La vendetta, la sorpresa e la memoria. Il Manifesto

Non esitiamo a definire l’attacco di Hamas come terrorista e barbaro. Uccidere a sangue freddo civili o sequestrarli, offendere i vinti, devastare i corpi delle donne.

E di chi non è della tua religione, non corrisponde ad alcun principio di liberazione e nemmeno di guerra asimmetrica; al contrario, per la sua efferatezza, rischia di legittimare l’oppressione che si vorrebbe combattere e di alimentare nuovo odio. E non c’è bisogno di ricordare il dolore di nostri interlocutori e collaboratori che in questo momento piangono cari e amici uccisi, per provare orrore. L’unica vera ideologia che sembra sorreggere questo crimine è la «vendetta», così la chiamano, per «l’usurpazione dei luoghi sacri di Al Aqsa», a cui i palestinesi associano i torti, le umiliazioni, le uccisioni subite da chi da decenni sta chiuso nella Striscia di Gaza, definita non a torto «prigione a cielo aperto» per più di due milioni di persone, un orrore esistenziale quotidiano – il manifesto titolò il 7 aprile 2018 Poligono di tiro quando l’esercito israeliano mirava ai corpi di giovani palestinesi indifesi.

Ora si avvia l’operazione militare di Israele che, dalle parole di Netanyahu, anch’essa è motivata dalla «vendetta». Mentre si sprecano gli esempi con l’11 settembre, varrebbe invece la pena ricordare le guerre scellerate che produsse, in Afghanistan – anche quella per «vendetta dell’11 settembre, non per la democrazia afghana» dichiarò Biden nell’estate 2021 del drammatico ritiro Usa-Nato -, e poi in Iraq per le armi di distruzione di massa che non c’erano. Ma l’odio e le distruzioni provocate hanno intanto motivato altro odio, altra vendetta e altro integralismo religioso.

Ma come rispondiamo alla domanda sulla sorpresa? Su come sia stato possibile tutto questo per un rodato e costosissimo apparato di sicurezza riconosciuto come inviolabile nel mondo? Israele si scopre vulnerabile, dov’era l’apparato d’intelligence – e quello Usa anch’esso violato?

Semplicemente non c’era, perché le forze di sicurezza israeliana da mesi sono impegnate nella repressione interna dei Territori palestinesi occupati dove dall’inizio del solo 2023 i morti palestinesi sono 206 e dove è nata una pericolosa stagione che vede i giovani armarsi. Giacché la questione palestinese non è nata 48 ore fa, ma almeno dal 1967 con l’occupazione di Gaza e della Cisgiordania da parte dell’esercito israeliano, che dura tutt’ora in violazione del diritto internazionale e di due Risoluzioni Onu. Nel silenzio della comunità internazionale che l’ha lasciata marcire dopo il ‘95, quando un estremista ebreo uccise Rabin firmatario di Oslo, e con l’uscita di scena – ucciso anche lui – di Yasser Arafat.

Da allora è stato buio sulla Palestina e su un intero popolo, senza diritti, chiuso da muri -: nel suo ultimo libro Patrie Timothy Garton Ash lamenta tra l’altro la nascita di tanti muri dopo il crollo del Muro di Berlino: ecco, il primo è stato proprio il Muro di Sharon che taglia n due la terra palestinese. E poi ancora diviso da reticolati e check point, impedito nel lavoro e nella coltivazione, con la sua acqua e la sua terra rubate quotidianamente; e con la fine della continuità territoriale di uno Stato palestinese auspicato dalla pace di Oslo.

E questo per le centinaia e centinaia di insediamenti ebraici promossi dai governi israeliani che hanno mobilitato i coloni, legati politicamente ad una destra integralista religiosa che in Israele chi è sceso in piazza contro Netanyahu non esita a definire «fascista». Di quella pace sono rimaste solo le riprese televisive. E il tanto annunciato da Trump – e continuato da Biden -, patto di Abramo tra Israele e la «democratica» Arabia Saudita, ha come grave corollario il riconoscimento da parte Usa di tutta Gerusalemme, in parte occupata, come capitale d’Israele, passando sopra gli interessi dei palestinesi e dell’Anp.

