Il Futuro della Sinistra in Europa

Il Futuro della Sinistra in Europa

Discorso di appoggio alla nascita del Partito della Sinistra in Francia – Parigi, Novembre 2008 – di Oskar Lafontaine

Signore e Signori, Care compagne e Cari compagni!

È un piacere per me essere venuto a Parigi per dirigervi alcune parole, nel momento in cui vi preparate a ricostruire in Francia un nuovo partito di sinistra che merita senz’altro questo nome. In Germania, abbiamo fatto questo passo con grande successo. È proprio grazie a questa esperienza che sono venuto qui a incoraggiarvi nella scelta di intraprendere lo stesso percorso. So bene che la costellazione dei partiti politici tedeschi non è paragonabile a quello francese. Ma oggi, la società francese e quella tedesca non differiscono profondamente l’una dall’altra. I problemi economici, politici e sociali che si pongono nei nostri due paesi sono praticamente identici. Non vedo dunque nessuna ragione per cui un nuovo partito di sinistra non debba avere le stesse possibilità di successo in Francia così come è stato in Germania.

La Die Linke esiste da un anno e mezzo, i sondaggi, quelli attendibili, la attestano intorno al 12% o 13% a livello nazionale. Devo riconoscere che io stesso sono sorpreso da questo successo, nonostante queste cifre non riflettano realmente il raggio d’azione della nostra influenza politica. Il fatto che siamo qui, il fatto che esista in Germania un partito con un profilo politico e rivendicazioni sociali dichiaratamente di sinistra, ha costituito l’elemento in grado di cambiare l’orientamento della politica tedesca. E non sono solo io ad asserirlo. Quasi tutti i giornali tedeschi, di sinistra o di destra, che si rallegrino o si lamentino, hanno la stessa opinione. La maggioranza di essi concordano nello scrivere che siamo noi, la “Linke”, a incarnare il progetto politico di maggior successo degli ultimi decenni, che siamo noi che in realtà definiamo sempre di più l’agenda politica tedesca, che siamo noi che obblighiamo il resto dei partiti a reagire. Se reagiscono, se fanno proprie alcune delle nostre rivendicazioni, è per paura dell’elettorato. E se il neoliberismo, così violento dal 1990, sta scomparendo in Germania, è dovuto in gran misura alla nostra presenza parlamentare.
Cari compagni, è evidente che la costruzione di un nuovo partito di sinistra non avrebbe potuto avere successo se le condizioni esterne, ovvero, la situazione politica e sociale della Germania, non fossero state favorevoli al progetto stesso. È quindi questa la prima ragione del nostro esito positivo. Mentre tutti i partiti politici dell’Ovest della Germania si contendevano il “centro” e proponevano una politica economica neoliberista, la maggioranza della popolazione tedesca lamentava la mancanza di un equilibrio sociale quale risultato di questa politica. Il vuoto nella sinistra all’interno dello spettro politico chiedeva solo di essere riempito. Non c’è niente di più efficace di una idea che incontra la sua epoca.

La seconda ragione del nostro successo è senza dubbio dovuta all’unione delle forze e delle organizzazioni politiche che si definiscono sulla base di una posizione critica nei confronti del capitalismo.
La terza ragione, forse la più semplice in quanto dipende esclusivamente da noi stessi, anche se non per questo meno importante, risiede nella volontà di dare al nuovo partito un profilo chiaro, in grado di differenziarsi dall’uniformità degli altri. Avrò modo di spiegare più concretamente questo concetto più avanti, ma vorrei parlarne da un punto di vista storico. È spesso utile fare un passo indietro per avere una migliore prospettiva dell’insieme.

Agli inizi della mia carriera politica, 40 anni fa, le posizioni dei partiti di sinistra in Europa erano ancora chiare e le loro missioni ben definite. Non c’era ancora questa uniformità centrista che i grandi partiti mostrano oggi giorno. Anche in Germania, dove la SPD, a Bad-Godesberg, decise di accettare il capitalismo, la sinistra e la destra erano chiaramente distinte dagli elettori.. La SPD aveva rinunciato al marxismo, è vero, ma aveva conservato nonostante ciò l’idea di riformare il capitalismo, di cercare la famosa “terza via” tra comunismo e capitalismo. Purtroppo, quell’ideale riformatore venne sotterrato dalle macerie del Muro di Berlino.

In Francia, le posizioni dei partiti della sinistra erano ancora più chiare, non solo dal punto di vista comunista, ma anche da quello socialista. Con l’appoggio alla guerra coloniale in Algeria, la SFIO perde alla fine degli anni ‘60 tutta la legittimità come partito delle sinistre. Nel 1971, nel Congresso d’Epinay, si forma un nuovo partito socialista sotto la direzione di François Mitterrand. Il programma del nuovo partito socialista francese differisce considerevolmente da quello che i socialdemocratici tedeschi avevano scelto dieci anni prima: è anticapitalista, è critico nei confronti della NATO ed è a favore delle alleanze con il partito comunista: tutto quello che non contiene il programma della SPD. Per questo, nell’Internazionale Socialista, il dibattito vede lo scontro tra Épinay e Godesberg. Sono tedesco, ma non vi nascondo le mie simpatie per coloro che stavano dal lato dell’ Épinay.

Condivido quindi, cari compagni, le vostre delusioni, perché a partire da questo programma teoricamente anticapitalista, la politica portata avanti dal governo Mitterrand non è stata in nessun modo più anticapitalista di quella del governo socialdemocratico in Germania. In Inghilterra, come in Germania, Spagna, Francia o in qualsiasi altro posto, la breccia tra la teoria e la pratica politica è sintomatica per la storia del socialismo dell’Ovest europeo. Quasi sempre e quasi in tutti i luoghi, i dirigenti dei partiti socialisti hanno abbandonato i loro principi come zavorre, spesso contro la volontà della massa di militanti, in cambio di un portafoglio al governo.
Ed è qui il grande dilemma dei partiti socialisti: l’aver formulato, per così dire, i principi di opposizione di Épinay ed i principi di governo di Godesberg. La storia dei partiti socialisti dell’Europa occidentale al potere è una lunga lista di compromessi marci. Cari compagni, bisogna uscire dal dilemma e rompere con questa tradizione fatale del compromesso marcio! Per un partito di sinistra, i principi del governo devono essere gli stessi che i principi di opposizione. Altrimenti sparirà molto presto.

Guardate l’Italia e la Spagna. La lezioni che la sinistra può imparare è che le ultime elezioni in questi due paesi hanno parlato chiaro: Izquierda Unida marginalizzata, Rifondazione Comunista eliminata. Questi due partiti hanno dovuto pagare molto cara la partecipazione al governo perché si fondava sul compromesso marcio! È molto assurdo, effettivamente, lasciare un partito a causa della sua linea politica, costruire un nuovo partito e successivamente formare una coalizione di governo con il partito che ha appena abbandonato i fondamenti della sua politica, motivo per cui si era deciso di lasciare il partito. Gli elettori non apprezzano per nulla questo tipo di scherzi e non si sbagliano.

Cari amici, se la sinistra perde la sua credibilità, perde la ragione del suo essere. È per questo che il mio partito, la “Linke”, ha preso misure per correggere questa tendenza fatale dei dirigenti verso il compromesso politico del quale ho parlato. Le decisioni sui grandi principi del nostro programma devono essere prese dall’insieme dei militanti del partito e non solo dall’assemblea dei delegati..
Ciò significa che non accetteremo donazioni che oltrepassino una determinata quantità, una quantità relativamente bassa. E credetemi, non è l’atteggiamento di chi rifiuta qualcosa perché comunque non l’otterrà. Significa semplicemente che non vogliamo essere corrotti. La corruzione politica è una disgrazia della nostra epoca. Ciò che chiamiamo donazione spesso non è che un modo legale per corrompere.

La vittoria elettorale di Barak Obama è una buona notizia, dal momento che la politica del presidente Bush e del suo partito è stata insopportabile. Ma visto le enormi somme che il capitale americano ha investito nella campagna elettorale del nuovo presidente, sono molto scettico in merito al suo futuro come riformatore. Il capitale non da mai niente senza chiedere.

Passiamo quindi a parlare del profilo programmatico che un partito di sinistra dovrebbe avere per quanto mi riguarda. Ho parlato prima delle mie simpatie, quaranta anni fa, erano per Épinay e non per Godesberg. Bé, lo sono ancora oggi. Anzi lo sono più che mai. Lo spirito anticapitalista che ha animato la sinistra francese negli anni 70 si impone ancora. Appare chiaro che una opinione pubblica manipolata al servizio del capitale ci suggerisce in tutti i modi possibile che la globalizzazione dovrebbe aver cambiato completamente le cose, che l’anticapitalismo è completamente superato dalla storia. Ma se analizziamo il processo economico e sociale che si sviluppa sotto i nostri occhi obiettivamente, ci rendiamo conto che la globalizzazione non ha dissipato ma aggravato i problemi sociali e le turbolenze economiche causate dal capitalismo. Se paragonate gli scritti di Karl Marx in merito alla concentrazione di capitale, all’imperialismo o alla internazionalizzazione del capitale finanziario alle stupidaggini neoliberiste propagate oggi giorno, constaterete che questo autore del XIX secolo è molto più attuale e illuminante che gli ideologi del neolibersimo attualmente in voga.

Cari amici, ora più che mai l’anticapitalismo è di moda, già che l’imperialismo agli inizi del XXI secolo è ancora reale. La NATO è strumentalizzata al suo servizio. Prima concepita come una alleanza di difesa, la NATO si è trasformata oggi giorno in una alleanza di intervento diretta dagli USA. Ora, la sinistra non può predicare una politica estera che abbia come obiettivo la conquista militare delle risorse e dei mercati. Non accettiamo l’imperialismo belligerante della NATO che interviene in tutto il modo violando il diritto internazionale. Siamo a favore di un sistema di sicurezza collettivo dove i soci si difendono tra loro quando vengono attaccati, ma si astengono da tutte le violenze che non sono conformi al diritto internazionale.

In Germania, la questione degli interventi militari ( sia in Kosovo o Afghanistan) è una linea di demarcazione chiara tra il mio partito (Die Linke) e tutti gli altri partiti, compreso l’SPD. Siamo intransigenti con loro e la nostra partecipazione a un governo favorevole agli interventi militari della NATO è inconcepibile. La questione della guerra o della pace è stata da sempre una ragione di scissione in seno al socialismo tedesco. Già nel 1916, sotto l’impulso di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht, la guerra divise la socialdemocrazia tedesca in due parti. E non fu solo in Germania che la sinistra riuscì a mantenere la lucidità. Vi ricordo le parole di Jean Jaurès, che disse che “il capitalismo porta la guerra così come le nuvole portano la tormenta”. Compagni, se vogliamo un mondo di pace e in pace, bisogna civilizzare il capitalismo.

Contro l’ideologia della privatizzazione sostenuta dai portavoce del neoliberismo, manteniamo l’idea di una economia pubblica sotto il controllo democratico. Proponiamo una economia mista dove le imprese private, maggioritarie, affianchino le imprese nazionalizzate. Soprattutto le imprese che producono i beni per soddisfare i bisogni fondamentali per l’esistenza della società devono essere nazionalizzate; il settore energetico, per esempio o anche il settore bancario nella misura in cui sono indispensabili per il funzionamento di tutta l’economia.

