Il fondamentale contributo di Mao al pensiero comunista. Eros Barone. Gennaio 2025

1. Una carenza della cultura politica italiana

L’anno scorso ricorreva il centotrentesimo anniversario della nascita di Mao Zedong, noto alla mia generazione come Mao Tse-tung (1893-1976). Era facile prevedere che su quell’anniversario sarebbe calato, come infatti è calato, il totale silenzio non solo dei ‘mass media’ borghesi, ma anche, tranne poche eccezioni, delle stesse organizzazioni della sinistra comunista.

Sennonché, tralasciando i primi che, in quanto ‘armi di distrazione di massa’, si limitano a fare il loro mestiere, sarebbe invece opportuno interrogarsi sul comportamento delle seconde per capire le ragioni della debolezza manifestata dalla cultura politica italiana (e dalla cultura ‘tout court’) nei confronti dell’esponente di una delle maggiori esperienze, sia politiche che filosofiche, del Novecento.

In effetti, nonostante per alcuni versi la Cina sia ormai così vicina all’Italia da poter essere considerata (che si aderisca alla “Via della Seta” o che se ne esca) una delle componenti più rilevanti dell’economia del nostro paese, per altri versi, come dimostra la debolezza or ora menzionata, la Cina resta lontana.

Eppure, è difficile negare che se il pensiero di Mao non ha influito a sufficienza sulla cultura politica del nostro paese e non è stato a sufficienza assimilato e discusso dal fragile marxismo italiano, ciò si è risolto in un danno per quest’ultimo.

È infatti sorprendente che le pagine, pur verbalmente celebrate, del magistrale saggio di Mao Sulla contraddizione 1 non abbiano trovato l’attenzione e l’approfondimento che ancor oggi esse attendono.

Gli stessi comunisti di orientamento marxista avrebbero tutto l’interesse a condurre un’analisi delle classi della società italiana che fosse altrettanto rigorosa e perspicua quanto l’Analisi delle classi nella società cinese, che, quasi un secolo fa (e nello stesso anno in cui in Italia apparivano le Tesi di Lione del Partito comunista d’Italia), fu in grado di sviluppare Mao.2

Né serve come alibi, essendo un simile postulato del tutto falso, affermare, come spesso si sente dire da parte dei sociologi, che la nostra società è più complessa e articolata, poiché chi reitera questo ‘mantra’ adopera in realtà la complessità, cui si appella, non come un concetto teorico ma come una strategia politica, e quindi mente sapendo di mentire.

Allora, siccome le opere complete di Mao sono oggi disponibili grazie alle Edizioni Rapporti Sociali di Milano che le hanno pubblicate in 25 volumi, l’invito che va fatto a chi si interessa di argomenti come la leniniana dittatura del proletariato e la gramsciana egemonia, è quello, tanto per cominciare, di leggere l’intervento del 1948 Sulla questione della borghesia nazionale e dei signorotti illuminati,3 nonché il fondamentale testo del 30 giugno 1949 Sulla dittatura democratica popolare.4

2. La dialettica nel pensiero filosofico di Mao:unità degli opposti” e/o “negazione della negazione”?

La dialettica elaborata da Mao va chiaramente inquadrata e approfondita in un duplice àmbito: quello di una tradizione antica che attraversa l’intera storia cinese e quello dell’insegnamento che l’autore ha saputo ricavare dalla lezione di Marx, di Engels, di Lenin e di Stalin.

In questa sede basterà richiamare le tesi tipiche della dialettica rielaborata da Mao: la particolarità, la pluralità e la complessità delle contraddizioni, la distinzione in contraddizioni principali e secondarie, l’asimmetria, l’instabilità e la reversibilità del rapporto tra i termini della contraddizione ecc., laddove tali caratteristiche vanno collegate strettamente ai contesti storici delle lotte fra le classi e alle alterne vicende della rivoluzione cinese e della politica internazionale da cui Mao ha ricavato le sue riflessioni dialettiche.

Orbene, se si tiene conto che, in base ai presupposti del pensiero marxista, la società è costituita da classi sociali in conflitto tra loro e che non si deve mirare all’assorbimento delle conflittualità, bensì alla loro soluzione rivoluzionaria, occorre allora riconoscere che tutto questo è stato espresso nel modo migliore, sul terreno della logica, dagli schemi di pensiero dialettici.

Per quanto riguarda dunque questi schemi, è da prendere in considerazione quello più famoso presentato da Mao (e desunto dallo scritto di Lenin A proposito della dialettica 5): “l’uno si divide in due”.

Da un punto di vista astrattamente logico, dire che in ogni cosa l’uno si divide in due (come asserisce Mao) non sembra avere un significato maggiore di quanto l’abbia il dire che ogni cosa può essere divisa in 3, in 4… in n. Ma dal punto di vista di una logica pratica, il quale dev’essere necessariamente anche un po’ semplificatorio, si è sempre notata la tendenza del pensiero a considerazioni dicotomiche, a polarizzarsi tra aspetti opposti.

Anche senza risalire alle opposizioni tipiche del cosiddetto pensiero primitivo o selvaggio (crudo-cotto, puro-impuro ecc.), va ricordata una plurimillenaria tradizione filosofica che si può ritrovare nel pensiero cinese, nella sapienza greca, nell’ebraismo ellenistico ecc. Ecco perché è senz’altro utile distinguere, nella concezione dialettica di Mao, un aspetto pratico e un aspetto teoretico (laddove, come si mostrerà più avanti, anche l’aspetto teoretico ha conseguenze importanti sul piano pratico).

Secondo il primo aspetto, nel chiarificare situazioni complesse è bene cominciare con l’ordinare i fattori in gioco per coppie di opposti, e vedere poi quale tra le “contraddizioni” che in tal modo si manifestano abbia in quel determinato momento il ruolo principale.

È evidente che un simile metodo risponde all’esigenza strategica di concentrarsi sempre, nell’agire, su un obiettivo, tra i tanti simultaneamente presenti, pur senza dimenticare l’esigenza di saper anche cambiare flessibilmente obiettivo al momento opportuno.

Non bisogna infatti ritenere che le contraddizioni individuate come secondarie debbano restare sempre tali e non possano passare in primo piano. E ancora: non si può pensare che il superamento di un opposto da parte dell’altro sia sempre definitivamente acquisito e non si possa rovesciare la situazione.

Questo permette a Mao di accorgersi, per esempio, che la borghesia, debellata in una certa forma, può rispuntare sotto un’altra, magari all’interno del partito comunista e degli apparati di Stato.

Se si accetta che la dialettica di Mao abbia un valore preminente come teoria di un agire pratico-strategico, non ci si dovrà dunque meravigliare che si concentri soprattutto sullo schema binario, più affine alle situazioni del tipo attacco-difesa, che contemplano uno scambio reciproco delle due parti, e ancora analogamente vittoria-sconfitta, stasi-avanzata, inferiorità-superiorità, fronte principale-fronte secondario, laddove questi schemi sono sempre aperti a scambi, conversioni, inversioni, capovolgimenti.

Di qui una certa dislocazione della dialettica di Mao rispetto allo schema triadico, tipico della dialettica hegeliana ma anche marx-engelsiana: affermazione-negazione-negazione della negazione (tesi-antitesi-sintesi).

Orbene, secondo alcuni interpreti, Mao non avrebbe mai fatto uso dello schema triadico; per di più sembra anche averlo esplicitamente negato nel Discorso filosofico del 1964: «Engels ha parlato delle tre categorie ma per quanto mi riguarda io non credo in due di queste categorie. L’unità degli opposti è la legge veramente fondamentale, la trasformazione della qualità e della quantità l’una nell’altra è l’unità degli opposti ‘qualità e quantità’, e la negazione della negazione non esiste affatto» .6

Andando avanti nella lettura del passo si comprende che questo rifiuto della negazione della negazione involge un’interpretazione della dialettica come serie di negazioni a catena del tipo: A è negato da B, che poi a sua volta è negato da C e così via: «Affermazione, negazione, affermazione, negazione. Ogni anello della catena degli eventi nello sviluppo delle cose è sia affermazione che negazione. La società schiavista negava la società primitiva, ma in rapporto alla società feudale era a sua volta l’affermazione. La società capitalista era la negazione in rapporto alla società feudale, ma è a sua volta l’affermazione in rapporto alla società socialista… In una parola, uno divora l’altro, uno spodesta l’altro; eliminata una classe, un’altra avanza; eliminata una società, un’altra avanza».

La famosa immagine del “divorare” viene qui usata come sinonimo della negazione e sembra inglobare il tema della sintesi, benché quest’ultima non venga intesa, come ordinariamente avviene nel linguaggio dialettico, quale sinonimo della negazione della negazione. Il divorare, tuttavia, esprime una sintesi nel senso che chi divora qualcosa anche se ne nutre, ne conserva qualche elemento o aspetto.

Dice infatti Mao, nei già citati Discorsi inediti, che analisi e sintesi sono indivisibili, trattandosi di un caso di unità degli opposti: «Sintetizzare il nemico vuol dire mangiarselo. Come abbiamo sintetizzato il Kuomintang? Non lo abbiamo forse fatto appropriandoci del materiale del nemico e trasformandolo? […] Anche il processo di mangiare è un processo di analisi e sintesi. Per esempio si mangia la polpa ma non il guscio del granchio. Lo stomaco poi assorbe la parte nutritiva e si libera della parte inutile. […] Marx ha tolto il guscio della filosofia di Hegel e ha assorbito la parte interna utile trasformandola nel materialismo dialettico» .7

In base a tutto questo non sembra perciò di dover opporre, come fanno taluni studiosi, lo schema binario di Mao a presunti resti di idealismo hegeliano impliciti nello schema, comprendente la negazione della negazione, ancora usato da Marx e da Engels.8 Occorre, semmai, tenere conto della diversità dei contesti.

Per esempio, Marx nel Capitale dice che il capitalismo nega il possesso delle condizioni di lavoro da parte del lavoratore, mentre il comunismo nega il capitalismo riportando il possesso delle condizioni di lavoro al lavoratore, ma non più nella forma individuale precedente bensì in quella socializzata; e tutto questo viene espresso appropriatamente come negazione della negazione. Lo stesso dicasi per lo schema dell’Anti-Dühring di Engels: comunismo primitivo-società classiste-comunismo moderno.

Ma in fondo lo stesso Mao usa talvolta schemi implicanti la negazione della negazione, e ciò sia implicitamente – come quando riprende da Lenin la teoria della conoscenza come processo di passaggio dalla realtà empirica, conosciuta intuitivamente e sommariamente, alla teoria e poi infine alla concreta realtà, conosciuta però in modo approfondito – sia esplicitamente come in un passo riportato nella già citata raccolta dell’editore Bertani: «Le cose devono necessariamente dirigersi verso il loro opposto. La dialettica della Grecia, la metafisica del medioevo: il rinascimento è la negazione della negazione. Anche in Cina è così: la rivalità delle cento scuole di pensiero all’epoca dei Regni combattenti era una forma di dialettica; l’insegnamento dei classici all’epoca feudale era una forma di metafisica. Ora siamo tornati a parlare di dialettica, non è vero? […] La dialettica di Lenin: la dialettica di oggi è la negazione della negazione». 9

In realtà, siccome non è facile uniformare tutti i discorsi di Mao ad un unico schema dialettico e, come si è visto, vanno tenuti presenti i diversi contesti in cui tali discorsi si collocano, non si può stabilire a priori che per tutte indifferentemente le questioni sia da applicare la formula “uno si divide in due”, che sia da scartare la formula triadica ecc.

Del resto, criticando il Manuale di economia politica ufficiale dell’URSS (nella IIIª edizione del 1959), un’opera progettata dallo stesso Stalin e poi soggetta a complesse vicende, Mao annota: «Vi è scritto che, nel sistema socialista, le contraddizioni non sono contraddizioni inconciliabili. Questo modo di esprimersi non è conforme alla dialettica. Tutte le contraddizioni sono inconciliabili. Dove sono le contraddizioni conciliabili? Certe contraddizioni sono antagonistiche, altre non lo sono. Ma non si può dire che ci siano contraddizioni inconciliabili e contraddizioni conciliabili. Anche se non c’è guerra nel sistema socialista, la lotta esiste sempre, una lotta tra differenti fazioni in seno al popolo» 10.

Questo scritto del 1960 sembra preparare già il terreno alla disputa, iniziata nel 1964 con l’avvio della rivoluzione culturale, tra le due formule “uno si divide in due” e “due si fondono in uno”. La questione è stata poi riassunta nell’articolo del comitato centrale del Partito comunista cinese, del 1971, Due si fondono in uno, filosofia della restaurazione capitalistica. 11

All’origine della disputa tra le due formule vi era un problema nettamente pratico: era in gioco la ripresa o la limitazione della lotta di classe per completare la socializzazione delle campagne e altri importanti processi della costruzione del socialismo. La formula basata sull’unità intesa come fusione, più che sulla lotta degli opposti, assumeva pertanto una particolare valenza politica in questa situazione, collocandosi anche sullo sfondo di tematiche confuciane sull’armonia sociale.12

3. Da Mao ad Aristotele e ritorno

A questo punto, chi ha letto Mao rammenterà facilmente i tanti passi sulla “universalità della contraddizione”, in cui ricorrono affermazioni del genere: «Il vero e il falso sono degli opposti. Il giusto nasce dalla lotta contro l’errato. Il bello e il brutto sono degli opposti. Se non vi fossero uomini buoni non ve ne sarebbero di cattivi… Vi sono fiori fragranti ed erbe velenose, il vero si sviluppa nella lotta contro il falso…» 13.

In questo senso, non deve sfuggire, ma va sottolineata, in contrasto con certi aspetti dell’epistemologia occidentale attualmente dominante – aspetti che vanno criticati in quanto agiscono come veri e propri ‘ostacoli epistemologici’, ossia come fallacie che generano errori -, l’originalità metodologica e filosofica di Mao: originalità che, pur nella molteplicità dei diversi contesti pratico-strategici e delle diverse accezioni teoretiche in cui il pensiero dialettico si esprime, merita di essere pienamente sottolineata.

Una di tali fallacie, che qui non è possibile discutere, è, ad esempio, la definizione di conoscenza ‘oggettiva’ come conoscenza indipendente dal contesto e disinteressata, laddove la scissione tra conoscenza ‘pura’ e applicazioni pratiche trova riscontro nella scissione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, così come tra concezione ed esecuzione, che sempre più caratterizza ogni sorta di attività.

