diferentes tipos de poder; promover nuevas formas de subjetividad distantes al tipo de individualismo que ha dominado los últimos siglos.
La tradición democrática del sujeto y del poder es urgente buscarla en Maquiavelo, Spinoza, Marx y Foucault, y la categoría central de esa herencia es la noción de “poder constituyente”. Por esto Negri sostiene: “El paradigma del poder constituyente es el de una fuerza que irrumpe, quebranta, interrumpe, desquicia todo equilibrio preexistente y toda posible continuidad. El poder constituyente está ligado a la idea de democracia como poder absoluto”. Y han sido muchos los intentos para su “domesticación” (“poder constituido”) en la historia moderna: constitucionalismo, la idea de soberanía, el sujeto adecuado como “nación”, “pueblo”, “derechos”, entre otras de las estrategias posibles.
Marx representa, para Negri, un punto crucial al lograr la intersección entre la crítica del poder y la crítica del trabajo. En su largo recorrido de la crítica, Marx logra en forma lenta y difícil llegar a construir en la noción y práctica del “comunismo”, la categoría de “poder constituyente”. En la noción de comunismo llega a sintetizar la tradición materialista, como definición de la democracia como expresión de la potencia y el poder.
Sin embargo, Negri complementa su teoría del poder constituyente exigiendo ir “más allá” de los límites de lo moderno. Y lo moderno posee como primer límite su temor a que la multitud pueda expresarse como subjetividad y como segundo límite, la neutralización de la multitud en lo político, a través de su separación de lo social.
Por eso necesitamos un socialismo –dice Negri– que vaya más allá de lo moderno, porque lo moderno es miedo a la multiplicidad y escisión de lo político y lo social. Y esa necesidad de ir “más allá” de lo moderno lo sustenta en el párrafo final de su conocida obra, así: “La constitución de la potencia es la experiencia misma de la liberación de la multitud. Es indiscutible que, de esta forma y con esta fuerza, el poder constituyente no pueda dejar de reaparecer; y que no pueda sino imponerse como hegemonía en el mundo de la vida es necesario. A nosotros nos toca acelerar esta potencia y, en el amor del tiempo, interpretar su necesidad”.
Quisiéramos terminar rindiéndole un homenaje a A. Sánchez Vásquez, quien ha sido para muchos de nosotros, importante orientador e inspirador en la historia del marxismo latinoamericano. Es de esos marxistas que saben que el vigor crítico de un pensamiento es saber dialogar con los objetores, y dialoga en los últimos años con la posmodernidad. Notas de ese diálogo han sido publicadas en un breve, pero insinuante ensayo, “Posmodernidad, posmodernismo y socialismo” (1993). En una conversación crítica y sincera con la posmodernidad, Sánchez Vásquez postula una interesante ubicación del pensamiento de Marx.
Marx de alguna manera es un pensador moderno, pero es un pensador moderno que tiene algunos atisbos radicalmente críticos de la modernidad, al proponer superar algunos elementos de una modernidad patógena. Un Marx mucho más radical que Habermas en esa crítica. “La visión marxiana de la modernidad es inseparable de la crítica a fondo de su forma burguesa”.
Hablaríamos de cuatro elementos: el universalismo, la idea de progreso, la historia teleológica hacia un único fin, y el productivismo. Y los acentos del profesor Sánchez Vásquez son los siguientes: Marx sigue siendo universalista. Es hijo de Kant, heredero de Hegel. Marx sigue siendo alguien que cree desesperanzada o esperanzadamente en el progreso, pero no en una cualquiera concepción del progreso, porque existen muy diversas vertientes de la idea de progreso: la versión escatológica cristiana del progreso, aquella que se origina en las ciencias naturales y en la tecnociencia, también la versión que se origina en la economía y la calidad de vida, pero existe otra alternativa que convierte en criterio la autonomía y autogestión de los ciudadanos libres. A esa es la que se arriesga el radicalismo de Marx.
“Marx no se desprende totalmente del lastre racionalista universal, progresista, teleológico y eurocéntrico del pensamiento burgués ilustrado”.
Marx nunca creyó en un socialismo o en el capitalismo productivista, en la producción que destruye o en la tecnociencia como único criterio de desarrollo social; nunca le apostó a una modernización sin modernidad. No podría conciliar con una visión neoliberal de la modernidad.
Consideramos, para terminar, y Sánchez Vásquez lo solicita al concluir su ensayo, que en Marx no hay una concepción teleológica unilineal de la historia. Contribuir a fundar, esclarecer y guiar la realización de ese proyecto de emancipación que, en las condiciones posmodernas, sigue siendo el socialismo –un socialismo si se quiere posmoderno– sólo puede hacerse en la medida en que la teoría de la realidad que hay que transformar y de las posibilidades y medios para transformarla, esté atenta a los latidos de esa realidad y se libere de las concepciones teleológicas, progresistas, productivas y eurocéntricas de la modernidad, que llegaron incluso a impregnar al pensamiento de Marx y que se han prolongado en nuestro tiempo.
Acompañado de dos afirmaciones de Marx en el Manifiesto Comunista, sería inútil persistir en esa unilinealidad teleológica. Dos breves alusiones en la última parte del capítulo II y la primera del capítulo I escriben Marx y Engels: “Surgirá una asociación en que el libre desenvolvimiento de cada uno será la condición del libre desenvolvimiento de toda la sociedad. Las comunidades, de alguna manera, y los individuos decidirán su destino histórico”; nada más ajeno a una posible interpretación determinista o teleológica de la historia.
Y aquella frase que ya casi todos conocemos de memoria: “La historia de toda la sociedad hasta nuestros días es la historia de la lucha de clases”. Advirtiéndose que el “hasta nuestros días” es necesariamente una frase condicional, podrá haber y existirán historias y destinos distintos. Y recordando la famosa nota de pie de página que le añade Engels a la nueva edición del Manifiesto Comunista, esa frase que también de alguna manera relativizada, es una parte de la historia, no toda la historia. Engels añade: “La historia escrita”. Por eso quien le añadió al marxismo una idea teleológica unilateral de la historia, no creo que haya sido Marx.
Bibliografía
Berman, M., Todo lo sólido se desvanece en el aire, Siglo XXI Edit., España, 1988.
Blanchot, M., La risa de los dioses, Edit. Taurus, Madrid, 1976.
Derrida, J., Espectros de Marx, Edit. Trotta, España, 1995.
García Canclini, N., Culturas híbridas, Edit. Grijalbo, México, 1990.
Habermas, J., El discurso filosófico de la modernidad, Edit. Taurus, Madrid, 1995.
Lyotard, J. F., La posmodernidad (explicada a los niños), Edit. Gedisa, España, 1996.
Negri, A., El poder constituyente, Edic. Libertarias, España, 1994.