Insomma un patto sulla Palestina ma senza i palestinesi. Così è cresciuta una protesta diffusa della società palestinese. Ma la tragedia non è finita: colonne di carri armati si muovono per assediarla verso Gaza, già senza cibo, luce e soccorsi, ma anche verso la Cisgiordania. Si muove la flotta Usa nel Mediterraneo. E si propone la pericolosa «protezione» dell’Iran.

Così il rischio evidente è che le gesta terroriste di Hamas alla fine un risultato l’avranno: seppellire definitivamente la questione palestinese, i diritti democratici e laici di un popolo intero – il popolo dei campi profughi del Medio Oriente – che, delegittimato nelle sue aspettative di vita e di pace, accetta pur subendola la leadership di Hamas, nato apposta per indebolire Al Fatah e nemico giurato della sinistra palestinese, ma che nel 2006 vinse le elezioni anche in Cisgiordania. Vorrebbe dire mettere una pietra tombale, così come tutto il mondo ha fatto finora. Eppure smemorato l’Occidente, compresa l’Ue che non ha fatto nulla per la pace, condanna ma non si ritiene responsabile.

Terrore nel kibbutz, il miglior esercito preso alla sprovvista. Zvi Schuldiner. Il Manifesto

Le sirene che mi hanno svegliato ieri mattina erano accompagnate dalle concitate notizie che alla radio parlavano di forze armate entrate in Israele. Cercare di decifrare ciò che la radio diceva, era parte della cosa più importante: sapere cosa stava succedendo a familiari e amici. Molto presto la mattina, le mie nipoti sembravano liete di trovarsi in una stanza protetta che rende la vita un po’ più sicura in caso di attacco, mentre al sud un’amica mi diceva di sentirsi terrorizzata.

Si trovava nella sua stanza blindata, con la porta ben chiusa, ma senza sapere se le voci che si sentivano provenire dael resto della casa fossero di soldati israeliani o di palestinesi. A Sderot, una città a tre chilometri dal college nel quale ho insegnato negli ultimi 25 anni, i palestinesi sono entrati nella stazione di polizia e hanno ucciso tutti i presenti, poliziotti o civili, vittime che si sono aggiunte ad altri che sono stati uccisi o presi in ostaggio. Più tardi mi è stato comunicato che l’intera famiglia di uno dei nostri studenti è stata massacrata. Una delle nostre insegnanti si sta riprendendo a fatica dal trauma dell’attacco al suo kibbutz vicino alla Striscia di Gaza.

Al momento in cui scriviamo in questo sabato sera si parla di 150 morti, civili o membri delle forze armate, e di circa 1000 feriti. Decine di israeliani, soldati e civili, fatti prigionieri e portati nella Striscia di Gaza. È probabile che queste cifre tragiche aumentino nelle prossime ore.

Mentre le sirene di allarme ci avvertivano di oltre 2200 missili lanciati soprattutto verso la parte meridionale del paese, radio e televisione trasmettevano il timore che attacchi missilistici diffusissimi e distruttivi avrebbero presto colpito l’intero paese. L’ombra degli Hezbollah libanesi e forse dell’Iran si profilava più grande che mai.

La redazione consiglia:

Israele svela l’incontro a Roma con la Libia. Biden furioso, Tripoli brucia

Di fronte all’enorme numero di vittime fra soldati e civili, oltre agli ostaggi a Gaza, lo stupore: come è possibile essere stati presi così alla sprovvista? I migliori servizi segreti del mondo, il miglior esercito… Miliardi investiti in ogni genere di protezioni che dovevano impedire le incursioni sotterranee del passato recente. Tanti progressi tecnologici, telecamere sofisticate a disposizione di abili soldati e soldatesse, in grado di individuare ogni possibile attacco del nemico.

Nelle ultime settimane le discussioni su un possibile attacco di Hamas sono state dominate da due questioni chiave: Hamas esprimeva un interesse crescente per il miglioramento della situazione economica nella Striscia di Gaza, mentre cercava di assicurarsi un posto nella difficile questione di un accordo tra Arabia Saudita e Israele favorito dagli Stati uniti. Per la leadership israeliana questa sarebbe la «pace» ideale: insieme all’Arabia saudita e ad alcune concessioni poco rilevanti ai palestinesi, non solo poter ottenere una presunta pace regionale, ma anche garantire la sopravvivenza del vergognoso governo di Netanyahu e dei suoi alleati di estrema destra.