Anche se le radici di tale scissione si possono individuare nella Grecia classica e altrove, non è necessario spingersi così lontano nel tempo, giacché la forma oggi dominante risale all’Europa del Seicento.

Si pensi a Descartes, il quale fa immediatamente seguire alla dimostrazione della sua stessa esistenza – ‘cogito, ergo sum’ – una prova dell’esistenza di Dio, cioè dell’Altro, laddove l’opposizione ‘sé/Altro’ diviene il modello per tutta una serie di polarità dualistiche: ‘anima/corpo’, ‘mente/materia’, ‘uomo/natura’, ‘individuo/società’, ‘soggettività/oggettività’, ‘organismo/ambiente’, ‘noi/loro’ ecc.

In questo sistema fondato su un tipo di pensiero dicotomico, entrambi i termini appartengono allo stesso tipo logico, costituiscono, cioè, un’opposizione binaria. L’opposizione si risolve sempre fra gli aspetti positivi e gli aspetti negativi di un’essenza. Ciò la distingue, pertanto, dal tradizionale dualismo cinese, che contrappone due concetti essenzialmente distinti (ma interrelati).

Il dualismo occidentale conduce infatti ad assumere certi atteggiamenti (e a seguire i relativi comportamenti), uno dei quali è l’atteggiamento disgiuntivo ‘o/o’, mentre un altro è la risoluzione di opposizioni mediante la ‘media aurea’ o il compromesso, piuttosto che attraverso l’esclusione parziale di un opposto e la sintesi conseguente.

Il punto è che un particolare codice astratto – l’opposizione binaria – fa talmente corpo con il senso comune occidentale (così come con la stessa filosofia occidentale), che non solo questo codice viene costantemente impiegato per organizzare le nostre percezioni ed è abbastanza astratto da non essere condizionato da controlli empirici, ma esso sfugge anche ad ogni senso critico in quanto la maggior parte delle persone non è neppure consapevole di servirsene; inoltre, esso dispiega tutto il suo potenziale mistificante allorché pone sullo stesso piano i termini che costituiscono, ad esempio, le coppie del tipo: ‘mente/materia’, ‘anima/corpo’, ‘uomo/natura’ ecc., ignorando che non si tratta di opposizioni tra termini dello stesso tipo logico, ma di contraddizioni asimmetriche.

Il concetto di ‘contraddizione asimmetrica’ può essere chiarito prendendo le mosse dal concetto più generale di unità degli opposti, comunemente usato da Mao sulle orme di altri pensatori della tradizione dialettica moderna e contemporanea, quali Hegel, Marx, Engels, Lenin e Stalin.

Esso (s’intende il concetto di ‘contraddizione asimmetrica’) corrisponde, in realtà, a un buon numero di rappresentazioni, ed è probabile che proprio qui risieda la sua utilità pratica, giacché, parafrasando “il maestro di color che sanno”, cioè Aristotele, l’essere degli opposti si dice in molti modi.

E proprio dalla fine classificazione che Aristotele offre dei vari tipi possibili di opposizione conviene prendere le mosse, avvertendo nel contempo che dei quattro tipi individuati da Aristotele tre soggiacciono pienamente al principio di non-contraddizione (“tertium non datur”), mentre uno, quello dei contrari, ammette più di due opzioni tra loro alternative.

Nel libro X della Metafisica, al capitolo 4, essi vengono così elencati, secondo il criterio dell’estensione e dell’indeterminatezza decrescenti: 1) i contraddittori; 2) la privazione e il possesso; 3) i contrari; 4) i correlativi 14.

I contraddittori indicano una negazione completa l’uno dell’altro, come avviene tra l’affermazione e la negazione (ad esempio, ‘x è seduto’ e ‘x non è seduto’). Essi non hanno nulla in comune, neppure il genere, e non ammettono termini intermedi tra loro. Si tratta dell’opposizione più estesa e indeterminata, che abbraccia tutta la realtà.

La privazione e il possesso sono termini che appartengono al medesimo genere, ma tali che l’uno non costituisce il contrario, bensì semplicemente l’assenza dell’altro (ad esempio, la cecità e la vista). Essi sono un caso particolare di contraddittori, cioè l’affermazione e la negazione nell’àmbito del medesimo genere, all’interno del quale stabiliscono tuttavia un’alternativa totale (che esclude, cioè, termini intermedi).

I contrari sono i termini più lontani l’uno dall’altro nell’àmbito del medesimo genere (ad esempio, il bianco e il nero). Essi rappresentano un caso particolare di privazione e possesso, cioè, per l’appunto, quella privazione e quel possesso che sono più lontani tra loro. Rispetto al caso precedente, i contrari hanno un’estensione minore poiché, oltre ad avere in comune il genere, non stabiliscono all’interno di esso un’alternativa totale (“tertium datur”), ammettendo quindi termini intermedi (ad esempio, il grigio).

I correlativi, infine, sono quei contrari che si implicano reciprocamente sia quanto alla nozione sia quanto all’esistenza (ad esempio, il doppio e il mezzo). Essi sono dunque un caso particolare di contrari e possiedono l’estensione minore di tutti poiché hanno in comune, oltre al genere, il fatto che ciascuno dei due non può essere definito né esistere senza l’altro.

Sennonché il modo evasivo e, in taluni casi, elusivo con cui è stato trattato, nel corso della storia della filosofia, il caso degli opposti correlativi induce a guardare con una speciale attenzione a questo tipo di opposizione.

In realtà, è difficile non riconoscere che il caso dei correlativi è il più indicato a cogliere lo scontro di classe. Della qual cosa già Aristotele si era accorto, poiché tra gli esempi di correlazione, accanto a quello del doppio e del mezzo, pose l’esempio del padrone e dello schiavo,15 laddove la prima critica che gli si può rivolgere è che, oltre a intendere la lotta di classe come un caso particolare e subordinato di opposizione, egli qualificava la negazione reciproca tra i termini contraddittori come l’antagonismo massimo e l’opposizione tra i correlativi come l’antagonismo minimo.

È stato dunque un merito del filosofo francese Alain Badiou quello di distinguere, stimolato dal pensiero dialettico di Mao, nell’esame della teoria degli opposti i processi asimmetrici e, correlativamente, i processi simmetrici .16

I secondi valgono per il conflitto tra opposti omogenei (ad esempio, le guerre mondiali interimperialiste, sfociate in immense distruzioni senza determinare null’altro che un mutamento di egemonia nei rapporti di forza tra le potenze su scala mondiale); i primi valgono invece, almeno in linea teorica, a determinare il processo della rivoluzione proletaria, fondata sull’eterogeneità (o discontinuità qualitativa) della forza delle classi popolari rispetto a quella delle classi dominanti.

Di conseguenza, occorre riformulare la distinzione tra i quattro tipi di opposizione, distinguendo i correlativi simmetrici dai correlativi asimmetrici e affermando, in particolare nel campo teorico-pratico del materialismo dialettico, la separazione di due concezioni antagonistiche: quella delle classi dominanti e di coloro che, impadronendosi del potere, vogliono solo sostituirle, e quella di chi tende ad abolire definitivamente ogni forma di oppressione.

Sarà utile mettere in rilievo, a scanso di facili irenismi, che questa distinzione riguarda e attraversa anche i proletari, tanto che lo stesso Lenin nei mesi successivi alla rivoluzione d’Ottobre manifestava apertamente tale pericolo: «E coloro che vedono la vittoria sui capitalisti come la vedono i piccoli proprietari – “loro hanno arraffato, adesso lascia che arraffi io” – rappresentano ciascuno la fonte di una nuova generazione di borghesi» .17

La conclusione che, alla luce del materialismo dialettico, deriva da questa fondamentale rettifica della teoria degli opposti è che la lotta di classe è un insieme di processi guidati da correlativi asimmetrici, cioè qualitativamente disomogenei. Occorrerà quindi riformulare la classificazione degli opposti nel modo seguente: 1) correlativi asimmetrici/correlativi simmetrici; 2) privazione/possesso; 3) contrari; 4) contraddittori.

Ma vi è di più, giacché – e questo è il corollario logico e critico che deriva da quanto si è precisato in precedenza – le opposizioni si diversificano non solo secondo il tipo, ma anche secondo il livello (per così dire, complanare oppure gerarchico).

Valga, a questo proposito, un esempio. Nonostante il fatto che nella società moderna sussistesse una distinzione gerarchica tra i sessi (una relazione di dominanza e subordinazione basata su precisi rapporti di forza e di potere: relazione che oggi, nelle società occidentali, si è in parte rovesciata per tutta una serie di cause che non è qui possibile analizzare), era comune sentir parlare di tale relazione come della “battaglia dei sessi”.

Questa espressione neutralizzava, simmetrizzandola, la reale relazione tra i sessi nelle nostre società. In sostanza, in base a uno scopo ideologico facilmente identificabile, la maggioranza delle persone, condizionata da una falsa identità degli opposti, riceveva questa impressione dal rapporto tra maschi e femmine nella società.

In realtà, allora come oggi, identità e opposizione non esistevano e non esistono (e ciò indipendentemente dalle nostre esplicite o implicite convinzioni); esisteva soltanto, ed esiste, un conflitto, ed è un conflitto non paritetico.

I due aspetti del conflitto, quello socialmente dominante e quello socialmente subordinato, possono essere complementari (giacché nessuno dei due può in ultima analisi fare a meno dell’altro), ma la complementarità non è quella reciproca degli uguali. Ecco perché questa particolare situazione dovrebbe essere descritta, così come quella che si produce nel rapporto tra capitale e lavoro, nei termini (logici e ontologici) degli opposti correlativi asimmetrici.

Da questo punto di vista, il termine ‘opposizione’ può essere sostituito al termine ‘contraddizione’ (dato il carattere esclusivamente logico del termine ‘contraddizione’ nella teoria aristotelica degli opposti), poiché le relazioni testé descritte non si manifestano a un solo livello, ma implicano almeno due livelli, uno dei quali dominante sull’altro.

Così, è opportuno, in primo luogo, correggere l’idea di una relazione simmetrica (uguali e opposti) indicandone la fondamentale asimmetria e, in secondo luogo, includere nella descrizione la realtà per cui ‘maschio’ e ‘femmina’ – come ‘capitale’ e ‘lavoro’ nell’attuale sistema economico – sono opposti interdipendenti o complementari. Questa interdipendenza può estrinsecarsi in numerosi modi, tutti peraltro legati al rapporto di subordinazione che istituiva nell’età antica la complementarità tra padrone e schiavo.

Naturalmente, resta inteso che, in condizioni socio-economiche diverse, l’interdipendenza o complementarità potrebbe assumere un aspetto completamente differente e tradursi in una relazione di reciprocità. A questo proposito, va inoltre sottolineato con forza il fatto che la necessità della lotta contro il revisionismo moderno, di cui Mao è stato storicamente il protagonista, trova il suo fondamento teoretico proprio nel concetto di ‘correlativo asimmetrico’, in quanto nasce e si sviluppa dalla relazione immanente (non solo della borghesia contro il proletariato ma altresì) della borghesia all’interno del proletariato, talché – come ha affermato Lenin, per un verso – «la lotta contro l’imperialismo, se non è indissolubilmente legata con la lotta contro l’opportunismo, è una frase vuota e falsa» 18, e – come precisa Mao, per un altro verso – «non è ancora veramente deciso chi vincerà nel campo ideologico, se il proletariato o la borghesia», ragione per cui «dovremo lottare ancora per un lungo periodo contro le idee borghesi e piccolo-borghesi» 19.

Per quanto riguarda la simmetrizzazione, questa si riferisce a un modo ideologicamente usuale, proprio del pensiero borghese e revisionista, di neutralizzare l’importanza di un’affermazione o il significato di una relazione del mondo reale.

Si tratta, in questo caso, di un processo attraverso il quale relazioni disuguali, gerarchiche o multiplanari, tra persone, gruppi o parti di un insieme, vengono trasfigurate in un improprio rapporto di presunta uguaglianza ad un unico livello (è ciò che accade, per esempio, in quel “tessuto di menzogne” che è la Costituzione, una “rivoluzione promessa” in cambio di una “rivoluzione mancata”, come riconobbe persino Piero Calamandrei che fu uno dei suoi ‘padri’).

4. Categoria della mediazione e “verità ellittica”

Sennonché il modo più corretto e più proficuo di rendere omaggio al Grande Timoniere è quello di riportare il “Discorso alle Guardie Rosse” tenuto nel 1966 all’avvìo della rivoluzione culturale e scandito da un ‘incipit’ formidabile: “Ogni cosa si trasforma”.

Quel discorso, in cui non vi è parola che non sia al suo posto e che non sia connessa a un preciso sistema di concetti, costituisce una pagina magistrale della dialettica marxista applicata alla lotta di classe sul terreno teorico e politico e un’illustrazione esemplare dei valori che stanno alla base della rivoluzione socialista, la quale si articola, per essere veramente tale, in una triplice rivoluzione: economico-sociale, politico-istituzionale e ideologico-culturale.

Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, condizionati dall’immagine vulgata di un grande rivoluzionario quale è Mao Tse-tung, la categoria che si trova al centro di questo discorso e, più in generale, al centro del pensiero di Mao, è la categoria della ‘mediazione’, eredità fra le più importanti di quella “fonte e parte integrante” del marxismo che è la dialettica hegeliana.

Ma vi è di più, poiché nella centralità della categoria della “mediazione” è operante, anche quando Mao avanza verso di essa taluni circoscritti rilievi critici, l’influsso potente e onnipervasivo della lezione teorico-politica di Giuseppe Stalin, in cui il materialismo dialettico e il materialismo storico rappresentano, a partire dalla prassi rivoluzionaria e in vista di essa, i due fuochi della stessa ellisse (giacché, come amava notare Feuerbach riferendosi alla “rivoluzione astronomica” dell’età moderna e all’innovazione introdotta da Keplero nella rappresentazione geometrica delle orbite dei pianeti, “la verità è ellittica”) .20

All’interno di quella ellisse il ‘leitmotiv’ della parte pratico-politica del discorso, che discende organicamente dalla parte teorico-metodologica che lo introduce, ha un rigore algebrico.

«Chi non riconosce la mediazione, in campo politico cade nell’opportunismo di sinistra o di destra». Da queste premesse tanto lucide quanto rigorose procede quindi, attraverso una corretta mediazione fondata sul carattere asimmetrico delle due deviazioni, la linea di condotta che occorre seguire nel riconoscere, nel combattere e nel superare i due tipi di deviazione dalla corretta strategia rivoluzionaria.