Torneremo a mettere all’ordine del giorno la questione dell’autogestione operaia o della partecipazione degli impiegati nel capitale della propria azienda, questione che sembra oggi dimenticata.

Lottiamo contro una politica della de-costruzione sociale che da priorità agli interessi degli investitori e che ride davanti alla crescente ingiustizia sociale, alla povertà di molti bambini, ai salari bassi, ai licenziamenti nei servizi pubblici, alla distruzione degli ecosistemi. Lottiamo contro una politica che sacrifichi a favore delle rendite del capitale finanziario ciò che rimane di una opinione pubblica deliberativa. Non accettiamo la privatizzazione dei sistemi di protezione sociale, né la privatizzazione dei servizi di trasporto pubblico. Non accettiamo neanche la privatizzazione del settore energetico e ancora meno la privatizzazione del settore pubblico dell’educazione e della cultura. La nostra politica fiscale vuole ridare allo stato i mezzi per compiere le sue funzioni classiche.

Oggi, le forze motrici del capitalismo non sono gli imprenditori, ma gli investitori finanziari. È il capitale finanziario a governare il mondo e ad instaurare globalmente un’economia d’azzardo. La crisi dei mercati finanziari era quindi prevedibile e attesa dagli esperti.. Nonostante ciò i governi non hanno fatto niente per impedire questa crisi. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, le élite politiche hanno giudicato utile la speculazione sfrenata. Il continente europeo si è chinato di fronte a questa idea. Persino durante i periodi nei quali la maggioranza dei governi europei erano formati da partiti affiliati all’Internazionale socialista, nessuna misura è stata presa. La perdita di una visione critica di fronte al capitalismo ha fatto fracassare purtroppo la politica opportunista dei partiti socialisti e socialdemocratici. Se c’era bisogno di una prova del fracasso, la crisi attuale dei mercati finanziari ce la sta fornendo.

E se c’era bisogno di una prova che noi, la sinistra critica, non siamo regressivi, che non peschiamo rimedi ai mali di oggi dal passato, come ci recriminano costantemente i liberali ed i conservatori, se c’era bisogno di una prova, anche in questo caso è la stessa crisi che ce la fornisce. Dagli inizi degli anni ‘90 e dalla successiva globalizzazione, la sinistra, incluso me stesso, non ha smesso di reclamare una regolamentazione dei mercati finanziari globali. Ma l’opinione pubblica neoliberale ha riso in faccia alle nostre opinioni tacciate di regressività. Che la logica della globalizzazione non fosse compatibile con una regolamentazione è stata la risposta che ci hanno dato. Ma soprattutto che non si poteva ostacolare il libero commercio e il libero flusso transnazionale del capitale; la regolamentazione era una soluzione passata di moda, regressiva. E adesso, cosa fanno i neoliberisti in America del Nord e Inghilterra, che fanno i conservatori in Germania e Francia? Be pretendono regolamentare. Coloro che ci hanno accusati di regressione politica quando chiedevamo la nazionalizzazione di alcuni settori bancari per evitare la crisi che fanno ora? Be fanno vedere che nazionalizzano tutte le banche in nome del futuro.

Adesso, si socializzano le perdite e si fanno pagare i gruppi più vulnerabili delle società per il fallimento del sistema. Adesso, si organizzano vertici internazionali pomposi per regolamentare i mercati finanziari. Ma non siamo degli innocenti: sono tutte parole. Chiuderanno il casinò? Assolutamente no! Cambieranno in modo radicale le regole del gioco all’interno del casinò? Certo che no!. Ciò che faranno, è elaborare con un gran frastuono di parole un nuovo codice di comportamento per i croupiers. In realtà non cambierà niente.
Se volete dei cambiamenti, compagni, bisogna ricostruire la sinistra, in Germania, in Francia, in tutte le parti d’Europa. L’esperienza tedesca ci insegna che una sinistra europea riorganizzata e forte può far cambiare le cose obbligando gli altri partiti a reagire. Costruiamo insieme questa nuova sinistra, una sinistra che ripudi i compromessi nauseabondi! Per riaffermare una volta ancora l’importanza di questa massima, voglio concludere on una immagine che prendo in prestito dal poeta russo Mayakovski: cantiamo insieme la nostra canzone, ma evitiamo di calpestarne la gola.

“Nunca se supo quien lo mató”

“Nunca se supo quien lo mató”

Roberto Cañas

Realmente en El Salvador es difícil perder la capacidad del asombro, el domingo 26 de julio en un periódico matutino la Alcaldesa de Antiguo Cuscatlán en una entrevista hace declaraciones impresionantes: “A Monseñor Romero lo hicieron mártir innecesariamente. Nunca se supo quien lo mató, unos dicen que fueron los de ARENA, otros dicen que fueron los mismos del FMLN. Aquí se tiran una pelota, lástima que nunca se averiguó bien quién lo mató”.

Señora Alcaldesa: sí se sabe quien lo mató, es muy fácil saberlo es conocido y está escrito desde 1993, cuando el Secretario General de Naciones Unidas envió una carta dirigida al Presidente del Consejo de seguridad por la que se trasmite el informe presentado el 15 de marzo de 1993 por la Comisión de la Verdad.

Para la Comisión de la Verdad la muerte de Monseñor Romero es un caso ilustrativo de “asesinatos de los escuadrones de la muerte”. En el resumen del caso la Comisión concluye lo siguiente:
Existe plena evidencia que:

a. El ex mayor Roberto d’Aubuisson dio la orden de asesinar al Arzobispo y dio instrucciones precisas a miembros de su entorno de seguridad, actuando como “escuadrón de la muerte”, de organizar y supervisar la ejecución del asesinato.

b. Los capitanes Álvaro Saravia y Eduardo Ávila tuvieron una participación activa en la planificación y conducta del asesinato, así como Fernando Sagrera y Mario Molina.

Señora Alcaldesa, tenga la seguridad que sí se averiguó bien, quien mató a Monseñor Romero.

Estoy convencido que las declaraciones de esta funcionaria pública no se pueden dejar pasar y guardar silencio. Hay que hacer honor a la verdad. Y decirle Señora, que no se hace mártir innecesaria o necesariamente a nadie. Es un crimen matar a una persona por sus creencias, convicciones o causas.

Las declaraciones de la Señora Alcaldesa nos deben permitir reflexionar acerca de la necesidad de hacer de la Memoria Histórica una política de Estado destinada al recuerdo de quienes padecieron persecución política o ideológica durante el conflicto armado. El establecimiento de la verdad, y el conocimiento de la historia, es un derecho de todos y todas, especialmente de los jóvenes que no vivieron entre los años de 1980 y 1991 cuando nuestro país estuvo sumido en una guerra civil.
Es necesario un despliegue de políticas públicas dirigidas a la recuperación, conmemoración y fomento de la memoria histórica, se debe impulsar la organización de actividades divulgativas, de investigación, formación que permitan conocer la verdad.

También, de una vez por todas, se debe hacer un esfuerzo por la creación de una cultura de paz que esté fundada en valores, actitudes y comportamientos que tengan como fin preservar la vida, la dignidad humana, la libertad y la convivencia armónica de la población salvadoreña. Desarrollar estrategias dirigidas a los estudiantes con miras a educar ciudadanos solidarios y responsables, respetuosos de la dignidad humana. Elaborar un proyecto de transformación curricular: para tener asignaturas de cultura de paz: Garantizar que en todos los niveles del sistema educativo se imparta una cátedra de Cultura de Paz con contenidos especializados en solución de conflictos, dialogo y negociación.

Change is Here, Change is Coming

Change is Here, Change is Coming

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Sam Webb, National Chair

(Remarks to National Committee Meeting June 20, 2009)

I make no attempt to be comprehensive in these remarks. My aim is much more modest, as you will see.

Let me begin with a simple observation: If the last 30 years were an era of reaction, then the coming decade could turn into an era of reform, even radical reform. Six months into the Obama presidency, I would say without hesitation that the landscape, atmosphere, conversation, and agenda have strikingly changed compared to the previous eight years.

In this legislative session, we can envision winning a Medicare-like public option and then going further in the years ahead.

We can visualize passing tough regulatory reforms on the financial industry, which brought the economy to ruin.

We can imagine the troops coming home from Iraq and Afghanistan while U.S. representatives participate in a regional process that brings peace and stability to the entire region.

In the current political climate, the expansion of union rights becomes a real possibility.

Much the same can be said about winning a second stimulus bill, and we sure need one, given the still-rising rate, and likely long term persistence, of unemployment.

Isn’t it possible in the Obama era to create millions of green jobs in manufacturing and other sectors of the economy in tandem with an attack on global warming?

Can’t we envision taking new strides in the long journey for racial and gender equality in this new era, marked at its beginning by the election of the first African American to the presidency?

And isn’t the overhaul of the criminal justice and prison system – a system steeped in racism – no longer pie-in-the sky, but something that can be done in the foreseeable future?

All these things are within reach now!

I make this observation because in the ebb and flow of the first six months of the Obama presidency, it is easy to lose sight of the overall dynamics and promise of this new era.

Obama’s role

The new conditions of struggle are possible only – and I want to emphasize only – because we elected President Obama and a Congress with pronounced progressive and center currents.

So far Obama’s presidency has both broken from the right-wing extremist policies of the Bush administration and taken steps domestically and internationally that go in a progressive direction.

At the same time, the administration hasn’t gone as far as we would have liked on a number of issues. On economic matters as well as matters of war and occupation we, along with others, advocated bolder actions.

All and all, however, the new President in deeds and words – and words do matter – has created new democratic space for peace, equality, and economic justice struggles. Whether this continues and takes on a consistently progressive, pro-people, radical reform direction depends in large measure on whether the movement that elected him fills and expands this space.

The struggle going forward, much like the New Deal, will be the outcome of a contested and fluid process involving broad class and social constituencies, taking multiple forms, and working out over time.

It will pivot on the expansion of social and economic rights, the reconfiguring of the functions of government to the advantage of working people, and the embedding of a new economic architecture and developmental path into the nation’s political economy.

No less importantly, it will also entail the recasting of the role of the U.S. in the global community along egalitarian and non-imperial lines.

“What’s all this talk about reform?” you may be asking. “Aren’t we radicals? Isn’t socialism our objective?”

Yes, socialism is our objective and, according to recent public opinion polls, it is increasingly attractive to the American people. But clearly it is not on the immediate political agenda. Neither the current balance of forces nor the thinking of millions of Americans – the starting point in any serious discussion of strategy and tactics – has reached that point.

That socialism isn’t on the people’s action agenda, however, doesn’t mean that we should zip our lips. Quite the contrary! We should talk it up and bring our modern, deeply democratic Twenty-First-Century vision of U.S. socialism into coalitions and mass movements. And with the use of the Internet we can reach an exponentially bigger audience than we could in the past.

As for our radicalism, we should be as radical as reality itself. And reality strongly suggests that our main task is to bring the weight of the working class and other democratic forces to bear on the reform process with the aim of deepening its anti-corporate content and direction.