E i palestinesi? Beh, per loro un po’ più di soldi da parte dei sauditi e del Qatar. E chi parteciperebbe ai negoziati? Abu Mazen, l’Olp, Hamas? Hamas nei negoziati? E l’influenza dell’Iran?

La «sorpresa» della guerra del 1973 è ancora oggi oggetto di discussione. I commentatori più esperti ci promettono che l’enorme sorpresa di oggi dovrà essere attentamente studiata. Sì, ma rimane la questione essenziale: il paradigma dominante. I migliori servizi segreti, il migliore esercito, quando ancora oggi si celebra una concezione basata sull’occupazione dei palestinesi, sul terrore di Stato, e noi che «siamo i più morali», e gli altri che esercitano un «terrore disumano».

Un popolo che sottomette un altro popolo non può essere libero e la barbarie della leadership israeliana non ci porterà mai a un miglioramento della situazione. Nei prossimi giorni le forze armate israeliane cercheranno di «cancellare l’affronto», mentre gli ostaggi israeliani saranno, forse, l’unico freno possibile alla furia di domani.

What the Hamas Attack Means for Israel. Netanyahu Has Nothing but Bad Options. Daniel Byman.

As thousands of rockets rain down on Israel, lighting up the skyline of Tel Aviv and other cities, the country’s current priority is to defend its towns and military bases against Hamas’s sudden and devastating attacks from the Gaza Strip. Israel will try to root out the militants, prevent more infiltrators, and silence the rockets and mortars bombarding its people.

Given the scale of Hamas’s attacks and Israel’s surprise, none of these tasks will be easy. And even if Israel succeeds, it faces difficult choices on what to do next to ensure that Hamas is weakened and that such an attack does not recur. Israeli leaders need to reestablish deterrence against Hamas and other adversaries while preventing the spread of violence to the West Bank, protecting the country’s recent diplomatic gains, and managing an ongoing hostage situation.

THE GAZA DILEMMA

Perhaps the biggest question is what to do about the Gaza Strip. Since Hamas seized power in this Palestinian exclave in 2007, Israel has avoided large-scale, sustained ground operations there, despite calls by Israeli politicians for action during past crises. Indeed, in 2018, Israel’s defense minister, Avigdor Lieberman, resigned in protest when Israel negotiated a truce with Hamas. Israeli military leaders, however, rightly pointed out that trying to uproot Hamas from the Gaza Strip would be difficult. Hamas has deep ties there, running hospitals, mosques, schools, and youth groups, as well as the police.

Stay informed.

In-depth analysis delivered weekly.

Before the latest round of fighting, Israeli leaders could argue that occasional airstrikes and economic pressure kept Hamas off-balance, unable to pose a major threat to Israel. That argument will now hold little weight. Israel could continue to rain down fire on the Gaza Strip, but that would do little to shake Hamas’s hold on power. In addition, although international (and especially U.S.) opinion is now sympathetic to Israel, each day of bombing that passes without any major response from Hamas would erode international support for Israeli Defense Force operations.

In the short term, Israel could make some gains against Hamas by sending its military to occupy all or part of the Gaza Strip. By entering it, Israeli forces would disrupt Hamas’s control of the population. They could interrogate area Palestinians, arrest Hamas officials at all levels, and otherwise gain information. They could also kill or capture large numbers of lower-level Hamas members, destroy tunnels and caches of military materiel, and disrupt infiltration routes from the strip into Israel. All these steps would weaken Hamas and reduce the short-term threat to Israel.

But even if it succeeds at weakening Hamas, a ground incursion carries major risks. The area’s dense urban terrain poses a significant obstacle to Israeli ground forces and creates enormous potential for civilian casualties. The 2014 crisis, for example, resulted in the deaths of 66 Israeli soldiers, six Israeli civilians, and well over 2,000 Palestinians (mostly civilians), despite the fact that Israeli forces penetrated only a few miles into the Gaza Strip during Operation Protective Edge. Hamas has also dug tunnels in much of the territory, and it could use these to orchestrate sudden attacks and take more Israeli soldiers hostage—turning the current political disaster into an even bigger nightmare.