«Ogni cosa si trasforma. Ogni cosa si trasforma secondo le sue proprie leggi. Anche noi siamo oggetti e soggetti delle trasformazioni, ne siamo parte passiva e parte attiva, consapevole, con nostri obiettivi e piani.

Ogni cosa si trasforma in un’altra e questa in un’altra ancora e poi ancora, costituendo gli anelli di una catena. Se prendiamo un anello della catena, esso è attaccato al primo, ma solo attraverso gli anelli intermedi. Se vogliamo comprendere il legame che unisce una cosa a un’altra da cui proviene, se vogliamo comprendere come sta trasformandosi una cosa, dobbiamo ricostruire nella nostra mente le fasi intermedie attraverso le quali la prima si è trasformata in quella che stiamo esaminando.

Ogni cosa diviene secondo le sue leggi e tramite le circostanze esterne e accidentali che incontra. Se vogliamo comprendere come mai una cosa si è trasformata proprio in quest’altra e non in qualcosa di diverso, dobbiamo non solo conoscere le leggi proprie di quella trasformazione, ma anche ricostruire nella nostra mente le circostanze esterne e accidentali che hanno determinato passo dopo passo quel percorso.

Si dice che una cosa è divenuta un’altra attraverso la mediazione degli anelli intermedi e delle circostanze esterne. La mediazione è un aspetto universale della trasformazione.

Chi non riconosce la mediazione, in campo politico cade nell’opportunismo di sinistra o di destra. La lotta contro gli opportunisti di sinistra (gli estremisti di sinistra) è una lotta interna alle nostre fila. Anche la lotta contro gli opportunisti di destra è una lotta interna alle nostre fila, ma solo fino a un certo punto. Dove sta la differenza tra i due fronti?

Gli opportunisti di sinistra negano le mediazioni (le fasi, i passaggi, i processi) attraverso cui si svolge ogni trasformazione reale. Essi politicamente sono ostili all’imperialismo e alla borghesia, ma in campo culturale, dell’orientamento e della concezione del mondo si limitano a negare le posizioni della borghesia, non le superano, le conservano rovesciate, vedono il mondo come la borghesia solo dal lato opposto.

Essi quindi subiscono ancora fortemente l’influenza della borghesia e non è strano che ogni tanto alcuni di essi di punto in bianco, sotto l’influsso di qualche evento traumatico, passino dall’altra parte. Gli opportunisti di sinistra possono essere dei discreti combattenti, mentre la loro direzione è rovinosa, sotto la loro direzione la sconfitta è certa. La permanenza di un opportunista di sinistra nelle nostre fila è positiva solo finché riusciamo a contenerne l’influenza e a determinare un processo in cui egli si trasforma e corregge a fronte dei compiti assegnatigli.

Gli opportunisti di destra negano anch’essi le mediazioni dei processi reali, quindi non vedono i passaggi attraverso cui il presente di supremazia della borghesia si trasforma nel domani di supremazia del proletariato, in definitiva vedono un baratro invalicabile tra il presente e gli obiettivi della nostra rivoluzione e restano ancorati alla sponda del presente. Hanno poca fiducia nella nostra vittoria perché non vedono i passaggi del cammino che la rende possibile.

La loro opposizione alla borghesia è debole, sono inclini alla conciliazione, a staccarsi così poco dal presente da aderirvi quasi. A differenza degli opportunisti di sinistra essi hanno però l’appoggio della classe dominante, esprimono l’influenza della classe dominante nelle nostre fila, sono veicolo della sua influenza.

Gli opportunisti di sinistra esprimono un’influenza indiretta della borghesia, un’influenza culturale e di concezione del mondo, attraverso la negazione. Gli opportunisti di destra invece esprimono la cultura e la concezione del mondo dominante, quella più diffusa ed esprimono l’influenza politica della borghesia.

I veri e propri portavoce della classe dominante tra le masse si confondono con loro. Quindi essi usufruiscono della forza che deriva loro dall’appoggio della classe dominante, dal conservatorismo, dalla forza dell’abitudine, dalla rassegnazione, dalla stanchezza, dal servilismo, dal cedimento al ricatto e alla paura.

Essi sono più dannosi (degli opportunisti di sinistra) anche come semplici militanti e la loro permanenza nelle nostre fila deve essere strettamente limitata a quelli che stanno trasformandosi. Gli altri possono essere, devono essere accettati nelle organizzazioni di massa.

Qui il nostro obiettivo è determinare l’orientamento generale e controllare saldamente l’apparato, ma non possiamo escludere in linea di principio la partecipazione degli opportunisti di destra alle organizzazioni di massa, perché anch’essi, come gli opportunisti di sinistra, incarnano in modo unilaterale e organico un limite reale delle masse ed escluderli dalle organizzazioni di massa vuol dire rifiutare di trattare e trasformare, di fare i conti con questo limite delle masse, cioè rinunciare al nostro compito e ai nostri obiettivi rivoluzionari. 21»

5. Un poeta d’avanguardia in quanto legato alla tradizione classica

Per finire, è doveroso ricordare che Mao non è stato solo un grande rivoluzionario e un notevole pensatore, ma anche un raffinato poeta. Questo aspetto della personalità di Mao viene lumeggiato da Girolamo Mancuso, qualificato traduttore dei componimenti poetici di Mao.

Nelle considerazioni premesse a Tutte le poesie di Mao 22 e nell’affascinante capitolo “La lingua cinese come mezzo di poesia” del saggio Pound e la Cina 23, lo studioso descrive sia la struttura della lingua cinese in generale sia il procedimento della poesia classica cinese.

Molto brevemente, prima di tornare a Mao, sarà quindi opportuno chiarire che la lingua cinese è isolante, cioè non flessiva, e ha una grammatica posizionale, ossia una stessa parola può avere funzione di verbo, sostantivo, aggettivo, preposizione, e così via, a seconda della sua posizione nella frase; questa ‘posizionalità’, estremamente rigida nella prosa, diventa assai più libera nella poesia. Inoltre, non essendo la lingua flessiva, il verbo non ha coniugazione.

Nella lingua corrente si usano una serie di espedienti per precisare modo, tempo, persona del verbo; nella lingua classica tali espedienti sono deliberatamente ignorati. Se si aggiungono le squisitezze della prosodia e della metrica (alternanza di toni, rime, allitterazioni, omofonie; parallelismi e opposizioni semantiche tra verso e verso) si vede come l’ambiguità e l’essenzialità siano caratteri peculiari della poesia cinese.

E qui il sinologo in parola fa un’osservazione di estremo interesse quando dice che in Occidente soltanto la letteratura d’avanguardia ha cercato di affrancare la poesia dalle regole grammaticali del linguaggio comune, ottenendo, sebbene parzialmente, quegli effetti che, in cinese, sono invece peculiari della poesia classica e tradizionale.

Sembrerebbe, dunque, che la lingua poetica classica dei cinesi non abbia bisogno di andare oltre se stessa e che la contraddizione stia semplicemente nel fatto che questa lingua d’avanguardia non è conosciuta dalle masse.

Sennonché Mao non poteva perdere le qualità stilistiche della poesia classica, non poteva regredire stilisticamente di fronte ai suoi interlocutori ideali: i cinesi del passato. Vuole invece orgogliosamente che ascoltino, che intendano il suo messaggio: «Osammo comandare a luna e sole / di darci un nuovo cielo».24

Secondo gli esperti, un limite della poesia classica cinese è il progressivo accumularsi delle espressioni formulari, delle immagini stereotipe, delle citazioni di repertorio, delle allusioni convenzionali, che difatti ricorrono anche nei versi di Mao, Ma questo limite è compensato dalla ricchezza delle parole antitetiche, dal modo di pensare dialettico, tipico dei cinesi, che si rivela nel trimillenario I Ching (Il libro dei mutamenti) come nel saggio di Mao Sulla contraddizione.

Certamente, le poesie di Mao sono interessanti perché esprimono la personalità non solo indomabile e gioiosa, ma anche straordinariamente oggettiva e fertile di creatività sociale, dell’autore. Da questo punto di vista, si può ritenere Kunlun l’autoritratto etico-politico di un guerriero pacifico (un autoritratto profetico, si potrebbe aggiungere dal punto di vista geopolitico guardando all’ascesa internazionale della Cina odierna).

«Attraverso lo spazio sorgi dalla terra, / grande Kunlun, / testimone di tutte le gioie del mondo. / Tre milioni di draghi di giada / si levano in volo, / nel gelo pungente / rabbrividisce tutto il cielo, / nei giorni d’estate / si sciolgono le nevi, /n le acque scorrono rigonfie, straripano lo Yangzi e il Huanghe, / gli uomini si trasformano / in pesci e tartarughe. / Mille autunni di meriti e colpe: / chi mai li avrebbe biasimati? / Ma oggi io dico al Kunlun: / non serve tanta altezza, / non serve tanta neve. / Come posso appoggiarmi al cielo / e sguainare la preziosa spada, / per prenderti e tagliarti in tre parti? / Una parte la darei all’Europa, / una parte all’America, / una parte resterebbe all’Oriente. / Grande equilibrio nel mondo, freddo e caldo eguali su tutta la terra25

Nel rigore, che la fantasia del guerriero non abbandona mai, trapelano con delicatezza i sentimenti dell’amicizia e dell’amore. E all’interno di una forma classica Mao rivela il suo profondo, epico legame con la civiltà contadina cinese: «Felice osservo di riso e fagioli / mille onde pesanti, // da ogni dove gli eroi / scendono nella sera fumosa» .26

Che questa qualità poetica emerga anche dalla sua prosa filosofica è un’altra sorprendente scoperta che riserva il saggio filosofico Sulla contraddizione. La lettura di questo passo conferma tale scoperta (chi scrive si è limitato a inserire gli a capo):

«La nostra pratica dimostra / che le cose percepite / non possono essere immediatamente comprese / e che soltanto le cose comprese / possono essere / ancor più profondamente / percepite».27

Chiunque rilegga questo saggio, scritto ovviamente in prosa, e soffermi l’attenzione su queste righe, non può non avvertire, oltre alla loro verità cognitiva, la loro impressionante solennità. Da qui è partita l’idea di suggerirne una rilettura che ponesse in evidenza la forma di quel contenuto.

Che altro dire se non che il contributo di Mao al pensiero comunista è fondamentale e che, in quanto comunisti, non possiamo non dirci maoisti?


Note

1 Mao Tse-tung, Sulla contraddizione (agosto 1937), in Opere di Mao Tse-tung, vol. n. 5.La raccolta dei 25 volumi delle Opere di Mao Tse-tung in formato PDF, da cui si cita, è reperibile sulla Rete al seguente indirizzo: https://www.nuovopci.it/arcspip/articlee6e8.html.

2 Id., Opere cit., Analisi delle classi della società cinese (1° febbraio 1926 e marzo 1926) in Opere di Mao Tse-tung, Edizioni Rapporti Sociali, Milano 2007, volume n. 2.

3 Id., Opere cit., Sulla questione della borghesia nazionale e dei signorotti illuminati (1° marzo 1948), volume n. 10.

4 Id., Opere cit., Sulla dittatura democratica popolare (30 giugno 1949), vol. n. 11.

5 Cfr. V. I. Lenin, Quaderni filosofici, in Opere complete, vol. XXXVIII, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 361: «Lo sdoppiamento dell’uno e la conoscenza delle sue parti contraddittorie (cfr. la citazione di Filone su Eraclito all’inizio della III parte, Sulla conoscenza, dell’Eraclito di Lassalle) è l’essenza (una delle “essenzialità”, una delle note caratteristiche o peculiarità fondamentali, se non la fondamentale) della dialettica».

6 Mao Tse-tung, Discorsi inediti 1956-1971, Mondadori, Milano 1975, p. 179.

7 Ivi, p. 190.

8 È il caso, tra gli altri, di Riccardo Guastini, autore di una saggio Sulla dialettica, pubblicato in «Rivista di filosofia», 1, 1975, pp. 113-130. Non meraviglia che il rifiuto, prima, del concetto di negazione della negazione e poi della stessa dialettica, entrambe liquidate come superfetazioni di un caduco retaggio hegeliano, sia sfociato nell’adesione di questo studioso, un tempo marxista, ad un piatto positivismo.

9 Mao Tse-tung, Discorsi inediti cit., p. 51 e ss.

10 Id., Su Stalin e sull’URSS, Einaudi, Torino 1975, pp. 28 e ss.

11 L’articolo è contenuto nella raccolta a cura di M. A. Bonfantini e M. Macciò, La filosofia della rivoluzione culturale, Bompiani, Milano 1974.

12 Nella stesura di questo paragrafo mi sono avvalso della pregevole relazione di Ferdinando Vidoni Sulla dialettica in Mao, contenuta in Attualità di Mao – Atti del convegno, «Quaderni In/Contro», 2°, 1982, pp. 27-36.

13 Cfr. la raccolta di passi di Mao, Senza contraddizione non c’è vita, Bertani, Verona 1976, p. 35.

14 Sul tema qui discusso risultano particolarmente illuminanti i chiarimenti forniti da G. Bottiroli nel volume Contraddizione e differenza, Giappichelli, Torino 1980, pp. 9-44.

15 Aristotele, Le categorie, 7, 6b, 27.

Cfr. sulla Rete https://www.nilalienum.it/Filosofia/Filosofia/Autori%20e%20Opere/Aristotele/Aristotele-Organon.pdf (capitolo settimo, pp. 23-25).

16 A. Badiou, F. Balmès, De l’idéologie, Maspero, Paris 1976.

17 Cfr. Seduta del comitato esecutivo centrale di tutta la Russia (29 aprile 1918) – Rapporto sui compiti immediati del potere sovietico, in Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 269.

18 V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, cap. X, in Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1968, p. 670.

19 Mao Tse-tung, Discorso alla Conferenza nazionale di propaganda del Partito comunista cinese (12 marzo 1957), in Opere cit., volume n.° 14.

20 L. Feuerbach, La filosofia dell’avvenire, trad. di C. Cesa, Laterza, Bari 1969, p. 164.

21 Mao Tse-tung, Discorso alle Guardie Rosse, in «Rapporti Sociali – rivista di dibattito per il comunismo», n. 2, novembre 1988, p. 14.

22 Id., Tutte le poesie (con testo cinese a fronte), introduzione di Alberto Moravia; cura e traduzione di G. Mancuso, Newton Compton, Roma 1972.