Negri, A. y F. Guattari, Las verdades nómadas, Edit. Iralka, Bilbao, 1996.
Sánchez Vázquez, A., “Posmodernidad, posmodernismo y socialismo”, en Revista Plural, No. 3, Año 1.
Vattimo, G., El fin de la modernidad, Edit. Gedisa, España, 1996.
Vega, R. (editor), Marx y el siglo XXI, Edic. Pensamiento Crítico, Bogotá, 1998.

The rise of Trump and the global right and other loose ends

The rise of Trump and the global right and other loose ends
May 31, 2017
1. In the last two decades of the 20th century, two seismic events occurred. First was the rise of the right in the U.S. and the ascendancy of neoliberalism across the capitalist world, which became the grease for the retreat, transformation, and taming of social democratic and liberal politics. The other was the sudden and unexpected collapse of the Soviet Union, which had been the mainstay of the communist movement and world socialism from its inception.
Looked at another way, the two main political currents of the working class movement – communism and social democracy – that challenged capitalist power to one degree or another in much of the world in the last century took a drubbing. It was a setback of the first order. Neither was down for the count, but historical initiative passed from their hands.
The winner in this contest was their common adversary — capitalism. And its cheerleaders took every opportunity to crow about its success. But its victory was short lived. Capitalism in its neoliberal form, resting on a turn to finance and unchecked financial and capital flows, the explosion of debt among investors and consumers alike, a punishing austerity and inequality, the dramatic expansion and spatial redistribution of global labor, and the atomization of the working class and other oppositional social constituencies, grew for sure.
But at the same time, its performance was sullied by its inability to recapture its old economic dynamism of earlier decades and spread its bounty to broad sections of wage and salary workers and other social constituencies – especially people of color and women.
This lackluster performance, however, turned into a catastrophic condition when a world-wide economic crisis struck in 2008 and shook the foundations of capitalism, while spreading hard times to people everywhere.
Not surprisingly, this massive implosion triggered a surge of mass anger and popular resistance, and undercut capitalism’s legitimacy worldwide. And into this breech stepped progressive and left people and organizations — old and new. But the right, already a dominant actor in U.S. politics and a growing presence elsewhere in the world, seized this moment as well, and actually with greater vigor than a left that was the fractured and less politically coherent.
Presenting itself as an outsider and defender of the nation and its “culture,” zealously employing xenophobic, racist, nationalistic, and even anti-capitalist rhetoric, and enjoying the financial and institutional support of a bevy of deep pocketed moneybags in finance, industry, and real estate, the right captured the imagination and shaped the thinking of millions, including sections of white workers.
Meanwhile, U.S. imperialism, free of its Soviet foe after a half century, paradoxically had a hard time exploiting its new advantage in the international arena. The overnight erasure of its global rival and the establishment of a military network that encircled the globe gave U.S. imperialism new latitude to maneuver. But that was quickly squandered in endless wars, beginning in Yugoslavia and then moving to Afghanistan, Iraq and elsewhere in the Middle East and horn of Africa.
In each bloodland, the projection of asymmetrical military power came with massive unintended consequences that even now show no sign of easing. If anything this display of force revealed the limits of the use of U.S. military power to shape the world according to U.S. interests in the 21st century.

Indeed, U.S, global power brokers still confront an at times (and now increasingly so) reluctant Europe, formidable regional competitors (Russia and Iran especially), and as it gazes across the Pacific, it sees a potential global peer and competitor in a rising China.

U.S. imperialism isn’t yet in a terminal crisis, to use the term of the great social theorist Giovanni Arrighi, but its hegemonic status on a global level, projecting out into the 21st century, is far less secure than some suggest. Moreover. It is in this significantly reconfigured national and global context that Trump’s candidacy and Electoral College victory — not to mention the rise of the right in Europe and elsewhere –is best understood.

2. Any accounting of successes in restraining Trump has to go beyond the seemingly obligatory invocation of the “Resistance Movement.” Give it its due for sure and find ways to expand its reach and depth too.
But an analysis should also include the positive role of the Democratic Party and the mass media, the rifts, even if small, in the GOP, and the discontent with Trump that is growing in elite circles in the state, courts, and economy — not to mention Trump’s breath-taking incompetence, indiscipline, out of control ego, and habit of putting his foot squarely in his mouth. In some ways, he is his worst enemy.
Which goes to prove once again that the process of social change is complicated, contradictory, and full of surprises and paradoxes. It doesn’t come, as much as we might wish, in pure and neat forms. Not one class — the working class — here and another class — the capitalist class — there. Not the people at one pole and the elites (and “establishment”) at the other. Not actors with impeccable credentials and unimpeachable aims on one side, while nothing but bad actors with scant possibility of a change of mind on the other.
In other words, if we are looking for simple and cut-and-dried explanations and schemes, we aren’t going to find any. And if we do, we would probably do ourselves (and others) a favor by digging a little deeper.
3. In an interesting article, Nate Silver writes that Trump’s high floor of support — thought by many to be set in stone — is eroding. According to Silver, his strongly approve numbers have fallen significantly, while those who strongly disapprove of Trump have tracked upward. This, Silver says, could turn into an “enthusiasm” advantage for the Democrats in next year’s elections.
“Trump,” Silver adds,” has always had his share of reluctant supporters, and their ranks have been growing as the number of strong supporters has decreased. If those reluctant Trump supporters shift to being reluctant opponents instead, he’ll be in a lot of trouble,3 with consequences ranging from a midterm wave against Republicans to an increased likelihood of impeachment.”
“So while there’s risk to Democrats in underestimating Trump’s resiliency, there’s an equal or perhaps greater risk,” Silver concludes, “to Republicans in thinking Trump’s immune from political gravity … If you look beneath the surface of Trump’s approval ratings, you find not hidden strength but greater weakness than the topline numbers imply.”
All this is music to my ears. Yours too, I’m sure. And I also hope that it will give new momentum to the far flung and varied coalition that opposes Trump.

Democracia Genérica.Por una educación humana de género para la igualdad, la integridad y la libertad

Democracia Genérica. Por una educación humana de género para la igualdad, la integridad y la libertad. 1994
Dra. Marcela Lagarde, Asesora de la Red de Educación Popular Entre Mujeres del Consejo de Educación de Adultos de América Latina.

Construir un mundo democrático requiere cambios profundos en las mentalidades, en las creencias y en los valores de las mujeres y de los hombres. Sin embargo, las concepciones más difundidas y aceptadas acerca de la democracia se centran en aspectos del régimen político, de las relaciones entre la sociedad y el Estado, entre el gobierno y la ciudadanía y de las relaciones entre los grupos sociales.