Current phase of struggle

How do we understand the current phase of struggle? On the one hand, our strategic policy of defeating right wing extremism doesn’t quite fit the new correlation of class forces. On the other hand, neither have we arrived at the anti-monopoly stage of struggle – a stage in which corporate class power is confronted on every level of struggle.

In short, we are in transitional phase that contains elements of both.

In the course of this struggle, political conditions – consciousness, organization, unity, and alliances, including temporary and conditional alliances – will hopefully mature to the point where corporate power emerges as the main hindrance to radical democracy and socialism in the minds of tens of millions.

We can conjure up pure forms of struggle and direct and unencumbered paths to socialism in our impatient minds, but they don’t exist in real life. The struggle for a socialist future is complex, contradictory, roundabout, and goes through different phases/stages of struggle.

Propaganda and agitation by themselves won’t bring people to the threshold of socialism. They need their own experience in struggle for their essential (what is essential is variable and expands over time) needs.

The question

People aren’t sitting on their hands. Anger is out there, hardship is widespread, and the fight back is taking shape.

And yet, it is fair to ask: does the level of mobilization of the diverse coalition that elected President Obama match what is necessary to win his administration’s immediate legislative and political agenda – let alone far-reaching reforms, such as military conversion to peacetime and green production, a shorter work week, a “war” on poverty and inequality, democratic ownership of critical economic sectors, and a retreat from empire?

I think the answer is no – not yet. A favorable alignment of forces exists and mass sentiments favor change. But political majorities and popular sentiments are consequential only to the degree that they are an active and organized element in the political process.

And herein lays the role of the Left. Its main task, as it has been throughout our country’s history, is to persistently and patiently assist in reassembling, activating, uniting, educating, and giving a voice to common demands that unite this broad majority.

The Left’s political analysis, its solutions to today’s pressing crises, and its vision of radical democracy and socialism, rooted in national realities, will receive a fair and favorable hearing from millions of Americans to the degree that Left activists are active participants in the main labor and people’s organizations struggling for vital reforms today — jobs, health care, retirement security, quality public education, equality and fairness, immigration reform, a foreign policy of peace and cooperation, and a livable environment and sustainable economy.

Those who narrow down the role of the Left to simply being a critic of every move of the Obama administration or insist on Left demands as the only ground for broad unity cut down the Left’s capacity to be a growing part of a much larger coalition that could remake America.

Some on the Left dismiss the new President as simply another centrist or a right social democrat, or an unabashed spokesperson of Wall Street. Still others call him the new face of imperialism.

I find it unwise for many reasons to put President Obama into a tightly sealed political category. We should see the President and his administration as a work in progress in an exceptionally fluid situation.

Let’s remember that he is the leader of a diverse multi-class coalition and a party with different currents. Let’s not forget about the balance of forces in Congress that has to enter his – and hopefully our – political calculus.

Let’s not turn any one issue into a litmus test determining our attitude toward the administration and Congress. Let’s be aware that he has to keep a coalition together for his long-term as well as immediate legislative agenda. Let’s give President Obama some space to change and to respond to pressures from below.

Finally, we should resist pressures from some sections of the Left, and a few in our Party, to define the current struggle as one that arrays the people against President Obama. That’s not Marxism; it’s plain stupid.

The American people and their main mass organizations have good reason to be angry and frustrated, but few embrace an approach that turns the Obama administration into the main roadblock to social progress.

That we have spurned such an approach too is to our credit. (Read the outstanding speech of AFL-CIO Secretary-Treasurer Richard Trumka to the national convention of CBTU, in which he speaks of labor’s positive view of the new administration and the new openings for class and democratic struggles that now exist.)

We can help re-bend the arc of history in the direction of justice, equality, and peace. But only if we, and millions like us, pursue a sound strategy that unifies broad sections of the American people and looks for alliances no matter how temporary and conditional. Majorities make history, not militant minorities.

President Obama and progressive Congresspeople can’t be the only change agents and will be change agents only up to a point.

Our responsibility is to support them, prod them, and constructively take issue with them when we have differing views.

But more importantly – and this is the heart of the matter – we have to reach, activate, unite, educate, and turn millions of Americans into “change agents” who can make the political difference in upcoming struggles.

Our parents and grandparents were such bottom-up change agents in the Depression years. Unhappy with the pace and substance of change, they sat down in plants and in the fields, marched for veteran benefits, petitioned local relief agencies, lobbied for a social safety net, established unemployed groups, organized industrial workers into the CIO, opposed discrimination and racism, turned multi-racial unity into an organizing principle, and, we should note, re-elected Roosevelt and a New Deal Congress in a landslide in the 1936 elections.

The American people today would do well to follow their example.

Likewise, communists of our generation should draw from the example of our Depression-era comrades. Because they were guided by a sound strategy that accented struggles for economic and social reforms and because they employed flexible tactics, and because they didn’t conflate their mood with the mass mood, they were a vital part of this process too.

Struggle for health care reform

The mobilization that the labor movement and others carried out tirelessly last year in the elections is exactly what is needed now. How else can health care for all, the Employee Free Choice Act, economic relief, comprehensive immigration reform, a transfer of funds from military spending to massive green job creation, and a tax policy that weighs heavily the wealthiest families and corporations be won?

The Right Wing, the American Medical Association, the pharmaceutical and insurance companies have drawn a line in the sand on health care. They hope to defeat any legislation in the near term and in doing so to fatally weaken the administration’s legislative program in the longer term, much like they did in the Clinton years.

The core of this struggle, whether we like it or not, turns on the inclusion of a public option in a health care bill. President Obama reaffirmed his support for such an option and the Congressional Progressive Caucus recently expressed its full support for a public option that is government run, covers everyone, and goes into effect right away.

Meanwhile, Republicans, with help from some Democrats, are ganging up against any public option, while at the same time introducing measures to weaken health care reform and confuse the American people.

True to form, the right-wing media is the megaphone of this effort.

Mass mobilization is needed

Over the summer this fight will be waged like an election campaign by the labor movement and progressive forces. Across the country activists will be asked to knock on doors and make phone calls to build a massive groundswell for health care reform.

This campaign provides a great opening to strengthen our clubs and build the broader movement. Some of our clubs are in the thick of the fight; some are looking for ways to become engaged.

Each district and club should discuss how to carry this fight forward in a way that results in new friends, new readers of the People’s World, and new members of the Party and Young Communist League. A few ideas:
• speak to neighbors and friends about their health care stories and suggest what they can do.
• share coverage of the Peoples World in either its print or electronic form and ask if they would like the paper every week in one or another form.
• prepare a special agenda for your club meeting with invited guests.
• help build participation in rallies and events of unions and other organizations.
• organize speak-outs and town hall meetings with others.
• collect signatures on petitions, make phone calls, employ the internet, and organize visits to your elected officials.

While we support HR 676 as the most advanced demand in the current debate, it should not be counterpoised to a Medicare-like public option. In the single payer movement and the campaign for a public option, our role isn’t to sharpen differences, but rather to build maximum unity against the health care industrial complex and its supporters (Democratic as well as Republican) in Congress and for meaningful health care reform.

Economic crisis over

Another observation that I want to make is to beware of talk of better economic times around the corner. We may be over the worst of it; we may have avoided a 1930s-type depression; but it’s quite another thing to suggest that we are on the road to recovery.

Yes, there have been some indicators that show improvement in the economy; but we shouldn’t read too much into them (as the business press does).

After all, there are more signs that suggest that we haven’t reached bottom yet, that the recovery is still not in sight; and that more government intervention is necessary.

Unemployment hasn’t peaked, even though the official rate is nearly ten per cent. Poverty is growing, and among the long-term poor, the crisis is dire. Manufacturing is hemorrhaging jobs – none more so than the auto industry. Banks, as quiet as it is kept, hold mountains of toxic assets. Debt is nearly off the charts. Credit markets are far from fluid. Business investment is off. And housing prices fall and foreclosures rise.

On a global level, signs of renewed economic activity are few. Maybe the best we can say is that the decline of the economy is slowing down, thanks to massive government intervention, but hasn’t bottomed out.

If this is so then three questions follow: first, when will the economy hit bottom? Second, when will the economy begin a vigorous and sustained renewal? Third, is the economic crisis reconfiguring the geography of economic power on a global level?

On these questions there is no consensus.

Some say that the economy will bottom out soon to be followed by a recovery early next year. Other economists are more pessimistic. Citing the enormous piling up of debt over the past 20 years, overcrowded world commodity markets, technological displacement, capital flight, downward pressures on profitability, and so forth, they predict little economic bounce for some time to come.

Months ago it was said that the downturn could be “L-shaped” rather than “V-shaped.” In other words, the crisis begins with a steep decline in economic activity followed by long period of economic stagnation.

I suspect that this is what will happen, thus making sustained government and people’s intervention an imperative. In my view this should take at least three forms:

First, more economic stimulus: the economy is underperforming and nearly 30 million workers are unemployed or underemployed and that number hasn’t peaked yet.

Second, restructuring is imperative. The old economic model that rested on bubble economics, cheap labor, financial manipulation and speculation, deregulation, capital outsourcing, environmental degradation, and so forth, has to be replaced by a new model that expands and restructures the productive base and is “people and nature” friendly.

Finally, the economy has to be democratized. The wizards of Wall Street and inside the Beltway failed miserably, in fact, so miserably those economic decisions that affect the welfare of millions shouldn’t rest in their hands.

The resistance to such measures will be massive. It will take a labor-led coalition far bigger than what exists now to drive the process.

Furthermore, even in the event that such a coalition materializes and pushes through such measures, the organically embedded economic contradictions and crisis tendencies of capitalism will erupt in one form or another. There is no such thing as a crisis-free capitalist developmental model. Sooner or later, it exhausts its potential and gives way to sharp and ultimately irresolvable contradictions located at every level of the capitalist economy.

In the meantime, the struggle for immediate public sector jobs and relief should command our attention. We, along with the labor movement, the nationally and racially oppressed, women, youth and others, have to help the unemployed find their voice and forms to express their demands and organize their struggle.

In addition to articulating class wide demands, we have to argue for special measures that address the catastrophic situation in the African American, Latino, Asian American, American Indian, immigrant, and other minority communities. The lack of jobs is at the heart of this dire situation, but it also includes malnutrition and hunger, poor health care, shabby housing, high dropout rates, homelessness, racial profiling, police brutality, criminalization, and so on.

The job crisis requires special discussion and initiatives with our allies. They should be concrete and realistic.

As for the impact of the current crisis of capitalism on the geographical distribution of economic power on a global level, it is enormous and consequential. While the U.S. and European market economies report negative growth rates, the economies of the emerging giants – China, India, and Brazil – are expanding this year and this trend will continue at a faster rate next year. If this trend continues – and there is no reason to think that it won’t – the implications and consequences will be profound and long lasting.

An end to violence

Still another observation that I would like to make is this: against the background of the bloodiest century in human history and this decade of war, genocide, boycotts, and threats and counter threats, thanks in large measure to the Bush administration and our own imperialism, humanity is seeking a new world order in which peace and justice are its organizing principles.

The vast majority of people desire the easing of tensions, an end to violence, and the normalization of relations between states. They want dialogue and negotiation, not war and threats. And they hope that the U.S. government will choose a constructive role in world affairs.