23 G. Mancuso, Pound e la Cina, Feltrinelli, Milano 1974.

24 Mao Tse-tung, Tutte le poesie cit., p. 123. La poesia Ritorno a Shaoshan, in cui compare questo distico,è stata composta nel giugno 1959.

25 Ivi, pp. 93-95. La poesia Kunlun è stata composta nell’ottobre 1935.

26 Ivi, p. 123. È la chiusa del Ritorno a Shaoshan.

27 Id., Opere scelte cit., p. 317.

Sur la critique de la pensée décoloniale. Jean-Marie Harribey. Janvier 2025

« Seriez-vous content de trouver un peuple de tempérament aussi barbare, qu’explosant en atroce violence il ne vous donnerait pas d’abri, vous mettrait le couteau sous la gorge, vous mépriserait comme des chiens et comme si Dieu ne vous avait pas aussi créés, comme si vous n’aviez pas le droit de demander de l’aide, que penseriez-vous d’être ainsi traités ? Ceci est le cas de l’étranger et cela votre gigantesque inhumanité. » William Shakespeare et co-auteurs, Sir Thomas Moore, 1595

Depuis le début du XXIe siècle, les thèses décoloniales, nées en Amérique latine, ont gagné les centres de recherche et universitaires des États-Unis, puis les européens et notamment français. Moins connus cependant en France, les auteurs sud-américains, hispanophones ou lusophones, fondateurs du courant décolonial sont peu à peu découverts et même pour certains traduits, notamment : Anibal Quijano, Enrique Dussel, Walter Mignolo, fondateurs du groupe Modernité/Colonialité », et Ramon Grosfoguel [1].

La problématique principale de ce courant est de défaire l’hégémonie politique et culturelle que le monde occidental a construite au détriment des peuples colonisés depuis 1492, considérée comme la date-clé du démarrage du capitalisme, indissolublement lié au colonialisme et au racisme, et donc à la négation et l’éradication des cultures autres. Le décolonialisme se distingue des pensées anticolonialistes et antiimpérialistes liées aux mouvements de libération au XXe siècle, et aussi de celles dites postcoloniales en réaction aux nouvelles formes de domination après les luttes d’indépendance en Inde, en Afrique, au Moyen-Orient et en Australie [2], parce qu’il va faire de la critique de la Modernité d’origine européenne le pivot de sa dénonciation.

Un temps confinée aux cercles universitaires et aux débats traversant les sciences sociales, la problématique décoloniale trouve maintenant un écho médiatique parce qu’elle peut se décliner en plusieurs thématiques. L’une d’elles est particulièrement traitée, l’écologie décoloniale, à laquelle le chercheur Malcom Ferdinand [3] a travaillé en France. Et la revue Socialter vient de publier un numéro centré sur l’écologie décoloniale [4].

Au fur et à mesure de sa diffusion en France, des critiques de la théorie décoloniale furent émises, notamment de la part d’historiens comme Pierre Vidal-Naquet, Pierre-André Taguieff, Benjamin Stora, ou de philosophes comme Jean-Loup Amselle [5]. Mais une critique radicale vient d’être publiée en français, provenant du continent latino-américain, celui-là même où est né ce courant. Sous la signature d’un Collectif, il est titré Critique de la raison décoloniale, Une contre révolution intellectuelle (Paris, Éd. L’Échappée, 2024). L’Avant-propos est signé Mikaël Faujour, et le livre rassemble les auteurs dans l’ordre suivant : Pierre Gaussens et Gaya Makaran, Daniel Inclan, Rodrigo Castro Orellana, Bryan Jacob Bonilla Avendano, Martin Cortès, et Andrea Barriga. Plutôt que de présenter chaque auteur et son chapitre [6] dans l’ordre du livre, je regroupe les principales critiques apportées à la pensée décoloniale autour de trois thèmes : la modernité ; l’essentialisation des colonisés et des colonisateurs ; et la méconnaissance de la logique du capital.

1. Remplacer la modernité par la colonialité ?

Dès son « Avant-propos », Mikaël Faujour dresse les grands traits de la pensée décoloniale : « la modernité serait intrinsèquement coloniale » (p. 6-7). Débutée « avec la conquête de l’Amérique, […] elle n’aurait pas pris fin avec les décolonisations de la seconde moitié du XXe siècle » (p. 7).

La raison de la poursuite de la domination est « la relation au savoir et à la connaissance fondée sur les principes d’une rationalité européenne qui condamnerait et détruirait les autres formes de connaissances et de savoirs » (p. 7). Le capitalisme est alors considéré dès sa naissance comme inséparablement colonisateur, dominateur et raciste.

La colonisation ayant été historiquement le fait de l’Europe, celle-ci est identifiée par tous les théoriciens à la modernité et comme un tout monolithique. L’économiste et sociologue Daniel Inclan parle à ce propos d’« inintelligibilité du passé » (p. 71) parce que, dit-il,
« dans les formulations du tournant décolonial, il n’y a pas de place pour penser la dialectique de l’Europe dans les processus colonisateurs, l’Europe y étant au contraire présentée comme une substance maléfique qui se répand à travers le monde » (p. 61-62).

Le philosophe Rodrigo Castro Orellana ajoute deux critiques portées au penseur décolonial Walter Mignolo [7]. D’une part, aucune culture n’est homogène, il vaut mieux
« parler de métissage ou d’hybridité d’un point de vue anthropologique, car un processus de subjectivation mature ne peut être fondé sur une identité autoréférentielle qui exclut le regard de l’Autre » (p. 84).

D’autre part, il n’y a pas de « privilège épistémique » des peuples colonisés pour accéder à la « vérité » de leur condition.

Dans un chapitre consacré à Ramon Grosfoguel, l’un des plus importants théoriciens du décolonialisme, le philosophe Bryan Jacob Bonilla Avendano entreprend de confronter cet auteur aux occidentaux Descartes, Hegel et Marx. Grosfoguel récuse le cogito cartésien dominateur bien que la recherche de la vérité n’appartienne pas à l’Occident. Et Avendano soutient qu’on ne peut trouver chez Hegel l’idée que seul « l’homme blanc hétérosexuel pourrait participer de la production de la conscience et de la raison » (p. 115). Inversement, tout aussi fausse est l’idée défendue par Grosfoguel « qu’il est impossible qu’un auteur écrivant depuis le « Nord » (même au sens symbolique du terme) soit lu et assimilé dans les pays du « Sud », car la théorie du Nord est toujours déjà eurocentrique et raciste » (p. 118).

Selon Avendano, la vision de la symbolique occidentale qu’ont les penseurs décoloniaux est biaisée :
« Tout se passe comme si la capacité de signifier et de symboliser une plante, un tambour ou un canoë était réservée à certaines cultures, tandis que d’autres ne laissent qu’une possibilité aux objets : devenir des marchandises. […] Que la vie soit marchandisée au cœur de la modernité capitaliste est une réalité, et il existe bien un ethos capitaliste qui cherche à dépolitiser les formes symboliques pour les remplacer par ce que Marx appelait la forme-valeur. Cependant, croire que les significations sont prédéterminées dans telle ou telle culture nous paraît dangereux, car cela finit par essentialiser non seulement les cultures non occidentales, mais quiconque ne s’inscrit pas dans une certaine logique épistémique. […] Que les objets se voient constamment donner par les individus de nouvelles significations correspondant à leur vie sociale, ce n’est pas un phénomène qui viserait uniquement les seules cultures non occidentales : c’est le fait de toutes les cultures. » (p. 130-131).

Le philosophe Martin Cortés, dans un chapitre intitulé « Contre l’ontologie de l’origine et de la pureté, Sur Marx, les marxismes et la critique décoloniale », complète cet examen en promouvant une « déracialisation de l’humanité » (p. 138).
« Notre hypothèse sera la suivante : la tendance à éloigner Marx du cœur des démarches critiques, tendance qui se développe avec un relatif succès depuis les années 1980, paraît coïncider avec le moment où nous avons justement le plus besoin de son héritage. C’est pourquoi ce travail, bien qu’il soit en dernier ressort un essai de plus sur les façons de lire Marx en Amérique latine, s’intéresse avant tout au potentiel universel des effets de cette lecture. » (p. 140).

Clairement, comment « l’ambition universaliste du marxisme en tant qu’idéologie européenne » peut-elle saisir « les particularités de la réalité latino-américaine » (p. 150) ? C’est possible car, au sein même de l’Europe, l’hétérogénéité philosophique existe.
« Parmi les évolutions du « dernier Marx », son attention se porte vers la périphérie. C’est en découvrant les luttes politiques qui se déroulent aux frontières du capitalisme développé – principalement en Irlande et en Russie – que Marx lui-même met en garde sur la nécessité de ne pas lire sa théorie comme une philosophie de l’histoire qui serait valable en tout temps et en tout lieu. » (p. 153).

L’auteur cite l’écrivain Jorge Luis Borges qui évoque « les vertus du retard » (p. 158), car « être à la périphérie n’est pas du tout un inconvénient », tandis que l’hypothèse inverse impliquerait « de placer l’Amérique latine dans une salle d’attente de l’Histoire » et serait « un drame pour la question de l’émancipation en tant que telle » (p. 158).

Dans le dernier chapitre de cet ouvrage collectif, la professeure argentine de sciences sociales, politiques et économiques Andrea Barriga consacré à « Anibal Quijano et la colonialité du pouvoir, Quand tout ce qui était solide s’en va en fumée » complète les critiques de la conception la conception de la modernité de Quijano. Loin d’être univoque ladite modernité européenne est traversée de visions très diverses :
« Il faut se souvenir qu’à partir de Kant – dont Quijano ne dit rien –, va se développer tout un éventail de théories de la connaissance très diversifiées. Pour ne parler que de certains des philosophes qui ont contribué au débat, c’est des thèses kantiennes sur la manière dont se constitue la connaissance qu’est née dans un premier temps, chez Hegel, la vision la plus aboutie de l’idéalisme, avant que des auteurs comme Nietzsche, Heidegger ou Foucault n’en fassent la critique. En parallèle, à partir des néo-kantiens et de l’École de Vienne, seront posées les bases de ce qu’on appellera le positivisme, puis, dans les premières décennies du XXe siècle, le positivisme logique. De son côté, le marxisme se défera de ces échafaudages théoriques, en menant une critique vigoureuse de l’idéalisme hégélien, et en proposant une analyse historique des rapports sociaux, où les valeurs prédominantes à chaque moment particulier de l’histoire ont pour base matérielle les relations que nouent les êtres humains les uns avec les autres. Nous voyons ainsi que le panorama est très complexe, et ne peut en rien se réduire à une « épistémè moderne eurocentrique », tout simplement parce qu’il n’existe rien de tel. » (p. 213-214).

2. L’essentialisation des colonisés et des colonisateurs
Le biais culturaliste des penseurs décoloniaux est dénoncé par tous les auteurs de cet ouvrage. Dans l’avant-propos, Faujour émet l’hypothèse que ce biais est peut-être une réaction à l’économisme du marxisme orthodoxe. Mais les décoloniaux ont alors, selon lui,
« abusivement tordu le bâton dans l’autre sens, en attribuant aux discours, aux imaginaires, aux représentations, aux « épistémés », le rôle de forces motrices de l’histoire. L’attention qu’ils portent aux identités, aux spécificités cultuelles et aux « cosmovisions » les conduit à essentialiser et à idéaliser les cultures indigènes et les peuples « non blancs », dans ce qui revient à ressembler à une simple inversion de l’ethnocentrisme d’origine européenne. Cette perspective est d’autant plus problématique qu’elle s’accompagne d’une focalisation sur la « race » – catégorie éminemment ambiguë, même quand elle est manipulée par des universitaires récitant le fameux mantra « la-race-n’est-pas-une-réalité-biologique-mais-une-construction-sociale ». » (p. 14).

Dans le chapitre intitulé « Peau blanche et masques noirs » (qui inverse le titre du livre de Frantz Fanon Peau noire et masques blancs, Paris, Seuil, 1952), le sociologue Pierre Gaussens [8] et l’anthropologue Gaya Makaran entendent se livrer à une « autopsie d’une imposture intellectuelle » (p. 16). En se réclamant de Frantz Fanon, les théoriciens décoloniaux ont commis une « déformation de son legs » (p. 17). Selon Gaussens et Makaran,
« Fanon établit le diagnostic suivant : les efforts du colonisé pour « récupérer » sa propre histoire, sa propre culture, sa spécificité, son langage, etc., sont une étape nécessaire dans sa lutte personnelle et collective pour la dignité et contre l’infériorisation qui lui ont été imposées par le colonisateur. Mais cette étape est insuffisante, et peut même devenir dangereuse si elle n’est pas suivie d’un dépassement de l’essentialisation ainsi que du sentiment de revanche et de supériorité ancrés dans la particularité raciale/ethnique. » (p. 19-20).

On est ici en présence de la critique majeure faite à la pensée décoloniale : l’essentialisation débouche immanquablement vers la prééminence de l’identité culturelle.
« Voilà pourquoi le parti culturaliste d’une « renaissance » est condamné à l’échec tant que la question sociale ne sera pas résolue pour le colonisé. […] Fanon nous avertit que le problème du « Noir » n’est pas le « Blanc », mais « une société capitaliste, colonialiste, accidentellement blanche », qui l’exploite, le racialise pour légitimer sa domination. » (p. 21-22).

Selon les deux auteurs, l’Europe est vue par les décoloniaux également à travers le prisme de l’essentialisation qui « repose toujours sur la transformation d’une partie de l’Europe en son tout » (p. 33), alors que « l’histoire des peuples européens a été marquée et continue d’être marquée par le colonialisme interne » (p. 34). Gaussens et Makaran pointent le fait que, au nom d’une critique du marxisme, par exemple chez Anibal Quijano,
« les études décoloniales remplacent le capitalisme par la modernité, l’accumulation par le développement, la plus-value par le classisme, la classe par la race, le capital par l’Europe, la bourgeoisie par l’Occident, la subalternité par l’altérité, la conscience par l’identité, l’impérialisme par l’eurocentrisme et l’internationalisme par l’interculturalité. […] Les théories décoloniales cèdent ainsi à nouveau à une inversion stérile, sorte de « post-modernisme anti-postmoderne » qui ne fait que révéler les positions sociales dominantes à partir desquelles elles sont énoncées. » (p. 39-41).