Así, la democracia planteada desde esas problemáticas es restringida. Nuestro propósito es ampliarla e incluir en su construcción las condiciones históricas de mujeres y hombres, el contenido diferente y compartido de sus existencias y de las relaciones entre ambos géneros, con el fin de modificar las concepciones y las prácticas de vida patriarcales que legitiman las relaciones de dominio y las diversas opresiones que ese orden del mundo genera y recrea.

El presente texto contiene elementos de análisis para comprender la conformación de la opresión patriarcal y explicar su peso en la recreación de modos de vida antidemocráticos, autoritarios y violentos. Contiene, asimismo, un conjunto de propuestas culturales de tipo educativo que permitirán legitimar en las conciencias individuales y colectivas, alternativas de vida para convertirnos aquí y ahora en mujeres y hombres íntegros y libres. Son medidas concretas de justicia y protección, y de satisfacción de necesidades invisibles para el orden dominante. La búsqueda de alternativas lleva a la construcción de un nuevo orden social basado en un tipo de democracia que incorpore en contenidos y en formas de acción la democracia de género. Los principios de la democracia genérica recorren caminos para conformar la igualdad entre mujeres y hombres a partir del reconocimiento no inferiorizante de sus especificidades tanto como de sus diferencias y sus semejanzas. Los cambios necesarios para arribar a la igualdad entre los géneros y a la formación de modos de vida equitativos entre ambos, impactan la economía y la organización social en sus relaciones, así como los ámbitos privados y públicos. En esta democracia la política, concebida como espacio de pactos y poderes, debe ampliarse para incluir a las mujeres como sujetos políticos. La cultura requiere una renovación que desde el arte hasta la ciencia atestigüe, exprese y formule este conjunto de procesos.
En este camino, se requieren también cambios jurídicos que desechen normas opresivas y conviertan en preceptos las vías hacia la igualdad entre los géneros, que reconozcan la especificidad de cada género, que respeten las diferencias entre ellos y tiendan a arribar a la equidad. Necesitamos un marco jurídico que consigne los derechos innovados y asegure su cumplimiento. Se trata de hacer espacio a derechos colectivos por género, que contengan la venia para desmontar la dominación y construir una normatividad genérica sin estereotipos compulsivos y antagonizados ser mujer o ser hombre, lo masculino o lo femenino, que tengan como prioridad preservar la especificidad de cada quien. En esta perspectiva, es de particular importancia lograr la individualidad de cada mujer como derecho del género, debido a que las mujeres han sido negadas, al ser subsumidas en el genérico el hombre, simbólico de la naturaleza humana. Pero las mujeres son negadas también en el genérico la mujer, cuyo contenido es una supuesta esencia femenina natural. Sólo el ser específico y el derecho a serlo, aseguran la posibilidad de ubicar a las mujeres y a los hombres en la historicidad que los contiene. Sólo así tendremos existencias e identidades no estereotipadas: dinámicas, renovables y continuas. Queremos un mundo sin segregación de géneros, mixto, de espacios compartidos y opciones dé vida abiertas para todas y todos. Convocamos al compromiso por lograr el bienestar común y el buen vivir de cada quien.
Esta propuesta surge de las experiencias de millones de mujeres en el mundo a las que se suman cada vez más hombres. Sólo recoge lo que han vivido, es un esfuerzo más por tener expresión cultural positiva y respetable. Da cuenta de los deseos insatisfechos, la falta de certezas y las dudas, tanto como de sus aspiraciones y de su obstinado afán de invención del mundo. Surge de las luchas, de los movimientos, de las organizaciones y de las instituciones que se han esforzado por construir un orden democrático entre mujeres y hombres y dar fin al mundo patriarcal. Queremos que esta tradición sus descubrimientos y sus resignificaciones sea parte indispensable de los procesos que confluyen en el compromiso de construir un mundo democrático, justo, pródigo, acogedor y generoso para más y más personas. Un mundo que tienda a satisfacer los derechos humanos de mujeres y hombres, y busque desmontar los impedimentos
que obstruyen su concreción, aunque esos obstáculos sean presentados en las ideologías del dominio como normales, inevitables o naturales. Nos afanamos por incluir en la visión renovadora del mundo la inaplazable transformación de mujeres y hombres, concebida por la gente más conservadora como algo secundario frente a otras cosas a las que asignan mayor relevancia. Lo hacemos, por la importancia que tiene en la vida de cada quien y de la sociedad el contenido de la condición genérica y del sistema de géneros. Las estrategias, los proyectos y las acciones políticas civiles, gubernamentales, personales o colectivas, que no atiendan a enfrentar las dificultades que genera el patriarcado, son utilitaristas e instrumentalizan las necesidades y las aspiraciones de las personas al proyectar su solución en hechos que no conducen a lograrlo. Además, contribuyen, por omisión o por complicidad con las corrientes tradicionalistas que se afanan por preservar un mundo autoritario, rígido y sin opciones. Queremos ampliar y extender los derechos humanos cada vez más. Porque en el fin de siglo y de milenio se incrementan la pobreza, la violencia, la explotación, y todo tipo de opresiones, daños y depredación, y se arrasa día a día con los mínimos derechos humanos reconocidos. Nos orienta, además, una idea positiva sobre los derechos humanos los cuales deben ser observados no sólo como la preservación de los sujetos frente a la autoridad, sino como el conjunto de condiciones mínimas en permanente ampliación para el desarrollo sostenible, para el bienestar y para el bienvivir de los pueblos, de las sociedades y de los individuos: de las mujeres y de los hombres. Queremos, además, que la extensión de los derechos humanos especifique los derechos de las humanas y los humanos, y la ética de compromiso con la custodia y la renovación de la sociedad, la cultura y la naturaleza. Si los planes, las utopías y las topías de las diversas fuerzas sociales y de las corrientes políticas, ideológicas y culturales, no incorporan la dimensión de género en sus opciones, seguramente lograrán intervenir en el sentido de la vida y en el contenido de la cotidianidad, de la sociedad y del Estado. Sin embargo, coadyuvarán a reproducir ignorantes e inconscientes una de las dimensiones más atroces de nuestro mundo y, con ello, el sufrimiento y la opresión de las mujeres y de muchos hombres. En cambio, si quienes hacen suyas las causas renovadoras de nuestro tiempo, asumen un compromiso político radical de género, buscarán cauces para cambiar de raíz el carácter opresivo del orden genérico y de la vida misma y se ubicarán en una ética distinta, más profunda y abarcadora, de la libertad y compromiso. Es la ética que, en lugar de reducir a uno o dos ejes los propósitos de renovación del mundo, incluye más y más hechos y procesos históricos que ocasionan enajenación, explotación y opresión. Esta ética, nos conduce a no ser cómplices