A return to anything approaching the status quo ante would look like a victory for Hamas.

Israel might also be able to supplant Hamas’s influence in the longer term if it could find other Palestinians to administer the Gaza Strip. But Israel lacks a credible political partner on the Palestinian side. Mahmoud Abbas, the leader of the Palestinian Authority, and his henchmen loathe Hamas, and they have brutally repressed it on the West Bank, but they lack significant political support among Palestinians. Widespread corruption, an aging and out-of-touch leadership, and years of collaboration with Israel have discredited the PA. What’s more, the PA leaders do not want to take power in the Gaza Strip by riding in on Israeli tanks, which would wipe out what little nationalist credentials they have left. All this means that a ground invasion that overthrows Hamas would leave Israel stuck administering the strip, forced to deal with its difficult economic situation and hostile population.

A long war in the Gaza Strip would also prove diplomatically disruptive for Israel. Israel is seeking to normalize relations with Saudi Arabia, and it was hoping that Riyadh would ask for only token concessions on the Palestinian issue. Saudi Arabia’s leadership might have taken such an approach when Palestine was on the back burner, hoping that public opinion in their own countries and the broader Muslim world would focus on other concerns. With violence raging, however, Saudi Arabia could not afford to look weak on this issue. A statement issued Saturday by the Saudi foreign ministry presages increased diplomatic troubles, blaming the current explosion of violence on Israel’s “continued occupation, the deprivation of the Palestinian people of their legitimate rights, and the repetition of systematic provocations against its sanctities.”

Yet for all these problems, Israeli leaders might still feel compelled to go in. The scale of this attack is so immense that a return to anything approaching the status quo ante would look like a victory for Hamas. Israeli politicians have a history of short-term thinking, and popular passions are riding high.

ALL QUIET ON THE WEST BANK

Israel will also seek to ensure that the West Bank remains relatively calm, especially if it mounts a ground incursion into Gaza. Previous Israeli military operations in the strip prompted large demonstrations in the West Bank. The West Bank is already in turmoil, with talk of a Third Intifada erupting. In both 2021 and 2022, the territory experienced high levels of violence, and 2023 is on track to be even worse, with nearly 200 Palestinians dying by Israeli hands there so far this year. Part of this uptick in violence is due to the weakness of the PA, but the expansion of Israeli settlements and the repeated pogroms carried out by their residents against ordinary Palestinians have added tremendously to the tension.

The violence emanating from the Hamas attacks from the Gaza Strip and the Israeli response adds fuel to the flames. Hamas’s success offers inspiration to already angry Palestinians, showing that they can make Israel pay a price. Even more important, the Israeli response will involve large numbers of Palestinian deaths (around 200 have died so far, according to the Palestinian Health Ministry, and the number will surely climb higher). This new round of violence will inflame Palestinian sentiment, even if Israelis and much of the international community believe that Hamas started the conflict. 

Further frustrating Israel’s response is the problem of hostages. No one knows how many hostages Hamas has taken (and it may seize still more as long as its operatives are active), but Hamas claims it has taken “dozens.” Some of them might be smuggled back to Gaza, whereas others may be held by Palestinian militants in Israel itself. The hostages give Hamas tremendous leverage and represent a nightmare for Israeli leaders. Although Israel’s special operations forces are highly skilled, even small mistakes can lead to the death of many innocents in a raid gone awry. Hostage-taking also results in an ongoing drama—“theater,” as the terrorism expert Brian Jenkins once put it—that keeps the issue on the front pages of newspapers, with terrified hostages, frightened families, and a sympathetic public all demanding action.

The hostages also complicate military operations. At a strategic level, Hamas can threaten the lives of hostages if Israel goes into the Gaza Strip or otherwise threatens Hamas’s hold on power. At a tactical level, the possible presence of Israeli hostages in buildings in the territory or in the hands of fighters makes operations far more difficult, as the risk of killing Israeli civilians or military personnel will be present in every Israeli military operation.