L’un des concepts qui fait débat aujourd’hui dans l’anthropologie est celui de « nature » parce qu’il est au cœur de la question écologique. Par exemple, pour l’anthropologue Philippe Descola, « la nature n’existe pas » [9], sauf dans la culture occidentale. Et Avendano note que, pour Grosfoguel, « la notion de nature est en soi eurocentrique, occidentalocentrique, anthropocentrique. » (p. 128). Aussi, il lui rétorque :
« Mais alors (question à laquelle ne répond pas l’auteur), si le mot « nature » n’existe pas dans d’autres cosmogonies, comment les subjectivités sont-elles définies dans ces « autres cultures » ? Si le cœur du problème tient au fait que l’anthropocentrisme a créé un sujet qui s’oppose à la nature pour faire de celle-ci un moyen conforme à certaines fins, cela n’implique pas pour autant que toutes les subjectivités occidentales aient une forme identique. Cela n’implique pas non plus que l’absence du mot « nature » dans ces autres cosmogonies (il faudrait savoir lesquelles) y soit synonyme d’une absence de différenciation entre les humains et la nature. […] Si l’on tient pour vrai qu’il n’y a pas de sujet et que tout est nature, alors nous faisons face à une contradiction niant la condition humaine en tant que telle. » (p. 128-129) [10].

À l’encontre des thèses sur la colonialité, les auteurs de cet ouvrage critique préfèrent une modernité qui serait fondée sur une fécondation des cultures entre elles, ce qui changerait le regard des unes sur les autres. À cet égard, Cortès prend l’exemple de l’anthropophagie :
« L’anthropophagie, c’est-à-dire l’absorption de l’ennemi, était ainsi érigée par Oswald de Andreade [11]en manière de penser la culture latino-américaine. Cet acte de dévoration était cependant très différent du mépris : dans l’anthropophagie, n’est absorbé de l’ennemi que ce qui est utile, le reste est éliminé »(p. 163).

Et il cite ce poète brésilien :
« Nous voulons la Révolution caraïbe. Plus grande que la Révolution française. L’unification de toutes les révoltes efficaces dans le sens de l’homme. Sans nous, l’Europe n’aurait même pas sa propre Déclaration des droits de l’homme. » (p. 163).

3. La méconnaissance de la logique du capital
Dès le début de ce livre critique, Mikaël Faujour donne le ton en citant le propos en 1978 du théoricien révolutionnaire franco-nicaraguayen Raphaël Pallais, proche des idées situationnistes :
« De tous les pouvoirs coloniaux qui ont existé dans l’histoire, le plus grand de tous est le capital. Aucune conquête romaine, aucun empire inca, rien dans le passé de l’humanité ne peut se comparer favorablement avec sa conquête impérialiste de la totalité de la planète ni avec cette insatiable passion de pénétration qui le pousse, au-delà de la Terre même, vers les espaces de la stratosphère et les planètes inconnues. » (p. 15) [12].

On l’a déjà dit, l’une des pierres d’achoppement entre les décoloniaux et leurs critiques porte sur la naissance du capitalisme qui serait intrinsèquement corrélée avec le colonialisme et le racisme. Dans le dernier chapitre de cet ouvrage collectif, Andrea Barriga raconte que, d’abord séduite par le courant de pensée décolonial, elle en fut ensuite complètement désenchantée dès qu’elle creusa le concept de colonialité forgé par Quijano.
« La nouveauté semblait résider dans le fait de prendre en compte la classification raciale dans le cadre de la formation des rapports de pouvoir dans les sociétés actuelles, ainsi que le fait que la discrimination raciale ne s’était pas achevée avec la fin du colonialisme économique et politique, mais qu’elle perdurait sous la forme d’un colonialisme épistémique »(p. 186).

Barriga ne conteste pas le fait de la perpétuation du colonialisme mais elle dénonce « la critique de l’ethnocentrisme européen [qui] finit par friser l’ethnocentrisme latino-américain, qu’on pourrait aussi bien appeler américanocentrisme » puisque « tout est né avec l’Amérique » (p. 188). Elle soutient que les idées et les institutions que les Européens ont introduites en Amérique étaient déjà enracinées en Europe. Et elle reproche à Quijano de mettre dans une balance les souffrances des uns et des autres et « à déterminer quels sont les peuples colonisés qui ont été le plus dépossédés, lorsque la dépossession fait référence à la part immatérielle de la culture. […] Or le domaine des valeurs et celui des sciences doivent être séparés. » (p. 189-190).

Dès lors, Barriga conteste l’idée que 1492 serait la date de naissance du concept de race alors qu’il n’a vu le jour qu’au siècle des Lumières.
« Le terme « Indiens » n’est pas une « invention raciale » ; confrontés à des populations qu’ils ne connaissaient pas, les Européens les ont nommées ainsi en raison de leur situation géographique, puisque les explorateurs croyaient être arrivés en Inde. » (p. 193).

Rappelons aussi que Montesquieu, dans L’Esprit des lois (XV, 5), déconsidère par l’ironie la justification de l’esclavage des « nègres », omniprésente encore au XVIIIe siècle et il fait de même pour l’intolérance religieuse.

Barriga prend soin de préciser qu’elle « ne nie en aucun cas que les Européens arrivés en Amérique aient commis des méfaits en arguant de leur prétendue « supériorité » » (p. 195), mais
« s’il est indéniable que l’arrivée des Européens sur le continent, et tout ce qui est advenu par la suite, est un processus qui a changé le monde de bien des manières, on doit garder à l’esprit qu’aucune institution, qu’aucun rapport social n’a été « inventé » à cette occasion » (p. 198).

Il s’ensuit pour l’auteure que, d’un côté « on [le décolonialisme] idéalise le passé américain en imaginant des sociétés sans conflit » (p. 201), de l’autre on sous-estime la supériorité technologique des Européens pour surévaluer « leur croyance en leur supériorité » (p. 201).

Ainsi, il y a une certaine cohérence dans la pensée décoloniale entre l’essentialisation des humains au-delà donc de leurs conditions de vie, une modernité excluant par définition les connaissances construites au dehors d’elle-même, une domination sur les colonisés qui relèverait d’un ordre culturel mis à distance, sinon détaché, de l’impératif capitaliste d’exploitation. Ce dernier point est crucial : si l’on peut facilement contester le fait que le capitalisme ait inventé l’esclavage parce celui-ci a existé bien avant lui, la discussion naît pour déterminer l’importance du rôle qu’il a joué dans l’explosion du développement capitaliste européen puis états-unien. Par exemple, Alain Bihr [13] a soutenu la thèse selon laquelle c’est par le biais de l’expansion commerciale et coloniale européenne, conduite par des marchands soutenus par les États, qu’a pu s’opérer, en Europe, la transition entre le féodalisme et le capitalisme. Et il confirme que les plantations de canne à sucre, surtout dans les Antilles, puis celles de coton, pratiquant l’esclavage à grande échelle ont eu une grande importance sur l’évolution de la colonisation : l’agriculture latifundiaire fondée sur l’exploitation d’un travail servile valorise le capital agraire et marchand favorisé par l’expansion commerciale et coloniale de l’Europe. Ainsi, la colonisation est reliée à l’accumulation primitive accomplie dans la violence, théorisée par Marx.

Au terme de cet ouvrage sans concessions sur la pensée décoloniale, on peut retenir que les thèmes soulevés portent sur la colonialité comme envers de la modernité en tant que processus culturel et politique de domination promouvant un développement des sociétés linéaire et univoque. Par rapport aux études postcoloniales, les auteurs décoloniaux privilégient la critique de la domination épistémique plutôt que celle d’ordre économique. Ils érigent la race comme critère principal de classification et tiennent celui-ci comme l’élément fondateur du capitalisme. Aussi les discussions soulevées mettent en avant les risques d’essentialisation des catégories de « Noirs » et de « Blancs », euphémisation des « gentils » et des « méchants ». Elles font état aussi des entorses faites par les décoloniaux à l’origine et à l’histoire du capitalisme ainsi qu’à sa logique d’accumulation. Elles s’écartent donc des conceptions antérieures d’anticolonialisme et même de postcolonialisme, pour lesquelles il était précieux de conserver le concept d’humanisme à vocation universelle mais dans un monde pluriel [14].

Si la plupart des critiques à l’endroit des études décoloniales nous paraissent justifiées, il n’en reste pas moins que ces études arrivent à un moment où la crise globale d’un système social à l’échelle mondiale bouscule, sinon fait voler en éclats, les catégories intellectuelles traditionnelles. Décolonialisme, gender studies, subaltern studies, déconstruction, intersectionnalité des rapports de domination… sont des catégories souvent présentées de façon caricaturale dans le débat public, mais elles doivent être prises au sérieux pour pouvoir en dépasser les apories [15]. Sur le plan politique et stratégique, les processus d’émancipation de tous les peuples sont à ce prix. Sur le plan théorique, la ligne de crête à parcourir entre une vision économiciste traditionnelle et une vision culturaliste et identitaire constitue un véritable enjeu pour situer le rapport de classes au sein d’un capitalisme global en crise.

Jean-Marie Harribey
https://blogs.mediapart.fr/jmharribey/blog/281224/sur-la-critique-de-la-pensee-decoloniale

[1] Pour une présentation des thèses décoloniales : Claude Bourguignon-Rougier, Philippe Colin et Ramon Grosfoguel (dir.), Penser l’envers obscur de la modernité, Une anthologie de la pensée décoloniale latino-américaine, Limoges, PUL, 2014 ; Philippe Colin et Lissel Quiroz, Une introduction aux théories critiques d’Amérique latine, Paris, Zones/La Découverte, 2023 ; Capucine Boidin, « Études décoloniales et postcoloniales dans les débats français », Cahiers des Amériques latines, 62, 2009, p. 129-140, https://doi.org/10.4000/cal.1620.
[2] L’auteur phare du tiers-mondisme annonçant la critique du postcolonialisme dans les années 1960 est Frantz Fanon, Les damnés de la terre, Paris, F. Maspero, 1961. Le livre d’Edward Saïd en 1978 L’Orientalisme, L’Orient créé par l’Occident, Paris, Seuil, 1980, est considéré comme fondateur des études postcoloniales.
[3] Malcom Ferdinand, Une écologie décoloniale, Penser l’écologie depuis le monde caribéen, Paris, Seuil, 2019 ; S’aimer la Terre, Défaire l’habiter colonial, Paris, Seuil, 2024.
[4] Socialter, « La crise écologique, un héritage colonial ? », n° 66, octobre-novembre 2024.
[5] Jean-Loup Amselle, « La pensée décoloniale en question », Esprit, décembre 2024
https://esprit.presse.fr/actualite-des-livres/jean-loup-amselle/la-pensee-decoloniale-en-question-45647.
[6] Les chapitres de se livre se présentent dans l’ordre suivant :
– Mikaël Faujour : « Avant-propos » ;
– Pierre Gaussens et Gaya Makaran : « Peau blanche et masques noirs, Autopsie d’une imposture intellectuelle » ;
– Daniel Inclan : « L’histoire d’un débat, Le problème de l’intelligibilité du passé » ;
– Ricardo Castro Orellana : « Le côté obscur de la décolonialité, anatomie d’une inflation théorique »
– Bryan Jacob Bonilla Avendano : « Critique de la colonialoté, L’eurocentrisme et l’épistémologie de Ramon Grosfoguel » ;
– Martin Cortés : « Contre l’ontologie de l’origine et de la pureté, Sur Marx, les marxismes et la critique décoloniale » ;
– Andrea Barriga : « Anibal Quijano et la colonialité du pouvoir, Quand tout ce qui était solide s’en va en fumée ».
[7] Orellana précise que ces critiques avaient été formulées par l’historien Ricardo Salvatore.
[8] On peut lire aussi de P. Gaussens, « Les études décoloniales réduisent l’Occident à un ectoplasme destructeur », Entretien avec Youness Bousenna, Le Monde, 26 novembre 2024.
[9] Philippe Descola, « La nature, ça n’existe pas », Reporterre, Propos recueillis par Hervé Kempf, 1er février 2020
https://reporterre.net/Philippe-Descola-La-nature-ca-n-existe-pas
voir aussi du même auteur Par-delà nature et culture, Paris, Gallimard, 2005.
[10] Pour des compléments sur le rapport société/nature, voir Jean-Marie Harribey, En finir avec le capitalovirus, L’alternative est possible, Paris, Dunod, 2021, chapitre 4 ; et « Pourquoi le concept de capitalocène est-il l’objet de controverses théoriques et épistémologiques ? », Journées d’études d’Espaces Marx Aquitaine Bordeaux Gironde, 3 au 7 décembre 2024.
[11] Oswald de Andreade était un poète et dramaturge brésilien (1890-1954), auteur du Manifeste anthropophage (1928).
[12] Rafaël Pallais, Incitation à la réfutation du Tiers Monde, Paris, Champ libre, p. 18-19. Cité par Faujour, p. 15.
[13] Alain Bihr, Le premier âge du capitalisme (1415-1763), L’expansion européenne, Paris, Pages 2, Syllepse, 2018. Recension dans Jean-Marie Harribey, « À la naissance du capitalisme, il y eut l’expansion commerciale et coloniale », Les Possibles, n° 19, Hiver 2019,
https://france.attac.org/nos-publications/les-possibles/numero-19-hiver-2019/debats/article/a
–la-naissance-du-capitalisme-il-y-eut-l-expansion-commerciale-et-coloniale.
[14] Voir notamment Dipesh Chakrabarty, Provincialiser l’Europe, La pensée postcoloniale et la différence historique, Paris, Éd. Amsterdam, 2009.
[15] Voir le dossier « Vers la fin de la séparation société/nature ? », Les Possibles, n° 26, Hiver 2020-2021, https://france.attac.org/nos-publications/les-possibles/numero-26-hiver-2020-2021; ainsi que le dossier « Au croissement des différents rapports d’exploitation et de domination », Les Possibles, n° 32, Été 2022,
https://france.attac.org/nos-publications/les-possibles/numero-32-ete-2022 ; Catherine Bloch-London, Christiane Marty, Christine Mead, Josette Trat, Marielle Topelet, « Pour un féminisme intersectionnel et universaliste », 25 septembre 2021
https://blogs.mediapart.fr/jean-marc-b/blog/250921/pour-un-feminisme-intersectionnel-et-universaliste ; Catherine Bloch-London, Christiane Marty, Josette Trat, « Dépasser le clivage entre féminisme intersectionnel et féminisme universaliste », Les Possibles, n° 32, Été 2022, file:///Users/admin%201/Desktop/lespossibles_3246_8328.pdf ; Jean-Marie Harribey, « L’invisibiliation des classes populaires », Les Possibles, n° 38, Hiver 2024, https://harribey.u-bordeaux.fr/travaux/travail/invisibilisation-classes-populaires.pdf ; « Du travail et de l’exploitation, À propos du livre d’Emmanuel Renault », Les  Possibles, n° 39, Printemps 2024, https://harribey.u-bordeaux.fr/travaux/valeur/travail-exploitation.pdf ; « Pourquoi le concept de capitalocène est-il l’objet de controverses théoriques et épistémologiques », Journées d’études d’Espaces Marx Aquitaine Bordeaux Gironde, 3 au 7 décembre 2024, https://harribey.u-bordeaux.fr/travaux/valeur/controverses-capitalocene.pdf.