President Obama has captured this sentiment well in several speeches before vast audiences. His emphasis on human solidarity, diplomacy, cooperation, and peaceful settlement of outstanding issues is striking an emotional chord worldwide. In nearly every region of the world, the President has expressed a readiness to engage with countries that during the Bush years were considered mortal enemies – Iran, Cuba, Venezuela, North Korea, and others. In Latin America, he indicated that the administration would like to put relations between our government and others in the region on a different footing. In a historic speech in Prague, he voiced his desire to reduce and ultimately abolish nuclear weapons. Earlier this month, in an unprecedented address in Cairo he indicated his eagerness to reset relations with the Muslim world, sit down with the Iranian government, and press for a two state solution to the Palestinian-Israeli conflict.

And only this week, he has been circumspect with regard to the massive social explosion in Iran over the rigged election and right-wing theocratic rule. He has quietly made his allegiances clear, but not in a way that would play in to the hands of the ruling reactionary regime.

While the administration has yet to fully match its words with practical deeds, what it has said and done so far constitutes a qualitative turn compared to the previous administration.

Nevertheless, more needs doing before we are on a distinctly new course.

In Afghanistan and North Korea, a negotiated solution to both conflicts that includes increased economic and humanitarian aid is urgently needed. Military occupation and troop buildup in Afghanistan and the imposition of sanctions against North Korea are extremely dangerous and will postpone any resolution of those crises.

To go further, if one or the other (or both) metastasizes into a bigger conflict, it could be the undoing of this administration. Don’t get me wrong: terrorist activities and nuclear proliferation are both enormous dangers, but the solutions to these have to be sought along other lines and involve regional and international players.

In Iraq, the U.S. withdrawal plan is proceeding, with the first stage being withdrawal from Iraqi cities by July. President Obama has reiterated his intention to stick with the pullout deadlines. Even with the caveats about what U.S. forces might remain, this is a major victory for the peace movement. The struggle over what forces remain will depend in large part on the Iraqi people’s democratic and progressive forces, as well as our own peace movement.

In the Palestinian-Israeli conflict, Netanyahu, in an about-face, said he could live with a two-state solution. And even with all the caveats and demagogy surrounding the “concession,” I believe that it signifies recognition, albeit forced, on Likud’s part that public opinion is shifting against them in Israel, Europe, and the U.S.

In this country the peace movement has to note particularly the changing dynamics in U.S. opinion, including in the White House and Congress, including Jewish members of Congress. Netanyahu got a different reaction than he expected when he met with Congressional leaders when he was in Washington recently. While he wanted to focus on Iran, they pressed him on the settlements. And, that pressure will only grow if the new Israeli government continues in its actions to pursue its present policy.

As far as Cuba is concerned, we are at a crucial moment in U.S.-Cuba relations. The Obama administration has indicated its readiness to reset relations with Cuba and has taken some very modest steps in words and deeds in that direction. But obviously much more needs to be done to end all travel restrictions, lift the blockade, resume trade, and free the Cuban 5, who languish in maximum security prisons. That said, the good news is that diverse groups have an interest in normalizing the relations between our two countries, including in the Congress.

Finally, we are in a moment when our ability to change our foreign policy will bear directly on our capacity to address economic and social problems at home. Currently, 53 percent of the discretionary spending of the federal budget goes to the military.

Thus, ending wars, closing military bases, and cutting military spending coupled with diplomacy, cooperation, and respect for international law and national sovereignty is good economic as well as good foreign policy.

But there is a hitch. Both Republicans and Democrats are upset at the minimal steps the administration is proposing to cut specific “unnecessary” or useless weapons systems.

So we have a struggle on our hands. And it will be fought out in “the court of public opinion,” at the ballot box, and in the economic trenches.

So far the peace movement has an array of plans to challenge the military appropriations process, including town hall Congressional meetings on foreign policy during the August recess. We should participate and support them.

Bottom line: the country and the Obama administration need a more vocal peace movement in order to reconfigure our role in world affairs and address the economic crisis.

Mentality of marginalization

Another observation that I want to make is that because of McCarthyism, the Cold War, and the long economic expansion following WW II, the Left has been on the edges of politics for more than a half century. During this time, our ability to impact on broader political processes in the country has been narrowly circumscribed – nothing like the 1930s, nothing like the Left in many other countries.

While we stubbornly fought the good fight and made undeniable contributions over the past half-century, we were not a major player; we didn’t set the agenda or frame the debate; we didn’t determine the political direction of the country; we were not a decider.

But this could change. Because of the new political, economic and ideological landscape, the Left has an opportunity to step from the political periphery into the mainstream of U.S. politics. It has a chance to become a player of consequence; a player whose voice is seriously considered in the debates bearing on the future of the country; a player that is able to mobilize and influence the thinking and actions of millions.

Whether we do depends on many factors, one of which is our ability to shake off a “mentality of marginalization” that has become embedded in the Left’s political culture over the last half of the Twentieth Century.

How does this mentality express itself? In a number of ways – in spending too much time agitating the choir; in dismissing new political openings that if taken advantage of could create the conditions for mass struggle; in thinking that partial reforms are at loggerheads with radical reforms; in seeing the glass as always half empty; in conflating our outlook with the outlook of millions; in turning the danger of cooptation into a rationale to keep a distance from reform struggles; in enclosing ourselves in narrow Left forms; and in damning victories with faint praise.

In this peculiar mindset, politics has few complexities. Change is driven only from the ground up. Winning broad majorities is not essential. There are no stages of struggle, no social forces that possess strategic social power, and no divisions worth noting. Finally, alliances with unstable allies and distinctions between the Democratic and Republican parties are either of little consequence or disdainfully dismissed.

Unless the Left – and I include communists – sheds this mentality, it will miss a unique opportunity to grow and leave a distinct imprint on our country’s direction.

A final observation before closing is that I wholeheartedly welcome the proposals to reconfigure our work that you received and that we are going to discuss later today.

I don’t have any of the reservations about this that some have. The upside of this new means of communication, education, organization, and fund raising is that it is nearly limitless.

I think it is going to make a huge difference in our ability to reach, influence, and interact with a mass audience – something that we haven’t ever been able to do in a systematic way so far.

Every aspect of our work will experience new potentials, including grassroots organizing and club building.

I hope we enthusiastically adopt these proposals. Assuming for the moment that we do, it is fair to say that we will have our work cut out for us. But as is often said, we have a world to win! Thank you.

La agonía del patriarca

Lunes, 27 de Julio de 2009 / 09:05 h
La agonía del patriarca

Dagoberto Gutiérrez

Alcanzó a mirar como la noche se abalanzaba sobre los últimos claros del día y hasta se reclinó sobre el desnudo árbol de jocote que servía de poste al cerco de su pequeña casa, quitó lentamente el falso, pasó y volvió a cerrar el cerco, lucía cansada después de un pesado día vendiendo carne de cerdo en el mercado de San Marcos. La Josefina Torres, era una mujer fuerte por su trabajo, joven por su edad y enamorada fielmente de su marido.

Arturo, que así se llama el susodicho, es diez años más joven que ella, quien tiene 35 años, él permanece la mayor parte del día en su casa yendo y viniendo de la hamaca del corredor a la silla debajo de un conacaste, luego a una gran peña desde donde se divisa San Marcos y de regreso a la hamaca, de repente sabe hacer ciertos mandados o faenas que le llegan a solicitar a su casa y así, repara andenes, cura las goteras del techo, poda árboles, repara calzados, puede chapear los terrenos y en fin hace de todo un poco, pero lo que más le gusta hacer, aparentemente, es esperar a la Josefina que llega al final del día y, casi siempre, le lleva algo de comer, además de los últimos informes sobre el mercado y lo que vio en las calles o le contaron.

Luego del saludo, la Fina empieza a preparar la comida y casi siempre comete, a juicio de Arturo algún error y así, sin que ni para que, el hombre empieza a pegarle a su mujer, la Fina soporta el castigo, pero sin llorar, ha descubierto que el hombre goza viéndola llorar y ha decidido no darle ese gusto, “llorá condenada, quiero verte llorar” le dice el agresor una y otra vez y la mujer no llora hasta que su marido, aparentemente cansado de agredirla, se retira. Entonces Fina empieza a llorar sin que él la mire. La Fina no enjuicia lo debido o lo indebido porque cree que Arturo tiene derecho a hacer eso y ella el deber de soportarlo, pero sin llorar.

Una tarde de fin de año y por casualidad, pasó frente a una reunión grande de mujeres, bajo un amate en el cerro San Jacinto, escuchó una explicación que le removió sus neuronas: una expositora dijo, que las mujeres tienen derechos, que ningún hombre puede usar ningún tipo de violencia, ni física ni mental contra ninguna mujer y que en ningún caso se debe permitir ningún tipo de agresión ni de violencia.

Ese día Josefina lloró en silencio la agresión, pero se prometió que en la próxima agresión usaría su fuerza física ganada en su trabajo diario y, por lo menos, le levantaría las manos a su marido y lo amenazaría. Algo se había despedazado en su interior; pero ella no sabía que era.

Llegó a su casa como todos los días pero psicológicamente preparada y dispuesta, el hombre no sospechaba nada, pero cuando su mujer, la sumisa y temerosa mujer que él conocía desde siempre, le respondió su agresión, lo miró de frente se paralizó entre sorprendido y asustado y Josefina se dio cuenta que algo había pasado. En realidad ella sostenía el hogar con su trabajo y el aportaba algo ciertamente, pero eso incluía las agresiones.

Ese día, las cosas se equipararon y sin que Josefina lo supiera suficientemente, ella misma había empezado a degollar al patriarca y al patriar- cado que llevaba dentro de su corazón. Esa noche la Fina caviló largamente, mientras su marido, al lado de ella, no cesaba de dar una y otra vuelta en la cama, cada uno por su lado intentaba descifrar el mismo acertijo, hasta que ninguno sintió una carrera de ratones en el techo.

El día siguiente transcurrió como debían ser todos, con la normalidad de los tiempos anormales y con la incertidumbre cierta comiéndole las entrañas a la certeza, pero el hombre no intentó una agresión más y la Fina descubrió que el tiempo de agresiones sufridas había sido inútil, e insoportable y ella no sabia mucho de ella misma.

El marido sigue sin trabajo y solo lo hace casualmente; pero ahora espera a Josefina en la tarde y la acompaña a la casa y le ayuda con algunas cosas y la mira de otro modo y la trata diferente y hasta están hablando de tener hijos. Josefina como toda mujer inteligente, se toma su tiempo al final del día para reflexionar sobre su vida y, así, medio sorprendida y medio complacida por el cambio en la conducta de su marido, no sabe muy bien de donde vino la transformación del hombre, ella no cree mucho en los milagros aunque cree en Dios.

Más bien piensa que el sometimiento que ella aceptaba era algo que como una fuerza misteriosa se había instalado, de contrabando, en su corazón, a lo mejor, piensa Josefina, eso es lo que se llama patriarcado. Aunque algo le dice que eso es más que eso que ella siente.