del dominio patriarcal: pone en el centro del sentido de la vida a los dos sujetos de género que la conforman y hace suya la alternativa de la justicia entre los géneros que conduzca a la integridad de mujeres y hombres. Si nuestra visión del mundo se organiza en torno a una ética libertaria, que concibe y trata a las mujeres en tanto mujeres y a los hombres en tanto hombres, ubicados en su cotidianidad y en el horizonte de las vidas colectivas e individuales, habremos ampliado nuestro universo y, sobre todo, nos ubicaremos de veras en el paradigma de una libertad compleja y diversa: realizable. Este texto es un recurso, entre otros, para diseñar una política alternativa de educación popular con una perspectiva democrática de género. Cada quien, desde su ubicación y sus posibilidades, dará contenido y hará realidad lo que aquí sólo se propone como estímulo para alentar consideraciones, aventuras y osadías. A continuación se presentan los siguientes temas para ubicar los problemas, los recursos y algunas vías para la acción práctica: 1. El mundo 2. La cultura 3. El orden 4. Dialéctica patriarcal 5. Pedagogía patriarcal 6. Cambiar el mundo patriarcal 7. Nueva pedagogía patriarcal 8. Democracia de género 9. Pedagogía en síntesis 10. La tolerancia. 1. EL MUNDO
El mundo contemporáneo se caracteriza por una organización social de géneros y por una cultura sexista machista, misógina y homófoba que expresa y recrea la opresión de las mujeres y de todas las personas que son diferentes del paradigma social, cultural y político masculino. Se caracteriza, asimismo, por un sistema político, público y privado, de dominio de los hombres sobre las mujeres y de los adultos poderosos sobre otros hombres, así como por la dominación genérica enemistad entre las mujeres. A ese orden del mundo lo llamamos patriarcal. Vivir en el mundo patriarcal significa que más allá de nuestra voluntad y de nuestra conciencia, las mujeres y los hombres ocupamos espacios vitales jerarquizados, cumplimos con funciones y papeles, realizamos actividades, establecemos relaciones y tenemos poderes o carecemos de ellos, de maneras prefijadas por la sociedad y con márgenes estrechos y rígidos. Es decir, estamos sujetas/os a un orden social, económico, jurídico, político y cultural jerárquico, opresivo e injusto, basado en el género, que conforma la sexualidad y determina, en gran medida, los itinerarios de nuestras vidas. El carácter patriarcal del mundo ha permitido concentrar bienes materiales y simbólicos la tierra, el dinero, el capital, las mujeres, el saber, el poder político en mano de los hombres.
También ha asegurado la expropiación a las mujeres de todas sus posesiones su cuerpo, los productos de su creatividad y sus bienes las ha convertido en posesión, bajo control y tutela, y ha logrado su exclusión forzada de los ámbitos, las actividades y las funciones más valoradas y poderosas, reservadas en exclusiva para los hombres. La vida cotidiana patriarcal se funda en el establecimiento de un campo de dominio entre hombres y mujeres, quienes son además, mutuamente necesarios para vivir en la intimidad y de manera cada vez más frecuente para realizar actividades conjuntas en espacios públicos. En este campo de dominio quedan atrapados las mujeres y los hombres que transgreden las reglas y las normas de comportamiento y de vida asignados para ellas y ellos. Así, no sólo la misoginia y el machismo campean en y entre nosotras y nosotros, sino también la homofobia y la descalificación como enfermos, inadaptados, asociales, locos y locas con el consiguiente maltrato represivo a quienes luchan contracorriente por cambiar el mundo y sus vidas: las feministas, los gays y las personas libertarias. La dominación de género se articula con otras formas de dominio nacional, clasista, racista, étnico, etario y otras; forma parte de ellas, converge en su reproducción y encuentra soporte para su propia recreación. La organización patriarcal del mundo contribuye, en gran medida, a producir formas de explotación, no sólo económica sino vital sexual, emocional, intelectual, existencial y a mantener en el sometimiento, en la pobreza y en la precariedad a la mayoría de mujeres y hombres. Millones de personas viven bajo formas graves de dominio, de daño, de agresión y de exterminio, por su condición de género. Pero el sistema hace que aun los hombres desposeídos puedan ejercer formas de dominio -rivalidad, competencia, hostilización y destrucción sobre otros indigentes como ellos y sobre todas las mujeres. Así, aunque sean explotados y subordinados, los hombres son poderosos frente a las mujeres. Por eso, aún sometidos conservadores, liberales, de izquierda, de base o dirigentes, comprometidos o ensimismados se aferran a su derecho “natural” de dominio y, por consiguiente, se oponen a modificar el mundo. En cambio, las mujeres, en todos los niveles sociales están cautivas: ocupan las posiciones económicas, sociales y simbólicas inferiores y, además, están bajo dominio directo y personal expropiación, control, vigilancia, sujeción, castigo ejercido por las personas más cercanas, más necesarias y entrañables para ellas. Las mujeres están sujetas a opresión en sus espacios y sus grupos de pertenencia, aquellos que de manera contradictoria, debieran otorgarles seguridad, protección y pertenencia: su comunidad, su familia, su pareja, y los grupos en los que se desempeñan: escolares, laborales, religiosos o políticos. Finalmente, las mujeres están sujetas al dominio del conjunto de la sociedad, garantizado por las normas que las ubican como habitantes o ciudadanas de segunda, como menores de edad, como mitades o medias naranjas de alguien, seres marginales o como minoría. En este orden se les asignan espacios sociales secundarios y actividades inferiorizadas. La sociedad ejerce su dominio sobre todas y cada una de las mujeres de diversas maneras, desde la más brutales hasta las más encubiertas, y lo hace guarnecida y consensualizada por la cultura sexista, machista y misógina. De esta manera, al mantener en condiciones precarias a tantas y tantos, el patriarcado reproduce formas arcaicas y frena el desarrollo económico, social y cultural, la construcción de la democracia, y la materialización de los derechos humanos. Es un obstáculo para la modernidad. La dominación patriarcal confiere al mundo y a la convivencia una de sus dimensiones más crueles, despóticas y autoritarias, al estar presente en todos los ámbitos sociales públicos y privados, desde las redes de parentesco hasta las de contrato, la alianza y la coalición, en las tradiciones más apreciadas, en las sabidurías, en las religiones tanto como en las ideologías, en el arte, en las costumbres, y en la vida cotidiana e íntima de las personas. Todas las relaciones sociales están definidas patriarcalmente y todas las identidades colectivas e individuales, están permeadas en mayor o en menor medida por la impronta patriarcal. El Estado, como síntesis política de fuerzas, instituciones, normas, pactos, mandatos, conflictos, consensos y coerciones, es un ámbito patriarcal, además de contener definiciones étnicas y clasistas. El ámbito estatal sintetiza también la confluencia de instituciones transnacionales jurídicas, financieras, religiosas de claro signo patriarcal. La hegemonía patriarcal implica que grandes grupos sociales dominantes y dominados, la consideran legítima en alguna medida y que mantienen cierta cohesión a través de su defensa y del rechazo acrítico y prejuiciado de cualquier opción, alternativa o disidencia. Por eso es evidente, que gran cantidad de mujeres y hombres, además de vivir determinados por el orden patriarcal, le otorgan su consenso al asociarlo a su seguridad, su certidumbre, su felicidad, su éxito y su trascendencia. Es decir, el mundo y cada quien tiene una identidad patriarcal. Ser, es serlo de cierta manera y no de otra.