La compra de Scotiabank pondría a Davivienda de los Cortés entre los 3 bancos más grandes de Colombia. Las 2 orillas. Enero de 2025

El Grupo Bolívar, cuyos accionistas controladores son la familia Cortés, continuan negociando a través de su entidad bancaria Davivienda la compra de la operación para clientes de personas naturales en Colombia de la canadiense Scotiabank. La Superfinanciera en cabeza del peruano César Ferrari habría sido notificada y se está a la espera de recibir la autorización para concretar la venta. El acuerdo también podría incorporar la venta del negocio corporativo, pero este punto aún no está confirmado.

El banco canadiense se estableció inicialmente al país en 2010 como Scotiabank Colombia, pero se consolidó dos años después, cuando adquirió el 51 % del Banco Colpatria, un acuerdo realizado por el empresario bogotano Eduardo Pacheco, cuando este dirigía el negocio familiar a través de Mercantil Colpatria. Posteriormente, en junio de 2013, con el fin de construir una presencia bancaría más fuerte, ambos bancos se fusionaron.

En 2018, los canadienses apostaron por el segmento de personas naturales y adquirieron el negocio de banca personal y pymes de Citibank, sin embargo, Scotiabank Colombia nunca logró despegar por completo en el negocio de banca corporativa.

Desde el año pasado, Scotiabank, el banco más internacional de Canadá, ha venido reestructurando su estrategia global, la cual incluye retirarse de sus operaciones de baja rentabilidad en América Latina para concentrase en los mercados de América del Norte, particularmente en México, Canadá y Estados Unidos.

En el acuerdo de venta, la familia Pacheco, dueña del 43,9 % de Scotiabank, recibiría una prima para compensar el deterioro que sufrió su participación en el banco. Esta no es la única venta de activos que ha realizado recientemente el Grupo Colpatria, el año pasado vendió su participación en Mineros al fondo Sun Valley Investments cuyo director general y socio, es el indio Vikram Sodhi.

La familia Cortés, por su parte, lograría con la compra de Scotiabank consolidarse en el sector financiero

Esta sería la transacción más grande del sector bancario en Colombia en los últimos años, y elevaría al Banco Davivienda a un total de 3,8 millones de tarjetas de crédito, superando a Bancolombia, que hasta ahora mantiene la delantera en este segmento, y lo colocaría entre los tres principales jugadores del mercado financiero colombiano, junto a Bancolombia y Banco de Bogotá.

Campisme et géopolitisation de la société civile africaine. Entre les lignes entre les mots. Janvier 2025

Une tendance à la géopolitisation de la société civile africaine existe, qui repose sur cet entrelacs de passif (néo-)colonial non résolu, de sentiment d’aliénation politique et d’affinités électives avec des puissances alternatives.

Deux courriels qui se suivent dans ma boîte de réception, reçus à deux heures d’intervalle il y a quelques jours. Le premier, un communiqué de presse de l’organisation de la société civile nigérienne Alternative Espaces Citoyens, annonce que son secrétaire général, Moussa Tchangari, enlevé l’avant-veille à son domicile à Niamey par des hommes en civil armés, est retenu en garde à vue dans un service de sécurité pour « apologie du terrorisme ». Le second, le bulletin d’un think tank progressiste – le Tricontinental Institute – rend compte avec enthousiasme de la « Conférence en solidarité avec les peuples du Sahel » tenue dans la même ville de Niamey deux semaines plus tôt, qui visait à manifester un soutien « panafricain » aux pouvoirs militaires de l’Alliance des États du Sahel (Niger, Burkina, Mali). D’un côté, donc, une junte qui arrête un militant progressiste historique, de l’autre, des militants progressistes qui offrent une tribune à cette même junte.

Car Moussa Tchangari n’est pas n’importe qui au Niger. Figure centrale des grandes mobilisations qui rythment l’histoire politique du pays ces trente dernières années, il a animé les manifestations étudiantes pour la démocratisation dans les années 1990, les mobilisations de masse contre la vie chère la décennie suivante, la contestation populaire des tendances antidémocratiques et antisociales du gouvernement Issoufou dans la décennie 2010. Un engagement qui s’est soldé par plusieurs séjours en maison d’arrêt, notamment quatre mois en 2018. La radicalité de ses positions contre un pouvoir soutenu par les pays occidentaux l’avait d’ailleurs rendu non fréquentable aux yeux des diplomates européens. D’autant que l’enjeu de la souveraineté du Niger, notamment sur ses ressources minières, était un axe fort de ses combats, bien des années avant l’inflammation du « sentiment antifrançais » dans la région. Enfin Moussa Tchangari était une des dernières voix critiques restées au pays après le coup d’État du 26 juillet 2023 et l’installation du régime « souverainiste » du Conseil national pour la sauvegarde de la patrie (CNSP).

La rareté d’une voix comme celle de Tchangari s’explique bien sûr par la peur qui s’est emparée de la société civile nigérienne, suite à la série d’arrestations de journalistes ayant osé s’écarter du discours officiel, en particulier sur la réalité des succès de la lutte contre les terroristes djihadistes, socle du discours de légitimation des putschistes [1]. Mais cette modération s’explique aussi par la complaisance d’une bonne partie des leaders de la société civile nigérienne à l’égard du pouvoir militaire. Comme l’expliquait Azizou Abdoul Garba il y a quelques mois, le Niger offre le spectacle étonnant « d’une société civile qui soutient inconditionnellement la junte militaire. Certains de ses acteurs, connus pour leur engagement en faveur de la démocratie, ont paradoxalement décidé de lui apporter leur soutien en dépit du démantèlement des institutions » [2].

Les plus motivés avaient constitué en août 2022 le mouvement « M62 », rassemblement d’une quinzaine d’organisations de la société civile qui avait organisé des manifestations dans le centre de Niamey pour exiger le départ de l’opération militaire française (Barkhane) contre le djihadisme au Sahel. Les principaux animateurs du M62 avaient par la suite mis leur pouvoir de mobilisation au service des putschistes dans le contexte du rapport de force qui s’était installé entre ces derniers d’une part et la France et la CEDEAO d’autre part, réussissant à rassembler des milliers de Nigériens dans des démonstrations de soutien populaire à la décision des nouvelles autorités d’expulser les soldats français. La contribution des leaders de la société civile à la légitimation du nouveau régime n’a pas seulement pris des formes aussi directes et explicites. Elle s’est faite aussi de manière plus subtile, à travers la reprise des éléments de langage autour de la « refondation » en cours du Niger.

Cette adhésion plus ou moins assumée au nouveau cours autoritaire des choses par des « partenaires » financés depuis des années, voire des décennies, à des fins de promotion de la démocratie, de la bonne gouvernance et des droits humains a dérouté bien des ONG européennes. Le comble de l’incompréhension a sans doute été atteint face à l’attitude du représentant nigérien de la coalition internationale « Tournons la page », réseau d’ONG africaines et européennes menant des actions et campagnes contre les tentatives des présidents africains de s’éterniser au pouvoir en manipulant les institutions. Ce même militant qui coordonnait en juin 2022 un rapport sur « l’extinction de l’espace civique » au Niger durant les années Issoufou (2011-2021), au cours desquelles le respect des libertés publiques avait effectivement gravement régressé, est désormais un des chantres les plus bruyants d’un régime dans le cadre duquel « les droits humains sont en chute libre » [3].

Si le positionnement de la société civile nigérienne découle de ses spécificités – sa « faiblesse structurelle » pour paraphraser Abdoul Garba –, il s’inscrit dans une conjoncture idéologique régionale de dévaluation du modèle démocratique de gouvernement de la société. Ainsi l’enquête menée par Tournons la page et Science Po-CERI auprès d’environ 500 militants associatifs et syndicaux de six pays africains francophones révèle que moins de la moitié des activistes estime que la démocratie est préférable à toute autre forme de gouvernement, tandis que 61% considèrent qu’un gouvernement efficace est préférable à un gouvernement démocratique. Une « fatigue démocratique » qui se vérifie, quoique dans une moindre mesure, dans les grandes enquêtes couvrant également les pays anglophones du continent. Les déterminants de ce désenchantement sont pluriels et varient d’un pays à l’autre, mais reposent très largement sur l’expérience concrète d’une « démocratie » systématiquement dévoyée par une oligarchie politique corrompue, au détriment de la souveraineté nationale, du développement, de la sécurité. [4]

La France et les pays occidentaux en général apparaissent comme compromis dans ces échecs démocratiques. D’une part, car les modèles institutionnels implantés sur le continent depuis les années 1990 sont de plus en plus considérés comme des produits importés d’Occident, souvent par conditionnalités interposées, qui dysfonctionnent parce qu’ils sont exogènes, incompatibles avec les réalités sociopolitiques locales. D’autre part, car les gouvernements occidentaux ont trop souvent validé les démocraties de façade, dès lors que celles-ci favorisaient leur accès aux ressources naturelles, aux marchés publics ou aux emprises militaires, donnant l’impression d’une poursuite de la présence coloniale par d’autres moyens, en particulier dans les ex-colonies françaises. Sur ces deux plans, Vladimir Poutine apparaît comme une alternative, un contrepoint vierge de compromission néocoloniale, en résistance contre l’hégémonie occidentale, plus fiable sur le plan sécuritaire et respectueux des souverainetés africaines, projetant l’image d’une « conception musculaire du pouvoir et du virilisme politique » en vogue dans de larges fractions de la jeunesse africaine. [5]

Une tendance à la géopolitisation de la société civile africaine existe donc, qui repose sur cet entrelacs de passif (néo-)colonial non résolu, de sentiment d’aliénation politique et d’affinités électives avec des puissances alternatives. Elle est parallèlement alimentée par un travail de cadrage (soit de construction et diffusion de narratifs), qui diabolise le rôle de l’Occident en Afrique, par des entrepreneurs d’influence locaux ou externes au service des politiques étrangères de la Russie et de la Chine. Non pas que l’existence de mécanismes néocoloniaux soit une vue de l’esprit, bien entendu [6], mais ces relais d’influence s’emploient à les caricaturer, voire à les inventer, souvent à grand renfort de théories du complot [7], tout en euphémisant les facteurs politiques internes de la dépendance et en idéalisant les impérialismes concurrents.

La Conférence en solidarité avec les peuples du Sahel évoquée en début d’article est une déclinaison parmi d’autres de ces dispositifs de propagande. Le fait que l’« Assemblée mondiale des peuples » compte parmi les promoteurs de l’événement, l’inscrit par ailleurs dans une démarche beaucoup plus large de géopolitisation des sociétés civiles. Cette organisation est effectivement une branche d’une entreprise internationale de mobilisation des organisations populaires du Sud global en faveur des intérêts et de la vision de la politique étrangère chinoise [8]. Contrairement à ce que le titre de cette conférence suggère, et à l’instar d’autres initiatives anti-impérialistes « campistes » [9], ce ne sont justement pas les « peuples » qui importent aux organisateurs de l’événement – en l’occurrence le recul de l’insécurité djihadiste et de la pauvreté au Sahel ou la promotion des droits sociaux et politiques – mais bien la survie des régimes ayant rejoint le camp des empires anti-occidentaux.

Notes
[1] Amnesty International, « Niger : La liberté de la presse en péril avec l’intimidation et l’arrestation de journalistes travaillant sur le conflit », 3 mai 2024.
[2] Azizou Garba, « Niger : la société civile contre la démocratie ? ».
[3] Human Rights Watch, « Niger : Les droits humains en chute libre un an après le coup d’État », communiqué de presse, 25 juillet 2024.
[4] Afrobarometer, Aperçus africains 2024. La démocratie en danger – le point de vue du peuple, 2024 ; Ichamily Foundation, African Youth Survey, 2024.
[5] Jean-François Bayart, L’Afrique au diapason de Vladimir Poutine ?, 21 septembre 2022,
https://aoc.media/analyse/2022/09/20/lafrique-au-diapason-de-vladimir-poutine/.
[6] CETRI, Anticolonialismes, Paris, Syllepse, Collection « Alternatives Sud ».
[7] Jean-Pierre Olivier de Sardan, « Le rejet de la France au Sahel : mille et une raisons ? », L’enchevêtrement des crises au Sahel, Paris, Kartala, 2021.
[8] Voir l’article documenté d’Alexander Reid Ross et de Courtney Dobson dans le magazine New Lines (18 janvier 2022) sur la nébuleuse d’organisations financées par un milliardaire états-unien prochinois pour (entre autres) disséminer un narratif mettant en doute la réalité des persécutions subies par les Ouigours.
https://newlinesmag.com/reportage/the-big-business-of-uyghur-genocide-denial/.
[9] Campisme dont la manifestation la plus criante est la bienveillance à l’égard des « Pinochet arabes », comme le ci-devant Bachar el-Assad, dès lors qu’ils manient une rhétorique anti-occidentale.