La derecha contraataca

Por Immanuel Wallerstein *

La presidencia de George W. Bush fue el momento de mayor arrasamiento electoral por parte de los partidos de centroizquierda en América
latina en los últimos dos siglos. La presidencia de Barack Obama corre
el riesgo de ser el momento de la venganza de la derecha en América
latina. La razón bien puede ser la misma: la combinación de la
decadencia del poderío estadounidense con la continuada centralidad de
Estados Unidos en la política mundial. Al mismo tiempo, Washington es
incapaz de imponerse por sí mismo y todo el mundo espera que entre al
terreno de juego en el bando de ellos.

¿Qué fue lo que ocurrió en Honduras? Hace mucho que este país es uno
de los pilares más seguros de las oligarquías latinoamericanas: tiene
una clase dominante arrogante y sin arrepentimiento, guarda vínculos
cercanos con Estados Unidos y es el sitio de una importante base
militar estadounidense. En las últimas elecciones, Manuel “Mel” Zelaya
fue electo presidente.

Siendo un producto de las clases dominantes, se esperaba que
continuara jugando el juego en la forma en que los presidentes
hondureños lo han jugado siempre. En cambio, inclinó sus políticas
hacia la izquierda. Emprendió programas internos que en verdad
hicieron algo por la vasta mayoría de la población: se construyeron
escuelas en áreas rurales remotas, se aumentó el salario mínimo, se
abrieron clínicas de salud.

Comenzó su período apoyando el tratado de libre comercio con Estados
Unidos, pero dos años después se unió al ALBA, la organización de
Estados que creó el presidente Hugo Chávez. El resultado fue que
Honduras obtuvo petróleo barato procedente de Venezuela. Luego propuso
la celebración de un referéndum para saber si la población pensaba que
era buena idea revisar la Constitución. La oligarquía gritó que éste
era un intento de Zelaya de cambiar las leyes y hacer posible que él
accediera a un segundo período. Dado que se preveía que la consulta
ocurriera el día en que su sucesor fuera electo, ésta es claramente
una razón inventada. ¿Por qué entonces escenificó el ejército un golpe
de Estado con el respaldo de la Suprema Corte, el Congreso hondureño y
la jerarquía católica?

Dos factores confluyen aquí: su visión de Zelaya y su percepción de
Estados Unidos. En los años treinta, la derecha estadounidense atacó a
Franklin Roosevelt como “traidor a su clase”. Para la oligarquía
hondureña, eso significa que Zelaya, “un traidor a su clase”, es
alguien que debería ser castigado como ejemplo para otros.

¿Y qué pasa con Estados Unidos? Cuando ocurrió el golpe, algunos
comentaristas de la izquierda vociferante en la blogosfera lo llamaron
“el golpe de Estado de Obama”.

Ni Zelaya ni sus simpatizantes en la calle, ni tampoco Chávez o Fidel
Castro tienen esa visión tan simplista. Todos ellos notan la
diferencia entre Obama y la derecha estadounidense (líderes políticos
o figuras militares). Parece claro que la última cosa que el gobierno
de Obama quería era este golpe de Estado. Ha sido un intento por
forzarle la mano. Sin duda esto recibió aliento de figuras clave de la
derecha estadounidense, como Otto Reich (el cubano-estadounidense y ex
consejero de Bush) y el International Republican Institute.

Seamos testigos de algunas de las aseveraciones más desorbitadas de
los golpistas. El ministro de Relaciones Exteriores del gobierno de
facto, Enrique Ortez, dijo que Obama era un “negrito que no sabe nada
de nada”. Hay alguna controversia de qué tan peyorativo es el término
“negrito” en castellano. En cualquier caso, el embajador
estadounidense protestó tajantemente ante el insulto. Ortez se
disculpó por su “desafortunada expresión”, y se lo cambió a otro
puesto en el gobierno. Ortez concedió una entrevista a la televisión
hondureña diciendo: “No tengo prejuicios raciales, me gusta el negrito
que está presidiendo Estados Unidos”. Sin duda, la derecha
estadounidense es más cortés, pero no menos denunciatoria de Obama. El
senador republicano Jim DeMint, la diputada republicana
cubanoestadounidense Ileana RosLehtinen y el abogado conservador
Manuel A. Estrada, todos han insistido en que el golpe estuvo
justificado porque no fue un golpe de Estado, sino justamente una
defensa de la Constitución hondureña. Y la blogger derechista Jennifer
Rubin publicó un texto el 13 de julio titulado: “Obama está mal, mal,
mal respecto a Honduras”. Su equivalente hondureño, Ramón Villeda,
publicó una carta abierta al presidente estadounidense el 11 de julio,
donde decía: “No es la primera vez que Washington se equivoca y
abandona, en momentos críticos, a un aliado y amigo”. La derecha
hondureña hace su juego buscando ganar tiempo, hasta que el período de
Zelaya termine. Si logran su objetivo, habrán ganado. Y la derecha
guatemalteca, la salvadoreña y la nicaragüense observan por los
costados, y ya les pican las ganas de comenzar sus propios golpes de
Estado contra sus gobiernos que no son ya de derecha.

Es posible que la derecha gane las elecciones este año y el año
entrante en Argentina y Brasil, tal vez en Uruguay y Chile. Tres
analistas importantes del Cono Sur han publicado sus explicaciones.
Atilio Boron habla de la “futilidad del golpe”. El sociólogo brasileño
Emir Sader dice que América latina enfrenta una encrucijada: “La
profundización del antineoliberalismo o la restauración conservadora”.
El periodista uruguayo Raúl Zibechi titula su análisis “La
irresistible decadencia del progresismo”. Zibechi piensa que las
débiles políticas de Lula, Vázquez, Kirchner y Bachelet (Brasil,
Uruguay, Argentina y Chile) han fortalecido a la derecha (que avizora
adoptando un estilo Berlusconi) y dividieron a la izquierda. Pienso
que hay una explicación más directa y simple. La izquierda llegó al
poder en América latina debido a la distracción estadounidense y a los
buenos tiempos económicos. Ahora enfrenta una distracción continuada,
pero los tiempos económicos son malos y comienzan a culparla porque
está en el poder, aunque hay poco que puedan hacer los gobiernos de
centroizquierda respecto a la economía mundial. ¿Puede Estados Unidos
hacer algo acerca de este golpe de Estado? Por supuesto. Primero,
Obama puede oficialmente etiquetar el golpe como un golpe de Estado.
Esto podría disparar una ley estadounidense que le cortara toda la
asistencia de Estados Unidos a Honduras. Puede cercenar las
continuadas relaciones del Pentágono con los militares hondureños.

Puede retirar al embajador estadounidense. Puede decir que no hay nada
que negociar en vez de insistir en la “mediación” entre el gobierno
legítimo y los líderes golpistas. ¿Por qué no hace todo eso? Es muy
simple, también. Tiene al menos otros cuatro súper puntos pendientes
en su agenda: la confirmación de Sonia Sotomayor en la Suprema Corte;
un desbarajuste continuado en Medio Oriente; su necesidad de pasar la
legislación de salud este año (si no es en agosto, en diciembre), y de
repente una presión enorme por abrir las investigaciones de los actos
ilegales del gobierno de Bush. Lo siento, pero Honduras tiene el
quinto lugar en la lista. Así que Barack Obama, constreñido entre dos
posturas fuertes, no hace sino ganar tiempo haciendo guiños a unos y a
otros, sin asumir una actitud clara. Y nadie quedará contento. Zelaya
puede ser restaurado en el cargo, pero tal vez sólo tres meses a
partir de ahora. Demasiado tarde. Pónganle atención a Guatemala.

Luis Melara: simplemente Luis

Luis Melara: simplemente Luis

Dagoberto Gutiérrez

La tranquilidad de la colonia fue rota, como un vidrio chocando con la roca, los perros callejeros fruncen sus hocicos para oler el olor a pólvora rancia, la explosión sacudió ventanas y puertas y anunció, como víspera de fuego, una resistencia inevitable.

En la pequeña habitación, un muchacho veinteañero, fornido, de cara grande, rostro definido, de brazos y piernas fuertes, manos grandes y frente despejada, se retorció de dolor y de susto, la explosión le arrancó dos dedos de una de sus manos y temía que la alarma llegara hasta la policía.

La mesa del experimento estaba derrumbada, la habitación a oscuras, los escasos muebles tumbados y aunque el artefacto había funcionado no lo había hecho en el lugar y el tiempo indicado porque Luis Melara y sus compañeros se preparaban para la guerra que estallaría unos 15 años después.

El estudiante de ingeniería era miembro del FURIA (Frente Universitario Revolucionario de Ingeniería y Arquitectura), gran amigo de Toni Handal dirigente estudiantil de la facultad de Ingeniería y Arquitectura. Miembro de las organizaciones que construían la fuerza política que años después desafiarían al poder político dominante. Luis, gran discutidor, decía lo que pensaba sin pensar en la forma, creía tenazmente y por fuera siempre fue duro e impenetrable; pero por dentro era firmemente tierno y tiernamente firme.

Luis Melara, ya como ingeniero, ganaría experiencia como profesional y también como militante del partido comunista, de su matrimonio con Diana Minero nacen tres hijos: Tamara, Pavel y Michell, todos pequeños cuando su casa en el pasaje Brasilia de la Colonia Libertad era un lugar de reuniones clandestinas del PCS.

La familia sale del país y Luis se incorpora al trabajo que sustentaba a las fuerzas que combatían en El Salvador y él mismo se incorporará a las fuerzas guerrilleras en el cerro de Guazapa, es Arnaldo el ingeniero guerrillero. Su trabajo logístico aseguraba equipo y recursos, comida y medicinas, energía y aliento a los combatientes, mientras sus hijos avanzaban, lentamente, hacia las estrellas.

Tamara, la mayor, se incorpora a las Fuerza Guerrillas del Cerro de Guazapa y posteriormente se traslada hacia el Volcán de San Salvador, el teatro de guerra más sangriento.

Una mañana cuando se cambiaba de campamento y al llegar al nuevo lugar, el enemigo emboscado ataca a la unidad guerrillera que recién llegaba y que aun tenía sus mochilas al hombro, Tamara es alcanzada por una letal ráfaga y muere en el acto, los disparos quiebran la luz del sol. Su pérdida sacude la fuerzas guerrilleras y cimbra a su familia.

Posteriormente, Pavel también se incorpora a la guerrilla y se convierte en especialista en el uso del lanza cohetes, pelea durante los furiosos combates y en noviembre en Ciudad Delgado, en la ofensiva de 1989 cae combatiendo. Luis sufre, llora y sueña por sus hijos. En silencio el padre y la madre los buscan sin mostrar dolor, pero sabiendo Luis que una aguja de fuego le calcina la vida en los callados corredores de la existencia, como caballo salvaje sin bridas, de ojos locos y sin rumbo, que parece tragarse sus entrañas y devorar sus horas y sus tiempos.

Negociada la guerra, Luis conserva su independencia y su espíritu critico, mantiene su posición revolucionaria, escribe y explicita sus opiniones sin redondeces y sin tocar puertas, su hija Michell se casa y lo hace abuelo, la vida parece transcurrir por los cauces normales o anormales de la existencia pero Luis sufre y llora en silencio, Diana lo sabe bien, y sin embargo y de repente y sin aviso y sin señales, Luis es atacado por un cáncer imbatible, furioso y sin remedio, en un mes termina con la vida de éste luchador invencible.