RESTORING DETERRENCE

One of the biggest challenges for Israel will be how to restore deterrence—convincing Hamas and other enemies that they should not attack Israel again because the price they would pay would be too high—and how to do so in a way that is morally acceptable and ensures the support of other countries, especially the United States. Israeli officials will worry that a soft response to the current violence would encourage Hamas to strike again, and they will also be concerned that Hezbollah, Iran, and other foes would see Israel as weak.

The principle of proportionality in international law demands that Israel avoid excessive casualties and otherwise moderate its military response to focus on stopping the threat from Hamas. The logic of deterrence, on the other hand, often involves disproportionate casualties on the Palestinian side. Because Israel is highly sensitive to casualties, an equal exchange of deaths is, in Israeli eyes, a loss for their country. Indeed, Hamas, Hezbollah, and other so-called resistance groups pride themselves on being able to sacrifice more than Israel, believing the Jewish state is a “spider web” that appears strong from a distance but in reality is fragile. By this logic, deterrence requires casualty levels so high that even Hamas is daunted by them.

For deterrence to work in the long term, Hamas needs other options to maintain its political legitimacy, which rests on its opposition to Israel. Deterrence involves only dissuading an adversary from doing a hostile action it might otherwise do. But if the adversary believes that it has no choice, then deterrence is far harder. In theory, Israel could give Hamas more freedom to govern the Gaza Strip and offer it a greater role in Palestinian politics. These concessions might make Hamas even stronger, however, and a wrathful Israel is less likely than ever to be willing to take such chances.

Palestina. E’ una insurrezione popolare, non una guerra. Sergio Cararo. Sinistrainrete. Ottobre 2023

Il 7 ottobre il mondo si è svegliato con la notizia di una vera e propria insurrezione del popolo palestinese ben coordinata che ha completamente colto di sorpresa, demolendolo, il mito degli apparati di sicurezza e di spionaggio israeliani. Ma ha colto di sorpresa anche il resto il mondo, sia quello più ostile che quello più sensibile alla causa palestinese.

Il governo israeliano, i mass media e le cancellerie occidentali – le uniche ancora una volta schierate con Israele – hanno parlato di guerra. Alcuni aspetti dell’azione militare palestinese sono indubbiamente di carattere bellico ma il contesto appare più quello di una insurrezione popolare contro una pluridecennale e brutale occupazione israeliana che di una guerra tra eserciti convenzionali.

Quella tra palestinesi e israeliani non è mai stata una guerra simmetrica. La sproporzione di forze è stata sempre pesantissima, il bilancio delle vittime civili è sempre stato asimmetrico a sfavore dei palestinesi.

Lo stesso atteggiamento della cosiddetta comunità internazionale – troppe volte ritenuta limitata a Stati Uniti ed Unione Europea – non è mai stato equidistante o simmetrico tra le ragioni dei palestinesi e quelle di Israele. Al contrario è ricorso sistematicamente ai “due pesi e due misure”, liquidando tutti gli impegni formali presi nei decenni dalle Nazioni Unite verso il popolo palestinese e sostenendo esclusivamente e ossessivamente la supremazia della sicurezza e dell’espansione coloniale israeliana.

Solo la miopia occidentale e l’arroganza israeliana potevano ritenere che questo arbitrio consolidato e ripetuto per decenni non potesse prima o poi avere ripercussioni.

La Resistenza palestinese ha utilizzato emblematicamente la data del cinquantesima anniversario della guerra del Kippur nel 1973 per scatenare una insurrezione popolare a Gaza, in Cisgiordania e perfino nei Territori Palestinesi occupati dal 1948.

Il 1973 fu uno spartiacque per la storia del mondo capitalista occidentale e dei suoi satelliti. La guerra lampo di alcuni paesi arabi contro Israele prevalse in un prima fase ma fu poi sconfitta grazie al sostegno militare statunitense alle forze armate israeliane. Testimonianze significative, come quella del generale e politico israeliano Moshe Dayan, affermano che Israele era pronta a ricorrere alle sue armi nucleari stoccate nel sito di Dimona per fermare l’offensiva militare di Siria ed Egitto.

Ma di fronte al sostegno occidentale ed europeo a Israele, i paesi arabi produttori di petrolio dichiararono nel 1973 l’embargo sulle esportazioni scatenando la più profonda crisi economica del capitalismo occidentale, dalla quale – sostanzialmente – non si è più sollevato nonostante la controffensiva liberista avviata dagli anni ‘80.