Existir y realizarse, significa concretar los mandatos cuya marca es precisamente patriarcal. Por eso, a pesar de ser dañino para mujeres y hombres el orden patriarcal, como es el medio conocido para alcanzar los logros vitales, aún quienes padecen los rigores patriarcales, se afanan por mantener ese modo de vida, por ampliar su influencia y por acallar las inconformidades, propias y ajenas, que suscita. No obstante la fuerza y el poderío de quienes avalan el patriarcado, en todos los ámbitos y relaciones sociales se desarrollan contradicciones que dan lugar a desacuerdos y críticas entreveradas con aprobación y consenso, así como a formas de resistencia y rechazo al modo de vida patriarcal. Como las mujeres son el sujeto principal y mayoritario de la opresión genérica, los conflictos de la dominación las hacen vivir desde precarias rebeldías, hasta rebeliones sociales. Su contrariedad se manifiesta en subversiones individuales y colectivas, y se concreta en movimientos políticos de resistencia, extrañamiento y franca oposición al patriarcado. Los hombres son los ambivalentes sujetos del patriarcado. Por un lado, son los dominadores, los dueños del mundo, de los bienes materiales y simbólicos y de las mujeres, los especialistas en la creación y el trabajo, los dueños del pensamiento y de la razón, los creadores de explicaciones y creencias. Por otra parte, los hombres son, a la vez, dominados por hombres más poderosos por su jerarquía, su edad, su clase, sus conocimientos, su poderío, o por otras cualidades. Así, los hombres dominadores, los patriarcas, también están sometidos, por lo menos temporal o parcialmente, a formas de dominio patriarcal. Y, aunque todos los hombres soportan la dureza de ese dominio, alentados con la fantasía de ser algún día poderosos dominadores y dejar de estar sometidos a otros, gran cantidad de hombres, no logran remontar su propia situación. O, lo que es más grave para ellos, pierden cada vez más posibilidades y recursos que les eran propios por su condición genérica, es decir, por el sólo hecho de ser hombres. Así, cada vez mas señores del patriarcado son minados por expropiaciones de los ordenes clasista, racista, etnicista, y por otros procesos como las formas de dirección, organización y gobierno de las sociedades caracterizadas por el autoritarismo fascismos, nazismos y todo tipo de dictaduras que restringen a unos cuantos hombres las posibilidades de realizar el paradigma de género asignado.
La democracia tradicional, como pacto entre hombres, busca, por cierto, hacer frente a, la exclusión y la expropiación de unos hombres por otros. El principio básico ha sido incorporar a los desposeídos en una inequitativa participación. Esta forma de democracia ha sido el intento de suavizar desde la lógica y la ética patriarcales marcadas por una mínima solidaridad entre hombres las otras formas de rapacidad y destrucción entre ellos mismos producidas por la explotación y el sojuzgamiento. Esas y otras son contradicciones inherentes a la condición masculina en este orden genérico y hacen comprensible que algunos hombres se resistan o se rebelen al sino patriarcal. Unos no pueden con la carga de ser patriarcas; otros, por más que se esfuerzan, no pueden serlo; y algunos además no están de acuerdo. Así, aunque sean beneficiarios, hay hombres que no se identifican del todo con el sistema o, en desacuerdo con algunos aspectos, se rebelan contra deberes, comportamientos y exigencias patriarcales, al mismo tiempo que gozan de bienes, servicios, privilegios, deferencias y comodidades reservados para ellos. Entre esos hombres, es común que su desacuerdo se manifieste como rechazo a formas extremas de machismo y como apoyo y solidaridad, en diferentes grados, a las mujeres como género y a algunas mujeres particulares, y como apoyo al feminismo o a los movimientos de mujeres. Con ellos ha sido posible compartir y construir ideas y caminos transformadores. De las resistencias y las rebeliones surgen, simultáneamente, alternativas de vida que se proponen remontar el patriarcado mediante la superación de las estructuras y de las instituciones que lo reproducen, así como a través de la generalización de nuevas relaciones y contenidos de ser mujeres y ser hombres. No sabemos la dimensión real de este desacuerdo con el patriarcado. Pero el malestar cultural y político, la inconformidad y la oposición a ese orden existen y se expresan de maneras diversas que abarcan desde las ideologías, hasta prácticas sociales alternativas. Opciones como éstas se ven favorecidas al agudizarse las condiciones de vida que genera el patriarcado y al caer uno a uno sus mitos de perfección, eternidad y beneficencia universales. De ahí que cada vez más mujeres y hombres se convencen de la necesidad de cambiar al conocer e imaginar otras posibilidades.
2.LA CULTURA El orden patriarcal ha desarrollado una cultura que fundamenta y explica su propia legitimidad con el mito primigenio sobre un orden proveniente de la naturaleza, el cual es transmisible genéticamente, es decir, es hereditario y está determinado por cargas instintivas. Este mito es parte estructurante de ideologías de diverso signo, desde cientificistas hasta religiosas. Más allá de las diferencias entre algunas concepciones científicas y religiosas, en cuanto al sentido del patriarcado, guardan una profunda semejanza. Comparten como principio explicativo la verdad dogmática, que se manifiesta como la verdad sagrada o la verdad natural, en función de la génesis que se le asigne. Por separado o coaligadas, ambas contribuyen a conformar el dogma de un orden genérico creado por divinidades inconfrontables o por la naturaleza, igualmente inasible como voluntad. Las, son parte de diferentes concepciones y discursos antagónicos o creencias dogmáticas sobre la génesis y la eternidad históricas de los géneros complementarios. El orden natural es presentado como evidencia que niega al orden divino en ideologías que oponen naturaleza / deidad, ciencia / religión. Por el contrario, el orden natural es concebido como una creación divina que expresa la voluntad de deidades, en visiones que suman deidad, naturaleza, religión y ciencia. Como sea, en cualquier discurso estas ideas conducen a la creencia en que el orden patriarcal sujeto a mecanismos naturales o divinos está, significativamente, fuera del control social, de la dialéctica de la historia y de la voluntad política. La mayoría de las personas cree que el orden genérico es inmutable, que se nace mujer o se nace hombre con todos los atributos y que, tanto el orden como las condiciones genéricas emanadas de la naturaleza o de la divinidad, son verdaderos, buenos e intocables. La mayoría de las personas tiene instalada la prohibición, el tabú, de modificar el sentido genérico, o siquiera pensarlo y, más aún, de hacerlo críticamente. Si se está inconforme, el deber llama a la resignación y a la culpabilización. Quien está mal no es el mundo, sino la persona, el grupo, el movimiento, la alternativa. Así, las opciones son satanizadas políticamente. Creencias como éstas son parte de concepciones del mundo conformadas por cosmogonías explicaciones sobre los orígenes por mitologías, filosofías, ideologías, historias y utopías universales, nacionales, regionales, grupales destinadas a la elaboración de la memoria, del presente y del futuro, así como por lenguajes corporales, verbales, escritos, estéticos que expresan la racionalidad patriarcal sobre esos hechos.