La tarde de su entierro, el sol era radiante y el verde amarillo, su hija y su sobrino hablaron de su persona y su personalidad sin abarcarlo porque Luis fue sencillamente Luis. Toda una vida dedicada a la lucha por la vida digna y la humanidad parece terminar en la muerte; pero bien sabemos que los luchadores como Luis que hacen de su vida una entrega de todos los días, no mueren nunca y estarán allí siempre.

“¡Hoy si ya sabemos quien sos..!” Entrevista con Américo Mauro Araujo

SAN SALVADOR, 19 de mayo de 2009 (SIEP) “Hoy si ya sabemos quien sos…” le dijeron complacidos sus captores, sonrientes porque al fin habían descubierto que el capturado era el segundo al mando del Partido Comunista. Corría el año 1985 y tenían en su poder al Comandante Hugo. El conflicto armado iniciado en 1980 y que concluiría 12 años después estaba en su pleno apogeo.

El presidente Duarte no se imaginaba que esta captura junto con la de otros jefes guerrilleros, iba a provocarle una grave crisis política a su gobierno. A continuación presentamos una entrevista con uno de los principales protagonistas de estos hechos, el Dr. Américo Mauro Araujo.

“Me capturan el 9 de agosto de 1985…había salido del Frente de Guazapa una semana antes, el 2 de agosto. Venía a la Metro a realizar contactos con las FPL y la RN. Me capturan como a las 2 p.m. Antes había almorzado en Los Globos ( frente al Don Pedro) junto con José Luís Merino ( Ramiro) y Héctor Acevedo (Octavio), dirigentes de las FAL.

Cuando transitaba de poniente a oriente, en la 29 , hoy Calle Camilo Minero, cuando llegaba al semáforo de la 5ta. Avenida, me rodean y me detienen, me sacan del carro, andaba en un Pony Rojo, y me meten a su vehículo, trato de escapármeles abriendo la puerta trasera, no lo logro, me capturan…eran detectives de la Policía Nacional.

En abril de este año 1985 había sido capturado Miguel Castellanos, El Ronco, de las FPL y había empezado a trabajar con la inteligencia enemiga. El les hizo un retrato hablado de Mario, del PRTC, ejecutor de la operación en la Zona Rosa y lo buscaban afanosamente. El tema de la Zona Rosa era recurrente en los interrogatorios.

Me capturan, dan vuelta en U y suben hacia el occidente por la 27, me tiran al piso e inician un ritual largamente practicado: cuentan uno… dos…y… tres y se abalanzan sobre mi persona para despojarme de mis pertenencias…me quitan todo lo que encuentran. Cruzan hacia la izquierda por el 1316 ( local del FMLN) y llegan hasta donde están hoy las oficinas del PARLACEN, antes estaba allí un parqueo. Son cuatro, se bajan tres y dejan a uno vigilándome. Enfrente quedaba el Ministerio de Hacienda.

Luego de alrededor de una hora, regresaron y me trasladaron a un microbús estilo Combi, y nos dirigimos hacia el edificio central de la Policía Nacional. Entramos por la puerta sur, aunque voy vendado puedo distinguir un patio, y un pabellón de celdas, me cargan y subimos gradas, pasamos por una puerta y un pasillo estrecho que conduce directamente a la segunda planta, me ingresan a un cuarto de madera.

En el cuarto de madera…

Estoy capturado, pero no saben quien soy. me preguntan con insistencia sobre mi identidad. Mantengo mi leyenda. es una experiencia que va a durar tres semanas, hasta el 1 de septiembre cuando me trasladan a la cárcel de Mariona.

El día uno mantengo mi leyenda. Mi apellido era Zepeda. Y así tenía en mi cedula de identidad. El día dos me preguntan: ¿vos sos América Duran? Analizo y decido admitirlo. les digo: -si, lo soy. Me habían confundido con Pelo Pincho, un camarada de los años sesenta. me traen un expediente de 1961, con varias fotografías. Lo que no calcule fue que entre sus habilidades lo que más les interesaba era la de explosivista, ya que había recibido un curso sobre esta materia. Luego me entraron dudas sobre la conveniencia de esta identidad.

A la mujer de Pelopincho le fueron a catear la casa, pero eso mejor pregúntaselo a él, que te lo cuente él…

El tercer día fue de interrogatorio permanente, llegaba uno, se iba, llegaba otro, me daban papel y lápiz para que les hiciera un retrato hablado de Mario. 12, 14 horas de interrogatorio, vendado, como la celda era de madera escuchaba cuando salían y quedaba solo, me levantaba la venda para ver donde me encontraba…luego oía sus pasos que regresaban a continuar el interrogatorio. Las mismas preguntas…había perdido la conciencia del tiempo, era una luz enceguecedora permanente, como un reflector…sabía que iban a tratar de quebrar mi moral, mis principios, de derrotarme.

Preguntaban y preguntaban sobre armas, radios, centros y rutas de abastecimiento, logística, casas de seguridad, contactos, días de reuniones, lugares de citas, e insistentemente sobre la Zona Rosa y el famoso Mario, el responsable de esta operación del PRTC, ejecutada por los Comandos Mardoqueo Cruz.

El cuarto día reflexiono que identificarme como Américo Duran fue un error, mal calculo, termine siendo explosivista, más complicada mi situación. me muestran una foto de Pelopincho en un mitin con Schafik, en el Parque Libertad. Pero ese mismo día cambia la situación cuando los oigo reír muy contentos y satisfechos. me dicen con orgullo: Hoy si ya sabemos quien sos… Te llamas Américo Mauro Araujo. les digo: -es cierto.

Hoy si ya sabemos quien sos…

Me reclaman porque me resistí tanto a revelar mi verdadera identidad y porque había tratado de engañarlos. les explico que yo nunca les dije Américo Duran sino que fueron ellos.

Al saber mi identidad se fueron a catear la casa de una prima hermana que era mujer de Roberto Monterrosa, hermano del Coronel Domingo Monterrosa…

El quinto día todavía negaban mi presencia ante los representes del Comité Internacional de la Cruz Roja.

El séptimo día aceptaron que me tenían en su poder. recibo la visita de un chileno, representante del CICR. le narro mi odisea, y que fui interrogado por extranjeros por un venezolano. Me pregunta: ¿es que acaso tiene usted un oído tan fino como para distinguir un acento venezolano? le digo: quizás no sea tan fino, pero de la misma forma en que distingo que usted es chileno. Y le veo la cara de sorpresa….

El día ocho, me sentía muy mal y aceptan que visite la clínica. Me llevan vendado. Al regresar de la clínica oigo voces conocidas, Nidia me llamó…*Cuando salí por segunda vez a la celda de interrogatorios, me quitaron la venda, y platicamos.

El noveno día, llegan y me trasladan fuera de la celda, me ordenan que me arregle, que me peine, rechazo la solicitud, si me van a matar que lo hagan así como estoy, pienso que han decidido matarme…salimos del edificio de la Policía Nacional. Voy vendado, el vehículo avanza por las calles, llegamos a un lugar y me quitan la venda de los ojos: ‘estamos en el Sheraton, que están utilizando los gringos como cuartel! Entremos por la puerta principal, subimos al cuarto o quinto piso. Aparece el traidor…

En esta celda había un burdo vidrio polarizado desde donde sentías que te observaban rostros que no veías. estaba vendado de los ojos, las manos libros, vestido. La pregunta repetida y repetida en diversos tonos: ¿identidad? Me aferre a mi leyenda con el fin que afuera se dieran cuanta que había sido capturado, cuando faltara a mis citas establecidas. A ellos les tomo dos días verificar la falsedad de la leyenda. El tiempo que necesitaba…

-Esa identidad no existe.¿Cómo te llamás? me interrogaban varios, uno de ellos tenía acento chileno. Afuera oía que hablaban en inglés. Una ve me tiraron al suelo y llegó alguien con una voz muy parecida a la de un sindicalista que conocía. Me dijo: ¿se acuerda de mi, Américo? Vengo a ofrecerle que colabore con mis señores, con los gringos, y ellos lo van ayudar. Le aseguro que lo van a tratar bien si coopera…le respondí indignado: este conflicto es entre salvadoreños y los gringos no tienen ni mierda que hacer aquí… Nunca más lo volví a escuchar.

*Diaz, Nidia. Nunca estuve sola. Pag. 190

Un joven muere en Honduras…

Un joven muere en Honduras…
Reflexión sobre Marcos 6: 14-29
“Cuando meditamos correctamente en la pasión de Cristo, vemos a Cristo y nos aterramos por el espectáculo. Nuestra conciencia se hunde en la desesperación. Este sentimiento de terror necesita ocurrir para que comencemos a reconocer plenamente cuán grande es la ira de Dios contra el pecado y los pecadores…”
Martín Lutero. Cómo meditar en la pasión de Cristo

La muerte de un joven en cualquier parte del mundo es un hecho doloroso, rompe el orden natural de la vida. Pero cuando la muerte es el resultado de una bala lanzada por el fusil de un soldado contra un manifestante pacifico se convierte en un hecho simbólico. Se transforma en el símbolo de la lucha de la vida contra la muerte. Ese fue el significado del asesinato de Juan El Bautista y es el significado del asesinato el 5 de julio, en Tegucigalpa, del joven Isis Murillo. En el fluir del río de la historia las historias se repiten…

Un profeta muere en Jerusalén…

En el relato bíblico, Juan El Bautista denuncia la soberbia y corrupción del “rey” Herodes y esto le ocasiona la muerte. Los poderosos no perdonan el atrevimiento de los sectores populares y sus líderes y castigan la rebeldía contra el sometimiento, el temor de perder sus privilegios los empuja a encarcelar y matar…los poderosos son esclavos de su soberbia.

Herodes sabia que no podía domesticar a Juan y por eso decidió encarcelarlo y decapitarlo. Pero los vientos del pueblo siempre esparcen las semillas de la rebelión y del corazón de la gente surgen los profetas y héroes. Es el espíritu de Elías el que se manifiesta…es la sucesión histórica en la que cada generación deja impresa su huella para el futuro. La muerte de Juan fue decidida en un banquete, entre tragos y madrugadas. Este fue también el ambiente en el que vivió y murió Jesús. El presencio como los jueces, militares, legisladores y empresarios conspiraban contra los pobres y su fuerza organizada.

En el relato actual, Manuel Zelaya denuncia la soberbia y corrupción de los poderosos de Honduras y siendo presidente esto le ocasiona que los militares lleguen de madrugada a su casa y lo capturen y lo expulsen hacia otro país. Los poderosos no le perdonan el atrevimiento de acercarse a los sectores populares y castigan su rebeldía prohibiéndole que ingrese a su país siendo presidente legítimamente electo. Los poderosos deciden lo que es legal y para ellos es legal arrebatarle su presidencia…
La oligarquía hondureña sabia que no podía domesticar a Mel Zelaya y por eso decidió capturarlo y expulsarlo de Honduras. Pero el espíritu de Morazán que es el mismo espíritu de Elías soplaba por los pinares y ciudades de Honduras y la gente salió a las calles a exigir el regreso de su presidente. Y la gente seguirá luchando porque en la lucha se encuentra la razón de la vida. Ese es nuestro compromiso…

Iglesia Luterana Popular de El Salvador

San Salvador, 10 de julio de 2009

Cómo meditar en la pasión de Cristo

Cómo meditar en la pasión de Cristo

Martín Lutero

Formas equivocadas de meditar en la pasión de Cristo

Algunas personas meditan en la pasión de Cristo y se enojan con los judíos. Cantan y hablan mucho sobre Judas también. Sólo hacen lo de siempre. Les gusta quejarse de los demás. Pasan todo su tiempo condenando a sus enemigos. Supongo que es una meditación de cierta clase, pero no es una meditación sobre el sufrimiento de Cristo, sino sólo una meditación sobre la maldad de los judíos y de Judas.