Cinquanta anni dopo, le organizzazioni della Resistenza palestinese, dopo tre decenni di massacri, occupazione militare, oppressione coloniale, bombardamenti devastanti e la cui contabilità di morti farebbe impallidire qualsiasi persona di buon senso, ha dato vita alla terza insurrezione dopo le due Intifade precedenti (fine anni Ottanta e primi anni del Duemila).

Nonostante la pervasività dello spionaggio e dell’intelligence israeliane, nonostante la brutalità dei raid militari contro le comunità palestinesi a Gaza e Cisgiordania, nonostante l’asfissiante controllo militare israeliano, i palestinesi hanno colto di sorpresa tutti gli apparati di Israele con una azione militare coordinata che ne ha demolito il mito dell’invincibilità e l’ossessione della sicurezza.

I palestinesi a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme, nei Territori Occupati dal 1948 e nei campi profughi della diaspora sanno benissimo che la reazione militare israeliana sarà violentissima e, molto probabilmente, l’hanno messo in conto da tempo.

https://assets.contropiano.org/img/2023/10/Palestina-insurrezione.jpg 678w» alt=»» width=»300″ height=»201″ class=»size-medium wp-image-164973 alignright» decoding=»async» loading=»lazy» />

Ma sono anni ormai che i palestinesi gridano al mondo che l’unico modo per esistere e vedersi riconoscere i propri diritti è quello di resistere. Lo hanno pacificamente con il Somud, lo hanno fatto militarmente con al Mukawama, lo hanno fatto con le pietre e con marce pacifiche mitragliate dai cecchini israeliani, pagando un prezzo in vite umane, prigionieri, mutilati che pochi paesi hanno pagato negli anni più recenti.

Adesso il mondo ha subito un brusco risveglio e la comunità internazionale dovrà dire e fare molto di più che dichiarazioni di circostanza e ulteriore complicità con Israele. Ed anche la sinistra italiana ed europea dovrebbero smettere di balbettare banalità e obsoleti luoghi comuni sulla questione palestinese. Tutti avremmo preferito sentir gridare agli insorti “Palestina libera” invece di invocazioni ad Allah, ma se questo sono contesto e forze in campo sarà bene cominciare a fare i conti con la realtà, riconoscendola invece di esorcizzarla o temerla.

Anche perché il mondo è cambiato rapidamente in questi ultimissimi anni. Il doppio standard utilizzato da Usa e Ue per agire nelle relazioni internazionali è diventato insopportabile a gran parte del mondo.

Ragione per cui sulla questione palestinese è tempo di impegni sostanziali nel riconoscimento dei diritti storici e di quelli attuali. L’insurrezione palestinese, seppur con caratteristiche simili ma diverse da quelle di una guerra convenzionale, ha posto il problema sul piatto, anche con il rischio che si scateni un conflitto regionale di dimensioni inedite rispetto a quelli precedenti.

L’insurrezione palestinese ha mandato un avviso di garanzia, sia alle autorità israeliane sia al mondo arabo, a quelle statunitensi ed a quelle europee. Il tempo dell’ipocrisia è definitivamente finito.

Why Hamas Attacked—and Why Israel Was Taken by Surprise.A Conversation With Martin Indyk. FA. October 2023

On the morning of Saturday, October 7, the Palestinian group Hamas carried out a surprise attack on Israel on an unprecedented scale: firing thousands of rockets, infiltrating militants into Israeli territory, and taking an unknown number of hostages. At least 100 Israelis have died, and at least 1,400 have been wounded; Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu declared that his country was “at war.” As Israeli forces responded, around 200 Palestinians were killed and around 1,600 wounded.

For insight into what this means for Israel, the Palestinians, and the region, Foreign Affairs turned to Martin Indyk, the Lowy Distinguished Fellow in U.S.-Middle East Diplomacy at the Council on Foreign Relations. Indyk has twice served as U.S. ambassador to Israel, first from 1995 to 1997 and again from 2000 to 2001. He also served as U.S. President Barack Obama’s special envoy for Israeli-Palestinian negotiations from 2013 to 2014. Earlier, he served as special assistant to President Bill Clinton and senior director for Near East and South Asian affairs at the National Security Council, and as assistant secretary of state for Near Eastern affairs in the U.S. Department of State. Indyk spoke with Executive Editor Justin Vogt on Saturday afternoon. The conversation below has been edited for length and clarity.