François Polet
https://www.cetri.be/Campisme-et-geopolitisation-de-la

Nuevos retos tras la crisis de seguridad. Enero de 2025. LPG

Cada cierto tiempo se informa de la detención de personas acusadas de pertenecer a la pandilla; no es intermitente sino una suerte de patrón de publicaciones sociales con el propósito de mantener el asunto en la agenda. ¿Qué asunto? El del peligro que representan los eventuales remanentes de esa mafia y la necesidad de mantener vigente el régimen de excepción, la militarización del espacio y de la seguridad pública.
En ese sentido, valga decir que el gobierno es víctima de su propio éxito, el de su manejo de la agresión terrorista de hace dos años y medio, el de la recuperación del control territorial y el del modo en que administró la narrativa: la suma de esos tres sucesos, el operativo, el social y el comunicacional dieron como resultado que la población ya no le tema a la pandilla y la considere el pasado.
El fin de semana homicida de marzo de 2022 representó el clímax del terror de la nación ante los delincuentes; ese miedo cultivado durante la última década y la respuesta punitiva de la institucionalidad se conjugaron para valerle al gobierno y a su cúpula la popularidad de la que gozó al final del quinquenio. Es que a diferencia de otros países en los que un régimen debió inventarse enemigos para cultivar entre su gente una falsa idea de seguridad que justificara los excesos autoritarios, en El Salvador la amenaza fue real y se constituyó en una suerte de estado dentro del Estado, con sus propias reglas, voceros, códigos y territorios.
En otros países, el peligro es diseñado políticamente para despertar temor y cosechar en él; en El Salvador, la victimización fue real, sostenida, y al reaccionar con toda su fuerza, al recuperar el monopolio de la violencia sin matices y a plena luz del día, el gobierno triunfó en los tres órdenes apuntados: en el militar policial, en el vínculo con buena parte de la sociedad y en el propagandístico. El saldo directo de esa victoria fue que por primera vez en muchos años, la ciudadanía dio por satisfecha una, cualquiera de las demandas sin solución sufridas durante años; no es poca cosa a efectos oficiales pues la capacidad del sistema para brindar respuestas es el modo más eficaz y orgánico de regular el grado de descontento de la población.
Por eso no se equivocan quienes creen que los dos anteriores fueron los años más dulces en la relación de la cúpula con la nación, porque el ciudadano además de conforme se sintió en deuda con el gobierno; de esa sensación se derivó una lealtad que le permitió al oficialismo capitalizar y procesar ciertas expectativas mientras desoyó otras igual de importantes como la del respeto a los derechos humanos, la crisis económica, la contención e investigación de la corrupción, etc.
El mismo presidente, al pasar revista al Ejército en septiembre pasado, se refirió a la crisis de seguridad en pretérito. Abrió de inmediato a todos los efectos una nueva etapa en la que los retos son distintos, en la que dando por consumada la guerra contra la pandilla, la estabilidad del sistema político vuelve a depender de la funcionalidad, es decir de qué tan útil y satisfactoria es la relación entre la clase política y el colectivo social, sus actores, sus grupos de presión.
Las asignaturas pendientes son abrumadoras, el gobierno tiene que ser creativo y corregir sus peores hábitos; algunos en la cúpula consideran más recomendable atrincherarse pronto, transformar las demandas de la gente en discursos emotivos que la mantengan entretenida aunque no resuelvan nada, y neutralizar a los grupos de poder valiéndose de la popularidad y la fuerza. ¿Qué camino recorrerá la administración?

Realizan primera entrevista a Movimiento Cultural Salvadoreño “Prometeo Liberado”

SAN SALVADOR, 3 de enero de 2025 (SIEP) “Nuestros esfuerzos como movimiento están dirigidos hacia la emancipación cultural en nuestra patria…” indicó Guillermo Campos, en entrevista con el periodista Luis Galdámez, de la revista Espacios, en la que también participaron Ivis Barrera, Roberto Pineda y Dimas Castellón.

Agregó Campos que “cultura viene de cultivo, y el desafío que asumimos como movimiento es el de cultivar, fortalecer y promover el rescate y la defensa de las diversas expresiones de nuestra identidad cultural…”

Por su parte, Barrera  explicó que “este es un esfuerzo por darle vida a un espacio de amistad y de apoyo, de solidaridad entre el gremio artístico, de promover nuestros valores literarios, históricos, de la pintura, escultura, danza, teatro, arquitectura, etc.”

Pineda subrayó que “existe una cultura oficial desde el estado y sus instituciones, y una cultura alternativa que surge desde la sociedad civil, y que refleja los sueños y anhelos de los sectores populares, su imaginario cultural…”

Finalmente, Castellón opinó que “hay una crisis en la cultura oficial, y el cierre de las Casas de la Cultura,  afecta y debilita fuertemente el desarrollo cultural de nuestro país, por lo que es una medida que debería ser rectificada.”

En el Manifiesto de fundación de este movimiento se rinde homenaje  a “Chicho y su Ulalio U, a los escritores de la Generación Comprometida, Manlio Argueta, el Pichón José Roberto Cea y Alfonso Quijada Urías.”

Tiempos difíciles: hitos y tendencias que marcaron el 2024 latinoamericano y caribeño (I). Lautaro Rivara. Diciembre 2024.

Toda síntesis de la extensa, contradictoria y no siempre sincrónica región latinoamericana y caribeña debe adolecer, necesariamente, de los inevitables pecados de la arbitrariedad y la simplificación. Sin embargo, un reducido itinerario por algunos de los hechos y tendencias más sobresalientes del año que se va puede dar indicios de la orientación general de una región que solo puede ser comprendida como una unidad histórica y geopolítica.

El estancamiento económico de la región

Según la CEPAL, el 2024 redondeó casi un decenio de estancamiento económico generalizado en América Latina y el Caribe. Ni conservadores ni progresistas, ni propios ni extraños, ni tirios ni troyanos, pudieron en ningún caso alardear de tasas de crecimiento excesivamente altas o de indicadores económicos lo suficientemente estables o promisorios.

Entre los casos más sobresalientes, encontramos economías altamente desiguales, concentradas y dependientes de los servicios logísticos, financieros y turísticos internacionales como República Dominicana y Panamá. O casos totalmente excepcionales como el de Guyana, que en el último bienio rompió todas las métricas tras el descubrimiento de grandes yacimientos hidrocarburíferos en la región del Esequibo, que se encuentra en litigio con la vecina Venezuela. Positivos fueron también los indicadores de crecimiento en países con gobiernos progresistas o de izquierda como México (en clave de estabilidad y previsibilidad) y Venezuela (en clave de recuperación respecto del punto más álgido de las medidas coercitivas unilaterales), pero en ambos casos con una alta incidencia de las remesas, las “maquilas” y las “zonas económica especiales”. Como sea, estos desempeños se encuentran muy lejanos de los de grandes potencias emergentes como China, la India, Turquía o Indonesia.

Pero si las causas de los muy relativos “éxitos” macroeconómicos son poco evidentes o difícilmente imputables a tal o cual modelo o liderazgo, no sucede lo mismo con los incontestables fracasos de los países que dan patadas de ahogado al fondo de la tabla: tanto la Argentina anarco-capitalista de Javier Milei y su «Ley Bases» como el Haití dominado por grupos paramilitares (ambos con los mayores récords recesivos) aparecen como una consecuencia explícita de una suerte de post-estatalidad salvaje y de una nueva gobernabilidad de tipo madmaxiana.

La década de la contraofensiva regional conservadora, pero también los primeros años de la “segunda ola progresista”, no lograron rebasar un cuadro generalizado de estancamiento que viene a demostrar que la región nunca superó del todo la gran crisis económica de 2008 ni mucho menos la pandemia del Covid-19. Ciclos políticos breves con una gran alternancia ideológica se sobreimprimen sobre ciclos económicos chatos, de bajo crecimiento, amesetamiento de las exportaciones, escasa inversión, condiciones financieras internacionales adversas y una todavía alta inflación. Frente a un mundo volátil, la economía latinoamericana y caribeña permaneció este año, periférica y dependiente, en estado de crisis casi permanente.

Las cumbres de la CPAC y la consolidación de la «internacional reaccionaria»

Las nuevas derechas radicales rinden culto a una frase acuñada por la narrativa apocalíptica del escritor estadounidense G. Michael Hopf: “los tiempos difíciles crean hombres fuertes”. En efecto, fuertes (y también inclementes) han sido los gobiernos ultraderechistas de Nayib Bukele en El Salvador, Javier Milei en la Argentina y Daniel Noboa en Ecuador, principales abanderados del giro conservador en la región. Medidas económicas draconianas, países “atendidos por sus propios dueños”, liderazgos autoritarios con toques carismáticos y políticas de seguridad altamente punitivas han sido sus marcas de identidad. Con acaso menor conocimiento y encanto, tendencias similares se han verificado también en Panamá, República Dominicana o Perú.

Sin embargo, la novedad del momento es la consolidación de las redes internacionales de estas nuevas derechas y su inscripción en una auténtica “internacional reaccionaria” conformada por la CPAC y por una vasta red de think tanks, fundaciones, mecenas y partidos políticos con terminales en los Estados Unidos y Europa. Así, 2024 fue el año de su irradiación definitiva en la región, a caballo de las sucesivas cumbres realizadas en agosto en Ciudad de México y en diciembre en Buenos Aires, y del patrocinio explícito de Donald Trump a algunos de sus subalternos ideológicos preferidos. 

Por eso, este proceso no puede entenderse sin la exportación de la “grieta” estadounidense, que ha impulsado toda una serie de realineamientos en las derechas vernáculas de cara al fenómeno trumpista. El revisionismo histórico a lo MAGA o directamente la nostalgia colonial, el calco de una retórica rabiosamente antimigrante que paradójicamente se vuelve contra los propios países emisores de migración y la combinación esperpéntica de modelos económicos aperturistas y la invocación del proteccionismo trumpiano, dan cuenta de las contradicciones insolubles de la implantación del “anti-globalismo” y la agenda “anti-woke” en otros climas y otras geografías. Como sea, pese a la ilusión de homogeneidad que proyectan los miembros de la disfuncional familia conservadora, no caben dudas de que su articulación se ha fortalecido y de que su capacidad de respuesta y construcción de agendas comunes está hoy más aceitada que nunca.

El crecimiento de los factores armados y el recrudecer de la violencia

No sería exagerado definir el 2024 regional como un año ultraviolento. La multiplicación, crecimiento y expansión de los factores armados y de todo tipo de violencias no deja de constatarse a lo largo y ancho de la geografía continental. En casi todos lados la estatalidad y la comunitariedad languidecen en favor de la irrupción de la para-estatalidad, el narcotráfico y las soberanías fragmentadas, cuyos pedazos se reparten remanentes de instituciones democráticas, comunidades resistentes (barriales, campesinas, indígenas, afrodescendientes), grupos delincuenciales, formaciones paramilitares, cárteles de la droga, fuerzas militares extranjeras, ONGs internacionales, grupos confesionales, etcétera.

Algunos hitos de esta tendencia son, en Ecuador, la debacle securitaria, la extensión del sicariato, los motines carcelarios, la Consulta de Noboa del 21 de abril, el intento de modificar la Constitución para reinstalar bases militares extranjeras y la desaparición forzada de tres adolescentes y un niño por parte de las fuerzas armadas el 8 de diciembre. En Argentina, la popularización de la punitiva «Doctrina Chocobar» de la ministra Patricia Bullrich, el crecimiento de la violencia ciudadana y la ingente partida presupuestaria discrecional que el gobierno de Milei intentó destinar a los servicios de inteligencia, presuntamente para tareas de espionaje y represión interna.

En Perú, el visto bueno del Congreso para el ingreso de militares estadounidenses para “colaborar” con las fuerzas armadas y la policía local a partir del año entrante, así como la impunidad ante las masacres cometidas por el gobierno de Dina Boluarte. En Chile, la militarización rigurosa y permanente de la Araucanía y de las poblaciones indígenas mapuches, incluso bajo un gobierno como el de Gabriel Boric. En Paraguay, la cesión del control de la estratégica hidrovía Paraná-Paraguay al Cuerpo de Ingenieros del Ejército de los Estados Unidos. En El Salvador, la instalación del modelo de las “mega-cárceles”, el encarcelamiento masivo de más de mil personas cada 100 mil habitantes y la instauración de un “régimen de excepción permanente” que viola las garantías constitucionales y los derechos humanos del conjunto de los y las salvadoreñas. En Haití, la federación de grupos paramilitares que controlan ya más del 80 por ciento de la ciudad capital y sus alrededores y que amenazan con balcanizar y dominar todo el territorio nacional.

En lo que respecta a gobiernos progresistas que como el de México o Colombia rigen los destinos de naciones que han sido víctimas, durante décadas, de las políticas contrainsurgentes y de la mal llamada “guerra contra las drogas” (en rigor, una guerra contra las poblaciones), la permanencia del conflicto, de espacios de para-estatalidad, y el poderío sostenido de las economías ilícitas, demuestran la dificultad de subsanar, en los breves ciclos electorales, la extensión y profundidad de los ciclos de la guerra, en una geografía del conflicto que muta y se desplaza pero se resiste a ceder paso a una soberanía estatal o comunitaria efectiva.

Por último, y en toda la región, se multiplican las giras de la CIA y el Comando Sur, en la búsqueda de establecer un “área de exclusión” que deje por fuera del “patio trasero” estadounidense a jugadores globales como China y Rusia, así como se verifica la preeminencia de un lobby militarista israelí que continúa vendiendo software espía, armas y tecnología militar de punta pese a su creciente aislamiento internacional.

Tampoco la violencia sexual escapó a esta tendencia: durante el primer semestre del año se documentaron 2.128 feminicidios en 16 países de la región, resultando en una media de un feminicidio cada dos horas, en un promedio que supera al de de años anteriores.

El apático retorno de la CELAC y la fuerzas centrífugas de la geopolítica global

Una forma de medir los bríos relativos de un espacio de articulación y concertación es dar seguimiento a sus novedades más allá y más acá de la convocatoria rutinaria a reuniones, foros y cumbres. En el caso de la CELAC, apenas si tuvimos noticias del espacio más amplio y comprensivo de la integración regional desde la cumbre de marzo de este año (amén de algunos posicionamientos de rigor, como sucedió frente al asalto del gobierno ecuatoriano a la embajada mexicana en Quito). A la sorda protesta de los gobiernos conservadores y a los faltazos de sus líderes regionales en una cumbre que el ex presidente pro témpore Ralph Gonsalves definió como “mutuamente insatisfactoria”, se sumó una declaración final más bien laxa y el anunció de una serie de medidas concretas y discretas de las que no se ha dado mayor seguimiento público: mejorar la conectividad aérea, establecer un organismo sanitario regional y generar un marco para validar internacionalmente los títulos educativos. Nada se sabe sobre eventuales avances al respecto.

Como siempre, más estrecho geográficamente pero más dinámico y homogéneo políticamente ha sido el radio de acción de ALBA-TCP, el bloque integracionista que encabezan Venezuela, Cuba, Nicaragua y Bolivia, y que incluye también a varios países del Caribe insular. Este mismo mes, el espacio fundado por Hugo Chávez y Fidel Castro cumplió dos décadas de existencia, con un historial de avanzada en el campo del comercio, la educación, la salud y la energía, que sin embargo sufrió los embates de las crisis respectivas de Venezuela, Cuba y Bolivia. Al anunciado relanzamiento de la plataforma de cooperación energética PetroCaribe se suma ahora el proyecto AgroAlba, que según sus impulsores buscará “promover la soberanía alimentaria” y “producir alimentos orgánicos y sanos” para la región.