Otros a quienes les gusta hablar del beneficio de meditar en la pasión de Cristo no entienden de que se trata. Algo que Alberto dijo puede ser muy engañoso: Pensar en la pasión es mejor que ayunar todo el año o rezar los salmos todos los días. Algunos ciegamente lo siguen, toman su comentario en el sentido literal, y luego actúan contrariamente a la pasión de Cristo. Sólo buscan sus propios intereses, tratando de evitar hacer otras cosas. En forma supersticiosa se adornan con imágenes y libritos, cartas y crucifijos. Otros hasta imaginan que haciendo estas cosas se están protegiendo contra ahogarse, quemarse, la espada y toda clase de peligros. Tratan de usar los sufrimientos de Cristo para evitar que algún sufrimiento venga a su vida, lo cual, por supuesto, es totalmente contrario a como es la vida en realidad.

Además hay la gente a quien le gusta simpatizar emocionalmente con Cristo. Lloran y derraman lágrimas sobre él porque fue tan inocente. Son como las mujeres que siguieron a Cristo en el camino desde Jerusalén. ¡Él las reprendió! Les dijo que deberían llorar por ellas mismas y por sus hijos. Entran en la estación de la pasión pensando que reciben un gran beneficio pensando profundamente en cómo Jesús salió de Betania, o en los dolores y penas que sufrió la virgen María. Meditan en estas cosas durante horas y horas, pero nunca avanzan. De alguna forma, no llegan realmente a meditar en el verdadero sufrimiento y muerte de Cristo. Sólo Dios sabe si hacen esto más bien para dormir que para vigilar y esperar con Cristo. Esta clase de gente incluye a los fanáticos que tratan de enseñar a la gente que reciben una gran bendición sólo asistiendo a la celebración de la Santa Cena, parándose allí y viendo que se celebre. Tratan de convencer a la gente que sólo presentarse y ver una misa automáticamente obra la bendición por el acto mismo de hacerlo. Quisieran llevar a la gente a creer que la Cena del Señor no tiene nada que ver con la fe en la promesa de la Santa Cena, ni de ser digno para recibir la Santa Cena. La cena no fue instituida para su propio beneficio, como si el propósito fuera sólo celebrarla. Se dio con el fin de meditar en la pasión de Cristo. Si no lo hacemos, convertimos la Santa Cena en una obra humana. La hacemos algo inútil, no importa que tan buena sea en sí misma. ¿De qué te sirve que Dios sea Dios, si no lo es para ti? ¿Qué utilidad tiene comer y beber si no te beneficia a ti? Debemos tener miedo de pensar que nos haremos mejores sólo porque celebramos mucho la Santa Cena, mientras que al mismo tiempo no recibimos su verdadero beneficio.

La manera correcta de pensar en la pasión de Cristo

Cuando meditamos correctamente en la pasión de Cristo, vemos a Cristo y nos aterramos por el espectáculo. Nuestra conciencia se hunde en la desesperación. Este sentimiento de terror necesita ocurrir para que comencemos a reconocer plenamente cuán grande es la ira de Dios contra el pecado y los pecadores. Entendemos esto cuando vemos que Dios libra a los pecadores sólo porque su muy querido Hijo — su Hijo único — pagó un rescate tan costoso por nosotros, como dice Isaías 53:8: “por la rebelión de mi pueblo fue herido”.

¿Qué sucede cuando vemos al querido Hijo de Dios fulminado en esta forma? Reconocemos cuán indecible, hasta insoportable, es el compromiso total del Hijo con la salvación de los pecadores. ¿De qué otra forma podemos sentirnos cuando reconocemos que una persona tan grandiosa como Cristo salió para enfrentar este destino, sufriendo y muriendo por los pecadores? Si reflexionas verdadera y profundamente en el hecho de que el Hijo de Dios, la Sabiduría eterna de Dios, sufre, te llenarás de terror. Entre más reflexionas en esto, más terror sentirás.

Debes creer profundamente, y nunca dudar, que en verdad eres tú el que mató a Cristo. Tus pecados le hicieron esto a él. San Pedro aterró los corazones de los judíos cuando dijo en Hechos 2:36-37: “vosotros [lo] crucificasteis”. Tres mil personas se llenaron de tanto terror que temblando de miedo, clamaron a los apóstoles: “Hermanos, ¿qué haremos?” Así, cuando mires los clavos penetrando sus manos, cree firmemente que es obra tuya. ¿Ves su corona de espinas? Estas espinas son tus malos pensamientos.

¡Mira! Cuando una espina traspasa a Cristo, debes saber que más de mil deberían traspasarte a ti. Deberían traspasarte por toda la eternidad en una forma aun más dolorosa que traspasaron a Cristo. Cuando veas los clavos traspasar las manos y los pies de Cristo, date cuenta que tú debes estar sufriendo esto por toda la eternidad, con clavos aun más dolorosos. Todo el que mira los sufrimientos de Cristo y los olvida, pensando que no valen nada, sufrirá tal destino por toda la eternidad. La pasión de Cristo es un espejo de lo que viene. Este espejo no es ninguna mentira ni broma. Todo lo que Cristo dice que pasará, en efecto sucederá.

Bernardo estuvo tan aterrado por los sufrimientos de Cristo que dijo: “En un tiempo pensaba que estaba seguro. No sabía nada acerca del juicio que se había pronunciado sobre mí en el cielo, hasta que vi que el Hijo eterno de Dios tuvo misericordia de mí. Vi que él se adelantó y se ofreció en mi beneficio, recibiendo mi juicio y tomando mi lugar. Ya no puedo sentirme tan despreocupado cuando reconozco cuán serios son los sufrimientos de Cristo”. Por eso mandó Cristo a las mujeres: “no lloréis por mí, sino llorad por vosotras mismas” (Lucas 23:28).

Es como si Jesús dijera: “Aprende de mi muerte lo que has ganado y lo que mereces recibir”. Es como matar a un perro pequeño para asustar al perro grande. Por eso el profeta dijo: “Todas las generaciones harán lamentación por él”. No dice que lo lamentan a él. Lamentan su propio destino. Esto explica por qué la gente se llenó de terror en Hechos 2:37, como ya lo mencioné, y dijo a los apóstoles: “Hermanos, ¿qué haremos?” La iglesia canta: “Esto pensaré con diligencia y mi alma se marchitará”.

Se debe considerar este punto con cuidado. El beneficio de los sufrimientos de Cristo depende totalmente de que se llegue a conocer bien a sí mismo y se llene de terror hasta el punto de morir. Si no se llega a este punto, los sufrimientos de Cristo realmente no lo beneficiarán. Los sufrimientos de Cristo en realidad hacen a todas las personas iguales. Así como Cristo muere en forma horrible en su cuerpo y alma por nuestros pecados, nosotros, como él, tenemos que morir en nuestra conciencia por causa de nuestro pecado. Esto no sucede con muchas palabras, sino meditando y reconociendo profundamente nuestros pecados. Permite que ilustre mi punto. Digamos que una persona mala mata al hijo de un príncipe o rey sin molestarte a ti, y sigues cantando y jugando como si fueras totalmente inocente. Luego te arrestan y te convencen que por tu causa el niño fue asesinado. ¡Te daría horror! Tu conciencia te afligiría profundamente. Así debes estar aun más afligido cuando consideres los sufrimientos de Cristo. Los judíos que mataron a Cristo, y que ahora han sido juzgados y exiliados por Dios, sólo fueron los siervos de tus pecados. En verdad tú eres el que estranguló y crucificó al Hijo de Dios por medio de tus pecados.

Si alguien es tan frío e insensible que no se aterra cuando ve los sufrimientos de Cristo, debe temblar de terror. Debes llegar a ser como las imágenes del sufrimiento de Cristo. No puede ser de otra manera. O aquí en el tiempo y en el infierno por toda la eternidad. Al momento de tu muerte, si no antes, tendrás que llenarte de terror, temblar y agitarte con temor, y experimentar todo lo que Cristo sufrió en la cruz. Es terrible esperar hasta el momento de la muerte para hacer esto. Pide a Dios y ruega que él suavice tu corazón ahora para que puedas meditar en los sufrimientos de Cristo en una forma que lleve fruto. Es imposible meditar en los sufrimientos de Cristo por nuestra propia habilidad y poder. Dios tiene que implantar estos sufrimientos en nuestro corazón. Esta meditación en el sufrimiento de Cristo, como sucede con todas las doctrinas divinas, no se te da para que puedas salir y hacer con ella lo que te dé la gana. No, siempre primero debes buscar la gracia de Dios y anhelarla. Por ti mismo, no puedes hacer nada. Todo depende de la gracia de Dios. Los que nunca ven correctamente los sufrimientos de Cristo son los que nunca invocan a Dios para pedir que los ayude. En lugar de eso, tratan de considerar el sufrimiento de Cristo por sí solos, y terminan considerando los sufrimientos de Cristo en una forma sólo humana y sin fruto.

Permite que diga esto en forma clara y abierta, para que todos lo oigan. Todo el que medita en los sufrimientos de Cristo en la forma correcta por un día, una hora, aun por quince minutos, está haciendo algo mucho mejor que ayunar por todo un año, rezar los salmos todos los días, o escuchar cien misas. La meditación correcta en el sufrimiento cambia el carácter de la persona. Como en el bautismo, la persona nace de nuevo con esta meditación. Entonces los sufrimientos de Cristo logran su obra verdadera, natural y noble. Matan el viejo Adán. Eliminan de nosotros toda lascivia, placer y seguridad que tal vez pensemos que una criatura de Dios nos podría dar, así como Cristo fue abandonado por todos, inclusive por Dios.

Necesitamos reconocer que sentir que nacemos de nuevo no es algo que depende de nosotros. Puede ser que a veces oremos por ello, pero no lo recibimos en el momento. No debemos desesperarnos, sino seguir orando. A veces viene cuando no estamos pidiéndolo. Dios sabe lo que necesitamos. Hará lo que más nos conviene. Es libre y sin límites. Puede ser que cuando nuestra conciencia nos causa angustia y estamos profundamente insatisfechos con nuestra vida y lo que hemos hecho, no lo reconocemos, pero la pasión de Cristo está haciendo esto en nosotros. Por otro lado, algunos pueden pensar que están meditando en la pasión de Cristo, pero se enredan tanto en pensar en ellos mismos que no pueden encontrar la salida. El primer grupo realmente medita en la pasión de Cristo, los otros sólo presentan un espectáculo que resulta falso.