A number of observers have remarked that today’s events have had an impact on Israelis similar to the effect the 9/11 attacks had on Americans. But Israelis have endured a great deal of violence in recent decades—as, of course, have Palestinians. What sets this apart?

Stay informed.

In-depth analysis delivered weekly.

This was a total system failure on Israel’s part. The Israelis are accustomed to being able to know exactly what the Palestinians are doing, in detail, from their sophisticated means of spying. They built a very expensive wall between Gaza and the communities on the Israeli side of the border. They had been confident that Hamas was deterred from launching a major attack: they wouldn’t dare, because they would get crushed, because the Palestinians would turn against Hamas for causing another war. And the Israelis believed that Hamas was in a different mode now: focused on a long-term cease-fire in which each side benefited from a live-and-let-live arrangement. Some 19,000 Palestinian workers were going into Israel every day from Gaza, and that was benefiting the economy and was generating tax revenues.

But it turns out that was all a massive deception. And so people are in shock—and, like on 9/11, there is this sense of, “How is it possible that a ragtag band of terrorists could pull this off? How is it possible they could beat the mighty Israeli intelligence community and the mighty Israeli Defense Forces?” And we don’t have good answers yet, but I’m sure part of the reason was hubris—an Israeli belief that sheer force could deter Hamas, and that Israel did not have to address the long-term problems.

Why would Hamas choose to carry out this particular kind of attack right now? What was the strategic logic?

I can only speculate—I’m still in shock, quite honestly. But I think you have to consider the context at this moment. The Arab world is coming to terms with Israel. Saudi Arabia is talking about normalizing relations with Israel. As part of that potential deal, the United States is pressing Israel to make concessions to the Palestinian Authority—Hamas’s enemy. So this was an opportunity for Hamas and its Iranian backers to disrupt the whole process, which I think in retrospect was deeply threatening to both of them. I don’t think that Hamas follows dictation from Iran, but I do think they act in coordination, and they had a common interest in disrupting the progress that was underway and that was gaining a lot of support among Arab populations. The idea was to embarrass those Arab leaders who have made peace with Israel, or who might do so, and to prove that Hamas and Iran are the ones who are able to inflict military defeat on Israel.

There are talks going on regarding a peace deal between Israel and Saudi Arabia, and conversations about U.S. security guarantees for Saudi Arabia. In all likelihood, a primary motivation for Hamas and Iran was a desire to disrupt that deal, because it threatened to isolate them. And this was a very good way to destroy its prospects, at least in the near term. Once the Palestinian issue returns to front and center, and Arabs around the Middle East are watching American weapons in Israeli hands killing large numbers of Palestinians, that will ignite a very strong reaction. And leaders such as [Saudi Arabia’s Crown Prince] Mohammed bin Salman will be very reluctant to stand up to that kind of opposition. Doing so would require him to stand up and tell his people, “This is not the way. My way will get the Palestinians much more than the way of Hamas, which only brings misery.” That kind of courage is, I think, too much to expect of any Arab leader in this kind of crisis.

What options exist now for the Israeli government?

Well, they’ve been through this five times before, and there’s a clear playbook. They mobilize the army, they attack from the air, they inflict damage on Gaza. They try to decapitate the Hamas leadership. And if that doesn’t work in terms of getting Hamas to stop firing rockets and enter into negotiations to release the hostages, then I think we’re looking at a full-scale Israeli invasion of Gaza.

This was a total system failure on Israel’s part.

Now that presents two problems. One is that Israel would be fighting in densely populated areas, and the international outcry against civilian casualties that Israel would inflict with its high-tech American weapons would shift condemnation onto the United States and Israel, and put pressure on Israel to stop. The second problem is, if Israel succeeds in a full-scale war, they then own Gaza, and they have to answer the questions: How are we going to get out? When do we withdraw? Whom do we withdraw in favor of? Remember, the Israelis already withdrew from Gaza in 2005, and they do not want to go back in.