Sin embargo, no todo fue armonía y concertación en el amplio espectro de las izquierdas y los progresismos de la región durante el 2024. Dos hechos sacudieron este año la precaria unidad del espacio: las elecciones presidenciales de Venezuela del mes de julio, cuyos resultados oficiales fueron negados con animosidad por los gobiernos centristas de Gabriel Boric en Chile y Bernardo Arévalo en Guatemala, y resistidos con suspicacias y matices en el caso de sus homólogos de Colombia y sobre todo Brasil. Otro hito, para algunos una suerte de respuesta al primero, fue el veto de Lula da Silva y la Cancillería brasileña al esperado ingreso de Venezuela al bloque de los BRICS, que de este modo solo se abrió, en la región, a la participación de Cuba y Bolivia durante la 16° cumbre de Kazán, en Octubre. Acaso ningún acontecimiento señaló de manera tan nítida como las elecciones venezolanas y su veto explícito en los BRICS que los caminos de las izquierdas y los progresismos de la región dan señales de bifurcación que podrían llegar a un punto de no retorno. A las diferencias de modelos económicos, competencias por el liderazgo regional, concepciones de la democracia y el poder, asincronía de las diferentes “oleadas progresistas” y posicionamiento desigual frente al hegemón norteamericano, se suman las tendencias centrífugas de la geopolítica mundial, que fuerzan a una región incapaz de unificarse a tomar partido de manera aislada o por bloques por alguno de los bandos en pugna en la transición hegemónica en curso. La diferencia entre “izquierdas sociales”, “izquierdas políticas” e “izquierdas geopolíticas” no necesariamente llevará a que la región aproveche las oportunidades de la multipolaridad, pero si a que sufra todos sus avatares y peligros, sin importar cuáles sean los contenidos efectivos que a esta perspectiva se le de en Beijing, Moscú, Brasilia o Caracas.

Publican Orígenes y evolución del teatro en Mesoamérica de William Armijo

SAN SALVADOR, 31 de diciembre de 2024 (SIEP) Orígenes y evolución del teatro en Mesoamérica, publicado en España, es el nuevo libro de William Armijo, artista salvadoreño radicado en Francia desde 1978.

Armijo, fue uno de los pioneros en El Salvador de la canción protesta en la década de los años setenta, así como un distinguido alumno en la UES del maestro español Edmundo Barbero. Luego, en París, en la Universidad de la Sorbonne, obtuvo su maestría en estudios teatrales. Últimamente está dedicado al trabajo de cantante guitarrista.

Es precisamente la tesis que presentó para esta maestría la que se convirtió en libro, publicado en España por la Revista Vericuetos del colombiano Efer Arocha. Además la publicación de esta obra da inició al proyecto editorial de la Fundación Roberto Armijo.

La obra se divide en cuatro capítulos, el primero trata sobre la definición de Mesoamerica, lugar dónde nació un teatro; el segundo sobre los testimonios históricos que afirman los orígenes y evolución del teatro mesoamericano.

El tercer capítulo sobre las cusas que dieron origen a la estética del teatro mesoamericano y el último sobre la auténtica pieza El Rabinal Achi, rescate del teatro mesoamericano y conservación de las representaciones a la manera prehispánica. Armijo, originario de Chalatenango, es miembro fundador del recién creado Movimiento Cultural Salvadoreño “Prometeo Liberado.”

En serio, me gustaría creerles. Carlos Gregorio López Bernal. 27 de diciembre de 2024. LPG

Pensar este país en los últimos seis años se ha convertido en un reto para la racionalidad. Si nos lo tomamos muy en serio puede resultar insufrible. Y no es que sea muy diferente al que conocimos antes; al contrario, sigue siendo muy parecido. Solo que desde 2019 sufrimos un constante bombardeo en dos modalidades. En la primera pretenden convencernos, ¡como si fuera necesario! de lo mal que nos tenían los mismos de siempre. Si la mitad de lo que dicen fuera cierto mereceríamos un premio mundial al estoicismo y la capacidad de aguante y supervivencia. En la segunda, tratan de hacernos creer que vivimos en el mejor país imaginable. ¡El primer mundo nos queda pequeño! Tan bien andamos. Tan es así que en pleno trópico nos montaron una villa navideña al estilo nórdico, con pista de hielo incluida. Además, tenemos un centro histórico tan bien remodelado que algunos ya lo confunden con París. 

Por el contrario, hay quienes aseguran que nunca habíamos estado tan mal y que vamos para peor. Y no les faltan argumentos y ejemplos, algunos de ellos irrefutables, por ejemplo, el aumento de la deuda pública, que ya superó los 31,000 millones de dólares, más del 87.5% del PIB. Entre esas tres realidades mutuamente excluyentes cada uno toma la que quiere. Y lo más seguro es que la escogencia se hace sin criterios racionales, sin un análisis mínimo de pros y contras, sino por simple afinidad de pensamiento y filias o fobias políticas. Por eso estamos como estamos. Por eso campea entre nosotros la intolerancia y la descalificación a priori.

De las tres posibilidades señaladas, personalmente me gustaría creer en esa que pregona ruidosamente que estamos bien y que estaremos mejor. Que ha habido cambios y nos faltan muchos más, pero no podemos ir tan de prisa, pues los lastres del pasado son tantos. Que malgastamos doscientos años de vida independiente para darnos cuenta que todo ese tiempo nos engañaron. Que no hubo la tal independencia, que la guerra civil no se dio por profundos problemas estructurales, sino que fue un negocio de cúpulas de derecha e izquierda. Que los tales acuerdos de paz fueron solo un negocio pactado. Que la democracia nos llegó en 2019, y todo lo anterior fue una farsa. Que por primera vez gozamos de seguridad, etcétera. Creer tal narrativa, seguro que llena de satisfacción y optimismo.

En serio, me gustaría creerles, ¿por qué no? ¿Por qué insistir en ver el vaso medio vacío en vez de verlo medio lleno? Me gustaría creer, pero sin renunciar a pensar. 

Me gustaría creer que somos el país más seguro, aunque eso implique el dudoso honor de tener la tasa más alta de presidiarios a nivel mundial. Todo tiene su costo. Además, las pandillas hicieron tanto daño a las familias salvadoreñas. Lo aceptaría a condición de que se garantizara que en las cárceles no hay inocentes, o al menos que los acusados tendrán un juicio justo y no esa farsa de juicios colectivos. ¿Por qué? Porque un principio básico de la justicia —no de la venganza ni del populismo—, es la presunción de inocencia y, sobre todo, la individualización del delito. Me comprueban que soy culpable, porque queda absolutamente clara mi participación, a título individual en el cometimiento del ilícito y debo pagar. Así de sencillo.

Por último, si estamos tan seguros como dicen, ¿por qué mantener el régimen de excepción? Es un contra sentido, a menos que esté sirviendo para otros fines. En fin, me gustaría creer que estamos aplicando justicia y no venganza. Peor aún, que ese discurso de vindicta pública es solo una artimaña populista.

Me gustaría creer que las reformas institucionales y los recortes de personal son necesarias para modernizar y eficientizar el Estado y balancear el presupuesto. Es un argumento lógico. Necesitamos un Estado eficiente. Y para ello es necesario intervenir instituciones, eliminar algunas y reducir personal que no es indispensable. De acuerdo; sin embargo, desde hace años se propuso una nueva ley de servicio civil y no se retoma. Y hay evidencia suficiente de que se han despedido miles de empleados públicos solo para reemplazarlos con otros. Es decir, no se pretendía achicar el aparato burocrático, sino dar plazas a los activistas del partido en el poder.

Lo peor de todo, persisten los tremendos desbalances salariales. Un fotógrafo de la Asamblea Legislativa, cuyo único trabajo es promover la imagen de un diputado, gana más que un profesor o incluso que un médico. Y de eso el gobierno no dice nada. Creería que tiene sentido restringir gastos de Estado, sino hubiera tanto gasto superfluo que solo beneficia la imagen del gobernante. Y si desapareciera tanta restricción a la información pública.

En este punto, los dos lemas favoritos del gobierno se vuelven en su contra: ¡El dinero alcanza cuando nadie roba! A este gobierno no le alcanza la plata a pesar de que tiene los ingresos tributarios más altos y que ha elevado la deuda pública a límites extremos. Quien nada debe, nada teme, dicen. Entonces, ¿por qué no trasparentan la gestión pública? 

También me gustaría creer que la recuperación del centro histórico es buena para la gente. Reconozco que antes reinaba el desorden y había lugares inaccesibles e inseguros. Pero hay detalles del proceso que arruinan lo bueno que se ha hecho. Hacer ver a los vendedores informales como indeseables a los que hay que sacar de las calles, sin considerar que muchos estaban ahí simplemente porque no tenían opciones laborales. Además, los sacan sin darles ninguna opción y amenazándolos con aplicarles el régimen de excepción si se resisten. Cómo no criticar que incluso comercios formales establecidos de mucho tiempo han sido expulsados del centro para hacer espacio a grandes inversionistas, incluidos bitcoiners y familiares del grupo en el poder. Y además resulta que el salvadoreño promedio, ese de salario mínimo o poco más, solo puede ir al centro a ver, a tomarse una selfi, a «disfrutar» de espectáculos públicos pagados con sus impuestos, pero no puede consumir porque todo está fuera del alcance de su bolsillo.

Hoy resulta que productos tan populares como las pupusas y el café se han vuelto escasos; al menos en la versión popular y barata, que versión gourmet sí hay. Entonces, ¿para beneficio de quiénes han sido los cambios?

El centro ya no será un espacio popular, será una vitrina para turistas extranjeros y espacio de negocio para grandes inversionistas. Esa es otra forma de privatizar. Indigna ver a los agentes del CAM persiguiendo señoras que buscan vender algo para pasar el día, arrebatándoles sus ventas, o espantando mendigos y borrachitos, simplemente porque empañan la imagen del lugar de las apariencias. Sí, de apariencias, porque basta caminar un par de cuadras hacia el sur o el oriente de la plaza Libertad y aparece ese San Salvador que esconden.

Lo que está pasando en el centro histórico puede ser un indicio de lo que acontece en el país. Que las cosas han cambiado es innegable; que eso sea bueno para la gente es discutible.

Es evidente que a algunos les está yendo muy bien, demasiado bien quizá. Muchos otros viven todavía con el encantamiento de la seguridad, o la satisfacción malsana de que sacaron del poder a los mismos de siempre. Hay renegados y oportunistas que traicionaron sus antiguas ideas a cambio de algo y medran lo que alcanzan. Pero, la pobreza y la marginación persiste y ha aumentado. Según el Banco Mundial en 2023 la economía creció hasta un 3.5%, pero la pobreza aumentó del 26,8 % en 2019, al 30,3 % en 2023. Además, el 10 % de la población vive hoy en la pobreza extrema, en comparación con poco más del 5 % en 2019.

Sobre todo, ha aumentado la estigmatización de ciertos grupos. Se pregona como un éxito que se ha capturado a más de setenta mil supuestos pandilleros. ¿Qué pasará con sus hijos? Crecerán en la pobreza y cargando una maldición de la cual no son responsables. Eso mismo se hizo con los huérfanos de la guerra y los deportados. Entonces estábamos obnubilados con el fin de la guerra y no vimos el problema que se gestaba. Lo mismo podría pasarnos hoy con la celebración de la seguridad y el fin de las pandillas. Me gustaría creer que vamos bien, en serio. 

Pero mientras no se resuelvan o se aclaren problemas como los señalados, no me lo creo. Sí creo que a algunos les está yendo muy bien, tanto que no resisten la tentación de exhibirlo, a veces de formas ridículas y ostentosas. Aún no se dan cuenta de que ser rico es también cuestión de estilo. Y no lo tienen. Como bien diría Carreño, les falta tacto social, «el más alto y más sublime grado de cortesanía, pues él supone un gran fondo de dignidad, discreción y delicadeza».

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Crean el Movimiento Cultural Salvadoreño “Prometeo Liberado.”

SAN SALVADOR, 30 de diciembre de 2024 (SIEP) Un grupo de hombres y mujeres vinculados al quehacer cultural, decidieron esta mañana en el icónico Café Don Pedro de esta capital, fundar el Movimiento Cultural Salvadoreño “Prometeo Liberado.”

Las palabras introductorias fueron pronunciadas por el poeta Guillermo Campos, quien agradeció la presencia de los asistentes y explicó que este nuevo proyecto obedece a la necesidad histórica de fortalecer nuestra identidad cultural.

Entre los participantes se encontraban Ivis Barrera, Guillermo Campos, William Armijo,  Álvaro Sermeño. Ismael Cañas, Salvador Molina, Víctor Regalado, René Rodríguez y su esposa Monika Vyslouzil, Dimas Castellón, Roberto Pineda, y Francisco Rivas. Por diversas razones, no pudieron asistir Nora Vanegas, William Martínez, Eduardo Salvador Cárcamo y Donald Paz.  

El escritor Roberto Pineda  dio lectura al Manifiesto de fundación, que en su párrafo inicial plantea que “Nos declaramos, hombres y mujeres herederos y continuadores de la cultura universal, así como de las tradiciones culturales y de la producción artística, que a lo largo de los siglos, han moldeado la identidad salvadoreña.”

El Manifiesto rinde tributo “ a la patria exacta de Pipo, las historias prohibidas  de Roque, los pinceles de Camilo, la tierra de infancia de Claudia, los amores de loca de la Prudencia.”

De la misma manera a “los ritmos apasionados de la Morena, los cuentos de barro de Salarrué, las jícaras tristes de Alfredo, las predicas liberadoras de Monseñor, la segura mano de Dios de Sol del río 32, El planeta de los cerdos de Tamba y La hierba se movía del Chiri.”

Concluye el Manifiesto con el llamado siguiente: “Es por lo tanto desde estas raíces, desde estos caminos, desde estos horizontes, que proclamamos nuestra voluntad de invocar el espíritu rebelde de Prometeo, para  encender el fuego de la fiesta y la alegría en nuestra patria.

Los asistentes tomaron como acuerdos fortalecer esta nueva iniciativa cultural, enriquecer el Manifiesto con nuevos nombres, construir una página digital para divulgar sus actividades, acompañar la presentación de Fotografías de René Rodríguez,  en el Ateneo salvadoreño el 23 de enero y se auto convocaron para reunirse el próximo sábado 25 de enero en el cafetín del Parque Cuscatlán.