El consuelo del sufrimiento de Cristo

Hasta este punto en nuestra discusión, es como si estuviéramos en la Semana de la Pasión y el Viernes Santo. Ahora llegamos a la Pascua y la resurrección de Cristo. Cuando alguien, con la conciencia llena de terror, entiende de esta forma sus pecados, necesita cuidarse para que sus pecados no se queden en su conciencia, porque entonces no resultaría nada sino sólo la duda. Así como nuestros pecados fluyeron de Cristo y nos hicimos conscientes de ellos, debemos volver a derramarlos sobre él y librar nuestra conciencia. Cuídense de no morderse y devorarse unos a otros con los pecados en el corazón, corriendo aquí y allá con sus propias buenas obras, tratando de hacer satisfacción por ellos, intentando obrar la liberación de su pecado mediante indulgencias. ¡Es imposible! Desgraciadamente, todavía muchos, en muchas partes, piensan que encuentran un refugio en estas satisfacciones y peregrinajes.

Toma tus pecados y échalos sobre Cristo. Cree con un espíritu gozoso que tus pecados son sus heridas y sufrimientos. Él los lleva y hace satisfacción por ellos, como dice Isaías 53:6: “Jehová cargó en él el pecado de todos nosotros”. Pedro dice en 1 Pedro 2:24: “Él mismo llevó nuestros pecados en su cuerpo sobre el madero”. En 2 Corintios 5:21 Pablo dice: “Al que no conoció pecado, por nosotros lo hizo pecado, para que nosotros seamos justicia de Dios en él”. Debes confiar en versículos como éstos en la Biblia con toda tu fuerza, aun más cuando tu conciencia trate de matarte. Nunca hallarás la paz si pierdes esta oportunidad para tranquilizar tu corazón. Tendrás tantas dudas que te desesperarás. Si pensamos demasiado en nuestros pecados, repasándolos una y otra vez en nuestra conciencia, manteniéndolos en nuestro corazón, pronto serán demasiados para que los podamos manejar y vivirán para siempre.

Pero cuando vemos nuestros pecados puestos en Cristo y lo vemos triunfar sobre ellos con su resurrección, y sin temor lo creemos, nuestros pecados están muertos y se desaparecen. No quedan sobre Cristo, sino son tragados por su resurrección. Ahora no ves ninguna herida, ningún dolor, ningún pecado en absoluto en él. Por eso Pablo dice en Romanos 4:25 que Jesús “fue entregado por nuestras transgresiones, y resucitado para nuestra justificación”. En su sufrimiento Cristo hizo conocer nuestros pecados y fue crucificado por ellos. Por su resurrección nos hace justos y libra de todo pecado. Si no lo puedes creer, pide a Dios la fe. Esto depende totalmente de Dios. A veces él da la fe en una forma muy dramática y abierta, en otras ocasiones en forma secreta y tranquila.

Por tanto, esto es lo que debes hacer. Primero, deja de mirar los sufrimientos de Cristo ya. Han hecho su obra y te han aterrado. Sigue adelante a través de todas las dificultades y mira su corazón amistoso. Ve cuán lleno de amor está el corazón de Dios hacia ti. Este amor lo motivó a sobrellevar la pesada carga de tu conciencia y tu pecado. Si haces esto, tu corazón se llenará de dulce amor hacia él. La seguridad de tu fe se fortalecerá. Asciende más alto a través del corazón de Cristo al corazón de Dios y verás que Cristo no podría haberte amado si Dios no habría querido esto con su amor eterno. Cristo es obediente a este amor, y así te ama. En el corazón de Dios hallarás un corazón divino, bondadoso, paternal. Como dice Cristo, serás atraído al Padre por medio de Cristo. Entonces entenderás lo que Cristo quería decir cuando dijo en Juan 3:16: “De tal manera amó Dios al mundo, que ha dado a su Hijo unigénito”. Así conocemos a Dios como él quiere que lo conozcamos. No lo conocemos por su poder y sabiduría, que nos aterran, sino por su bondad y amor, Allí nuestra fe y confianza están inamovibles. Así la persona realmente nace de nuevo en Dios.

Cuando tu corazón está puesto en Cristo, eres un enemigo del pecado, por causa del amor y no porque temes el castigo. Los sufrimientos de Cristo deben ser un ejemplo para toda tu vida. Debes meditar en ellos de otra forma. Hasta ahora hemos considerado la pasión de Cristo como un sacramento que obra en nosotros. Ahora queremos considerarla de otra forma, como algo que obra en nosotros cuando sufrimos. Cuando llegue el día en que la enfermedad y el dolor pesen sobre ti, piensa cuán poco monto es en comparación con las espinas y los clavos de Cristo. Si tienes que hacer algo que no quieres, o no puedes hacer algo que quieres, piensa cómo Cristo fue conducido por otros, atado como prisionero. ¿Te hiere el orgullo? Piensa cómo el Señor fue burlado y avergonzado en compañía con los asesinos. ¿Te llegan pensamientos sexuales impuros y lascivia, imponiéndose en ti? Piensa en qué amargo fue para Cristo que se le rompiera su tierna carne, fuera lacerado y azotado, una y otra vez. ¿Hay odio y envidia luchando en ti, o buscas vengarte? Recuerda cómo Cristo oró por ti, y por todos sus enemigos, con muchas lágrimas y gritos. ¡Él tuvo más razón que tú para buscar la venganza! Si algún problema o adversidad te molesta en cuerpo o alma, ¡ten ánimo! Di: “Por qué no debo yo también sufrir un poco, puesto que mi Señor sudó sangre en el huerto a causa de su angustia y dolor? Sería un siervo flojo y vergonzoso si sólo quisiera acostarme en mi cama mientras mi Señor tiene que batallar con una muerte dolorosa”.

De esta forma hallas fortaleza en Cristo y te consuelas cuando luchas con toda clase de vicio y malas costumbres. Así se debe meditar en la pasión de Cristo. Éste es el fruto de su sufrimiento. Por eso el que medita en la pasión de Cristo de esta forma realmente hace algo mejor que oír la lectura de toda la historia de la pasión, o leer toda clase de misas. Las personas que hacen la vida y el nombre de Cristo parte de su propia vida con toda razón reciben el nombre de cristianos, como dice Pablo en Gálatas 5:24: “Pero los que son de Cristo han crucificado la carne con sus pasiones y deseos”. Tenemos necesidad de meditar en la pasión de Cristo, no con muchas palabras o con una exhibición impresionante, sino usándola debidamente en nuestra vida. Pablo nos amonesta en Hebreos 12:3: “Considerad a aquel que sufrió tal contradicción de pecadores contra sí mismo, para que vuestro ánimo no se canse hasta desmayar”. Pedro dice en 1 Pedro 4:1: “Puesto que Cristo ha padecido por nosotros en la carne, vosotros también armaos del mismo pensamiento”. Pero esta clase de meditación en la pasión de Cristo no se usa mucho. Es muy excepcional, aunque las epístolas de Pablo y Pedro están llenas de ella. Hemos cambiado la esencia de la meditación en la pasión de Cristo en un espectáculo, y sencillamente hemos pintado la meditación de la pasión de Cristo en letras y en las paredes.

¡A Dios solo sea la gloria!

Martín Lutero, 1519

Los transgénicos y la vida en venta

Los transgénicos y la vida en venta

Dagoberto Gutiérrez

Como era previsible, en el gobierno anterior, los mercaderes aprobaron, con la reforma del artículo 30 de la ley de semillas la libre introducción, transporte, comercialización y uso de los organismos genéticamente modificados (OGM), nombre técnico que abre la puerta a lo que se conoce como transgénicos. Estos son productos vivos que no pueden producirse en la naturaleza y requieren, de tecnología para producirse y aparecer como naturales.

Aquí se cruzan especies vegetales con vegetales y animales también con vegetales, por ejemplo: un gen (expresión genética que contiene la estructura hereditaria decisiva de un ser vivo) de un pez del ártico, es introducido a la estructura genética de un tomate para lograr que este vegetal dure más, sin descomponerse, en los supermercados, lo mismo ocurre con plátanos u otros productos que se caracterizan por un tamaño y color esplendoroso, pero que no tienen el sabor natural de los productos naturales; a todo este trabajo científico se le llama ingeniería genética que es controlada por gigantescas empresas transnacionales que controlan el conocimiento, las semillas y los tóxicos usados en la agricultura, tal es el caso de Monsanto, la gran empresa planetaria que controla el mercado de estos productos.

Aquí tenemos un ejercicio de poder económico, tecnológico y político que permite al mercado, altamente tecnificado, convertir a la naturaleza en mercancía de la misma manera en que el ser humano es convertido en una simple mercancía; aun más, éstas empresas reclaman propiedad intelectual y aseguran la patente, que es el monopolio temporal de los beneficios económicos de su tecnología sobre sus “inventos”.

Los transgénicos han invadido vegetales especiales como el maíz que, al tener una estructura genéticas parecida a la de los humanos, ha sido sometido, a la investigación y modificación más intensa, al grado tal que cuando te estás comiendo una tortilla no podés estar seguro o segura que sea de maíz, más bien has de partir que es de cualquier cosa, menos de maíz.

Esta actividad comercial comprende el control sobre semillas nativas de cada comunidad o país y su sustitución por semillas genéticamente modificadas, propiedad de las grandes empresas, esto quiere decir que los agricultores de cada país y comunidad pierden el control sobre sus propias semillas utilizadas en sus siembras y cosechas y que los productos cosechados dejan de ser determinados por las propias comunidades y sociedades y pasan a depender de las grandes empresas que controlan así los corredores planetarios que determinan la vida en las sociedades y son los mercados los que aseguran qué es lo que las personas deben comer y lo que no deben ingerir, por supuesto que el alimento producido es el que puede ser vendido en los mercados internacionales y no el que la gente necesita para subsistir, no se trata entonces de producir alimentos para que la gente coma, por que a las empresas no les importa que la gente coma sino de producir alimento para los mercados internacionales y para eso, ni se necesita agricultura, agricultores, ni cultura propia para cada país.

Por supuesto que esta actividad mercantil requiere dominio político y los países, dueños de ciencia y tecnología, están en condiciones de establecer, con inteligencia y certeza políticas Nacionales para el uso del conocimiento genético, esto supone adquirir los conocimientos científicos necesarios, involucrar a los centros de estudios, formar profesionales y científicos en el tema, establecer una policía de ordenamiento ambiental del territorio realizar intercambios científicos para finalmente, determinar de acuerdo a realidades geográficas, ambientales, culturales, económicas y humanas, lo que el país necesita y puede o debe hacer en el campo de la ingeniería genética. De otro modo, el uso de esta tecnología solo significará la entrega del país, maniatado, vendado y enmudecido, en manos de estas empresas y de sus socios locales.

En estos momentos, El Salvador no tiene, en rigor una crisis alimentaria, por lo menos no lo dicen así las cifras oficiales porque entre lo producido y lo importado no aparece un quiebre ni desbalance; pero el gobierno si habla de crisis alimentaria para aprovechar la coyuntura y hacer avanzar sus negocios, que son los de las empresas para las cuales gobierna, al amparo de un discurso al servicio, aparente, de la producción de alimento.