Así, la razón patriarcal se encuentra en la conciencia individual y colectiva, en las vivencias inconscientes, en las fantasías, en las alucinaciones, en el imaginario y en las visiones sobre la experiencia vivida. De esta manera la cultura de género sintetiza un conjunto de interpretaciones y de maneras de ver el mundo que abarcan a sociedades complejas y a cada persona particular. La cultura patriarcal contiene una perspectiva ética que ubica en el deber, la adecuación, la permisividad, la inadecuación y la prohibición, a las acciones, los pensamientos, las razones y las sinrazones, los afectos y los comportamientos de millones de mujeres y hombres. Esta cultura se sintetiza en filosofías que convalidan el sentido patriarcal del mundo y lo convierten en el sentido de la vida de cada persona y de los grupos sociales que, aún sin conocerse, en territorios y tiempos históricos distantes, comparten intereses, preocupaciones y respuestas a sus por qués y para qués y, sobre todo, están sujetos a idénticos mandatos. De esta manera, la cultura patriarcal se concreta en mentalidades patriarcales muy semejantes. Se plasma en todo tipo de creencias, mitos, simbologías, tradiciones y costumbres, y de prácticas y rituales, que hacen accesibles sus fundamentos a las personas más diversas. La cultura patriarcal es contenido de su subjetividad y por ello moldea los afectos que les permiten: sentir el contenido patriarcal de la vida como parte de su historia personal, familiar, comunitaria, étnica, nacional, religiosa o ideológica, como parte de su piel. Cuando la felicidad o la trascendencia expresan el deseo de las personas de realizar los mandatos patriarcales, estamos frente al mayor éxito político: se ha logrado que cada persona se convierta en ejecutora, en promotora, en vigilante y en defensora, en un ser emblemático del mundo patriarcal. Para arribar a ese estado, cada quien ha aprendido sus fundamentos y sus particularidades, los ha internalizado y existe al realizarlos en su vida cotidiana. 3. EL ORDEN El orden patriarcal es lesivo y dañino para la mayoría de las personas, especialmente, para todas las mujeres. Y esto sucede a tal grado que, desde la perspectiva de los derechos humanos, hoy es un riesgo ser mujer. El patriarcado somete a formas de explotación y opresión típicamente genéricas a las mujeres, al inferiorizarlas, discriminarlas y subordinarlas, y al ejercer violencia sobre ellas precisamente por ser mujeres y no por serlo de manera adecuada. De antemano, sin ninguna evidencia empírica, las mujeres son consideradas inferiores e incapaces de desempeñar actividades y funciones que son reservadas en exclusiva para los hombres, o en las actividades que se consideran de carácter histórico, producto de la creación humana (masculina). Incluso se jerarquiza a las mujeres entre si unas son más inferiores que otras al evaluar las actividades que se consideran propias de ellas. Las mujeres son discriminadas previa y sistemáticamente a través de juicios y prohibiciones que las excluyen de actividades, espacios y hechos, reservados para los hombres. Y a la inversa, se discrimina a las mujeres no sólo al considerarlas incapaces, inadecuadas e incompetentes para esas cosas, sino también al incluirlas o asignarles deberes y atributos exclusivos estereotipados, a los que se interpreta como naturales; como cosas que les ocurren a las mujeres o que las mujeres hacen sin que medie esfuerzo creativo, historia, sino automatismo natural. Las mujeres están subordinadas a los hombres y a las instituciones patriarcales y son colocadas en situación minorizada en todos los espacios sociales y en sus vidas. Así, las mujeres están sujetas a la tutela de otros que, frente a ellas, se constituyen automáticamente en poderosos. Los fenómenos de discriminación, sujeción, subordinación y minoridad de las mujeres se dan, además, en condiciones de su dominio. Las mujeres son controladas, dirigidas, representadas, vigiladas, dañadas legítimamente y castigadas e incluso perdonadas, por los hombres y por las instituciones, quienes tienen el derecho de ejercer ese conjunto de formas de dominio sobre ellas, porque de antemano se las considera inferiores, incapaces y destinadas. En este esquema político de concentración de valores, bienes y fuerzas, los hombres como género y cada hombre particular, se cargan de poderes extraordinarios. Comparados con las mujeres previamente expropiadas, resultan superiores, completos, poderosos, capaces, dueños y amos de ellas y del mundo. El orden político patriarcal hace realizar a las mujeres actividades fundamentales para la reproducción de la sociedad a través de la filialidad, de la conyugalidad y de la maternidad. En concreto, se les asigna la reproducción de la vida cotidiana, de sus sujetos (parientes y cónyuges, amistades y visitas) y de sus instituciones (familia), de sus espacios ( casa, hogar, hospital, templo), así como de la cultura doméstica (lengua materna, sentido común, ritualidad y estética domésticas). Forman parte de este proceso la reposición cotidiana de cada persona, lograda a través del trabajo y del conjunto de actividades vitales que le permiten estar en condiciones de vivir cada día, de sobrevivir la enfermedad y enfrentar la muerte. La reposición o revitalización de cada quien debe ser directa, íntima y personalizada, y está a cargo de las mujeres de todos los grupos sociales.
Es el contenido de la maternidad que aún define la condición genérica de las mujeres y la feminidad, y permite a cada quien mantenerse con vida en las condiciones óptimas de los círculos particulares en los que vive. La reposición cotidiana de las personas se debe al trabajo exhaustivo de las mujeres y al gasto de sus energías vitales tanto intelectuales conocimientos, saberes, pensamientos, interpretaciones, explicaciones como afectivas deseos, amor, capacidad de reparación, creencias, preocupaciones. Esas energías vitales permiten, a su vez, vitalizar a las personas próximas, a los otros, corporal, erótica, emocional e intelectualmente. El esfuerzo pedagógico de las mujeres forma parte también de la reposición cotidiana de las personas. Las mujeres como madresposas: mamás, abuelas, tías, nanas, hermanas, sirvientas, novias, esposas, amantes, amigas son las encargadas de aculturar a las personas, de transmitir de una generación a otra la propia cultura, incluida la dimensión de género, así como de recrear cotidiana y constantemente, durante toda la vida, las normas, los valores, las tradiciones y las creencias. Todas ellas deben además afanarse en la enseñanza de destrezas, habilidades y conocimientos que permiten a cada quien la sobrevivencia y el desempeño en el mundo. Las mujeres siempre trabajan. Y, es posible afirmar que en la actualidad, las mujeres como género son el grupo social que trabaja continuamente y que trabaja más: una, dos, tres jornadas discontinuas. Las mujeres trabajan casi durante toda su vida desde que son pequeñas niñas, hasta que son ancianas. Pero su trabajo ni siquiera recibe ese nombre porque no se considera al trabajo como elemento de la naturaleza femenina. Así, el trabajo de las mujeres es, de hecho, invisible. Y, para la cultura patriarcal, como actividad histórica, el trabajo es una característica genérica de los hombres, de fuerzas, divinidades y toda clase de seres sobrenaturales masculinos, así como de la masculinidad. La contradicción es extraordinaria: las mujeres realizan mayor trabajo social y, por lógica patriarcal, el trabajo solo es parte de la identidad y de la cultura femenina cuando se le vincula al cumplimiento y al deber naturales. En la cultura patriarcal el trabajo es un atributo de género asignado a la masculinidad y a los hombres. A su vez ellos, en la actualidad, ven estrecharse sus posibilidades de trabajo como lo demuestra el número creciente de hombres desempleados, cesados, sin actividad productiva reconocida. Aún con tiempo disponible, esos mismos hombres tampoco realizan actividades domésticas consideradas femeninas e inferiores.
Al parecer, si los hombres realizan actividades, laborales o funciones asignadas a las mujeres, no sólo está en juego su masculinidad, sino que son contaminados por la impureza simbólica de lo femenino, inferior y despreciable. Esta división del trabajo práctico por género y la consideración de que el trabajo no es un atributo simbólico femenino legitiman, ideológicamente, no remunerar a las mujeres por su trabajo y privarlas de bienes materiales y simbólicos que deben obtener de los hombres, a cambio de su explotación y de su sujeción. Ellos extraen trabajo, productos y bienes impagos de las mujeres y los monopolizan, los usan, los derrochan o los destruyen, para su propio beneficio, o los ahorran, los incrementan y los atesoran en instituciones que los redistribuyen de manera inequitativa. Las mujeres quedan así sometidas, sujetas y controladas, con el señuelo de obtener de hombres e instituciones una pequeña parte de lo que han producido y les es conculcado, y una mísera porción de la riqueza social. Los hombres se empoderan se jerarquizan, prestigian y valorizan, e incrementan su capacidad de dominio sobre su vida y sobre el mundo a través del trabajo como atributo genérico, de sus trabajos concretos, y del aprovechamiento del trabajo que realizan las mujeres para ellos. En ese conjunto de hechos y en sus correspondientes subjetividades se fundamenta la dependencia vital de las mujeres respecto de los hombres y de cualquiera que concentre lo expropiado y otros bienes y poderes. Para las mujeres ellos son más que necesarios, indispensables. Por eso su dependencia es vital y fundamenta las formas de recreación del dominio que los hombres y las instituciones ejercen sobre ellas. 4. DIALECTICA PATRIARCAL Un conjunto de procesos y fenómenos básicos del orden de géneros asegura el funcionamiento de la sociedad y conforman una dialéctica patriarcal. Veamos: a) La especialización genérica es exclusiva y excluyente. Cada género está ligado a actividades productivas y reproductivas, intelectuales, afectivas, eróticas y políticas, que convertidas en deberes propios inmodificables, están prohibidas al otro género.
De ahí que ser mujer sea no ser hombre y ser hombre consista en no ser mujer.
Al mismo tiempo ser mujer significa cumplir con una serie de deberes de género exclusivos para las mujeres y ser hombres es cumplir con los deberes exclusivos de la masculinidad. El sistema patriarcal incluye el antagonismo entre los géneros y su oposición irreconciliable y confrontada, al grado de enunciar a cada cual como el “sexo opuesto”. La dialéctica incluye además, de manera simultánea, el principio de la complementariedad basado en el deber de la diferencia. Como a cada género se le asignan características exclusivas y parciales, es diferente del otro género y, como cada conjunto de cualidades se considera indispensable para la vida y para la simbolización de la humanidad, se sostiene que cada género complementa al otro. Así, cada mujer y cada hombre deben encontrar en el otro y en la otra, respectivamente, lo que no tienen de la totalidad. Las ideologías patriarcales insisten en considerar que sólo la unidad de estos segmentos binarios crea la perfección humana. b) La expropiación de las mujeres es uno de los mecanismos sobre los que se levantan la especialización y la opresión de las mujeres. A pesar de la afirmación ideológica acerca de que todo lo que atañe a la mujer está determinado y contenido en el cuerpo sexuado femenino, la sociedad enseña y exige a cada mujer el cumplimiento de un conjunto de características que debe aprender e internalizar: sus actividades, su dedicación, su docilidad, sus comportamientos derivados de la servidumbre voluntaria, sus actitudes, sus afectos, sus maneras de pensar, sus relaciones, su lugar en la sociedad. En ese sentido, el cuerpo sexuado es sólo la base sobre la que se construye y se disciplina el cuerpo genérico. Cada mujer vive en su cuerpo, lo adecúa a través de la autodisciplina y va plasmando en él, es decir en sí misma, la feminidad asignada. La expropiación a las mujeres puede sintetizarse en la prohibición de decidir sobre el uso de sus cuerpos preservando su propia integridad y su desarrollo personal, así como de dirigir el sentido de sus vidas para sí. La expropiación genérica conduce a la cosificación, la enajenación y la opresión de cada mujer. Los cuerpos femeninos son cuerpos destinados para funciones y usos que implican la negación de la primera persona, del Yo de cada mujer. Cada una debe internalizar que su cuerpo y su vida no le pertenecen, y actuar con autodiscriminación. En ese cuerpo, simbolizado como cuerpo-para-otros, se fundamenta la falta de derechos del género, del conjunto de las mujeres. Serían los derechos correlativos a la autonomía de las mujeres como sujeto histórico en sí y como sujeto constitutivo del pacto democrático.
Las decisiones sobre los cuerpos genéricos femeninos son, por tanto, tomadas por otros a través de restricciones, dogmas, mandatos, prohibiciones, controles y tabúes. Por las mujeres decide la sociedad a través de las instituciones y las personas con poderío reconocido y legitimidad para hacerlo. Las mujeres son expropiadas sistemáticamente del derecho a hacerse cargo y decidir sobre sus cuerpos y sus vidas, al ser confinadas en la maternidad, en el eros cosificador, y en la satisfacción de las necesidades vitales de los hombres y de los otros. En la cultura dominante, simbólicamente se venera el cuerpo femenino si expresa la maternidad y se le consume si es dedicado al eros. No obstante, en la vida cotidiana el cuerpo de las mujeres, su cuerpo-vivido, es espacio contradictorio de autoafirmación identitaria y realización, de sujeción y negación. Pero siempre es ajeno, ha sido enajenado y no hay que olvidar que a los cuerpos femeninos les suceden cosas permanentemente, muchas de las cuales modifican y definen el contenido y el sentido de la vida. De ahí la ambivalente experiencia de las mujeres sobre su cuerpo como espacio vital, objeto, fuente misteriosa de placeres y amores, de peligros y daños, como ofrenda a los otros. La dedicación generalizada de las mujeres a la maternidad y al erotismo, y las referencias identitarias que señalan sus cuerpos cosificados como medida de su valoración social, se logra mediante procesos de expropiación diferenciados por edad. Sin embargo, a lo largo de la vida y, a pesar de los cambios, el cuerpo femenino se recrea como cuerpo-para-otros. La voluntad y el deseo de las mujeres quedan subsumidos en la voluntad y los deseos de los otros sobre ellas. Otros deciden, protagonizan, y norman la sexualidad de las mujeres. La norma central consiste en que su sexualidad no esté centrada en ellas mismas, en que no sea cada mujer el fin primordial de su sexualidad y en que no sea protagonista de sus vivencias ni de sus relaciones. El contenido patriarcal de la sexualidad femenina persigue que las mujeres no sean el sujeto de su sexualidad y, al centrar sus vidas en la sexualidad, que no lo sean de ninguna manera. Cada mujer debe ser dejada de lado por sí misma y dar satisfacción a las necesidades corporales de tipo vital de otros. Así, expropiar el cuerpo a las mujeres consiste también, en lograr la centralidad de los otros en la sexualidad y en la vida de cada mujer. Los otros protagonizan la vida femenina. De esta manera, las mujeres son convertidas en especialistas de la sexualidad. Sus vidas tienen como contenido la sexualidad y casi todo lo que hacen es considerado parte de su sexualidad. Las relaciones sociales fundamentales de las mujeres se derivan de la sexualidad, son funcionales a ésta. La cultura femenina y las identidades de las mujeres giran en torno a la sexualidad y, en consecuencia a su cuerpo-de-otros, cuerpo-para-otros: la fecundidad, la conyugalidad, la maternidad y el erotismo (placer, castidad, tabú) son ejes
constitutivos de la identidad femenina patriarcal. Además, las mujeres viven la sexualidad (materna o erótica) bajo dominio y tutela. Este contenido político las convierte en objetos sexuales recluidas total o parcial en los espacios domésticos y privados, o en exhibición y uso en los espacios públicos del mundo. c) La interdependencia asimétrica entre los géneros, conformada por la dependencia vital de las mujeres en relación con los hombres y la dependencia invisible, cargada de poder, de los hombres en relación con las mujeres, funcionan como fuerzas compulsivas que mantienen relaciones genéricas políticamente desiguales. La protección de los hombres. Al mismo tiempo, se protege el cuerpo de los hombres a través de otorgarle integridad como cuerpo subjetivo, como cuerpo humano, como cuerpo del sujeto, fuera del control y del daño de las mujeres. Los hombres son preservados de la invasión, del acoso, de la exhibición, del uso sexual de sus cuerpos adultos. No son objeto, no son fetichizados, no son fragmentados, no son cosificados no son intercambiados, comprados, vendidos, alquilados como cuerpos, ni ellos, como hombres, son apropiados a través de su sexualidad, mientras mantengan un mínimo poderío. La sociedad conforma así una eficaz invulnerabilidad sexual de los hombres en relación con las mujeres y la apuntala con su poderío sobre ellas. El cuerpo de los hombres es dotado de poderes políticos, como la fuerza, la apropiación, la agresión y el daño, o la fecundación y la vitalización de los cuerpos de las mujeres. Simbólicamente el cuerpo masculino sintetiza el poderío sexual y social, ya que el atributo de género central de la condición masculina es el poder. Los hombres son sujetos en y desde sus cuerpos sexuados masculinos y patriarcales. e) Además, los hombres tienen el privilegio y la ventaja de producir, previamente reproducidos por las mujeres. Con ello, se les libera del trabajo de autoreposición cotidiana y de reproducción social privada de otros. Este mecanismo les permite ganar tiempo y concentrarse en determinadas actividades. Los espacios privados en que son amos y señores, aseguran a los hombres territorios, sujetos e instituciones que les dan pertenencia y les permiten recrearse cotidianamente. Apoyados en las mujeres y en sus esfuerzos vitales, los hombres desarrollan una identidad positiva, y al ejercer sobre ellas directamente formas de dominio, se empoderan. f) Se asignan a los hombres, como espacios propios y masculinos, los espacios públicos de los que, señores o peones, son dueños por género. Así, los espacios públicos son propios para los hombres para deambular, jugar, trabajar, producir, expresar, nombrar, guerrear, destruir, para hacer en el mundo actividades valoradas social, económica, política y simbólicamente. Se coloca a los hombres, o se hacen exclusivos para ellos y sus intereses de género, los espacios políticos correlativamente vedados a las mujeres. g) El sistema hace de los hombres dirigentes, pensadores y conductores del sentido de la vida colectiva en agrupaciones, organizaciones, regímenes comunitarios, nacionales e internacionales y de la vida individual, en cualquiera de sus facetas económicas, espirituales, culturales y políticas. En síntesis, los hombres tienen a su cargo el sentido de la vida, el control de los sistemas económicos y
sociales, y su destrucción. Tienen el poderío de decidir sobre las condiciones de vida, de bienestar o de malestar de millones de personas. Deciden sobre la vida y la muerte a través de mecanismos sociales y del control de las condiciones de vida de las personas y de las naciones. Ellos pueden decidir qué se conserva y qué cambia, son los legítimos reformadores o revolucionadores del orden del mundo. Es tal el poderío de los hombres que son los dueños de la guerra como espacio político de destrucción territorial, social y humana y son también, los dueños de la paz. Los hombres son quienes pactan y las mujeres son las pactadas: son parte del conjunto de enseres que ellos poseen, usufructúan, intercambian, extraen, destruyen, a través de los pactos patriarcales. Así, la política es todavía el conjunto de pactos patriarcales y sus consecuencias. Pero la política es, también, el esfuerzo de las mujeres por superar el dominio, la enemistad entre ellas, aliarse y dejar de ser pactadas. La desaparición del dominio patriarcal pasa por la transformación de las mujeres en interlocutoras, dialogantes, representantes, portavoces, es decir, pactantes. Sólo como pactantes, como sujetos políticos, es posible incidir normativamente y cambiar el sentido de los pactos, de la vida.