You’ve known and dealt with Netanyahu on a personal and professional level for decades. What course do you expect he’ll choose?

Well, the first thing to know is that he prides himself on his caution when it comes to war. He’s very careful not to launch full-scale wars. So I think his first preference will be to use the air force to try to inflict enough punishment on Hamas that they will agree to a cease-fire and then a negotiation for the return of the hostages. In other words, a return to the status quo ante: that’s what he’ll be trying to get, trying to use the United States, Egypt, and Qatar to influence Hamas to stop. If that doesn’t work, and I doubt it will, then he’s got to look at other options.

Why do you doubt that will work?

Because I fear that Hamas’s intention is to get Israel to retaliate massively and have the conflict escalate: a West Bank uprising, Hezbollah attacks, a revolt in Jerusalem.

So in other words, Hamas will not play along with any Israeli response that aims to restore the status quo ante?

Right. And in terms of escalation, the party to watch most closely is Hezbollah. If the Palestinian death toll rises, Hezbollah will be tempted to join the fray. They have 150,000 rockets they can rain down on Israel’s main cities, and that will lead to an all-out war not just in Gaza but in Lebanon, too. And everybody would get dragged in that situation.

I fear that Hamas’s intention is to get Israel to retaliate massively.

On the other side, Saudi Arabia, Egypt, Jordan, and the countries that signed the Abraham Accords with Israel—the United Arab Emirates and Bahrain—all have an interest in calming things down and getting a cease-fire, because the longer this goes on, the harder it will be for them to maintain their relations with Israel.

Will the current political instability in Israel affect decision-making there?

I think all of that falls by the wayside for now. This is a deep crisis of yet-unknown proportions. And the prime minister is facing a real problem, not only in defending the citizens, but in avoiding blame for what happened. And I don’t see how he can. So he’s got to find a way to redeem himself through the conflict. He cannot afford to have the extremist, far-right members of his coalition dictate what happens, because they will take Israel into a very bad place. So either he has got to exercise control over them, which he hasn’t been able to do yet, or he’s going to have to remove them. [Yair] Lapid, the leader of the opposition, today offered to join a narrow emergency government, which would include Netanyahu’s Likud party, Lapid’s party, and the party of [opposition leader] Benny Gantz. Netanyahu might just take that as a way of sidelining the extremists, showing responsibility, and bringing the country together.

It’s remarkable that this is happening 50 years, almost to the day, after the surprise Arab attack on Israel that launched the 1973 Yom Kippur War.

It is remarkable—and it is no coincidence. Let’s remember that, for the Arabs, the Yom Kippur war was seen as a victory. Egypt and Syria succeeded in taking the Israeli military by surprise, succeeded in crossing the Suez Canal and advancing on the Golan Heights, to the point where many Israelis thought Israel was finished. And so even though, in the end, Israel prevailed in that war, the victory of the first days is still celebrated in the Arab world. So for Hamas to show, 50 years later, that it can do the same thing—that is a huge boost to its standing in the Arab world, and a huge challenge to those countries and leaders that have made place with Israel in the preceding 50 years. And it’s worth pointing out that Hamas is a very different adversary. In 1973, [Egyptian President] Anwar Sadat went to war with Israel in order to make peace with Israel. Hamas has launched a war to destroy Israel—or to do its best to weaken it, to take it down a peg. Hamas doesn’t have any interest in making peace with Israel.

It was hubris that led the Israelis to believe, in 1973, that they were unbeatable, that they were the superpower in the Middle East, that they no longer needed to pay attention to Egyptian and Syrian concerns because they were so powerful. That same hubris has manifested itself again in recent years, even as many people told the Israelis that the situation with the Palestinians was unsustainable. They thought the problem was under control. But now all their assumptions have been blown up, just like they were in 1973. And they’re going to have to come to terms with that.

Ukraine war leads to splits in the Communist movement – back to Lenin! October 2023

War poses everything in stark terms and thus puts all tendencies to the test. The war in Ukraine has led to a series of splits within the communist parties in several countries, as well as provoking divisions among them. In order to go forward it is necessary to return to genuine Leninist policies, on this and on all questions.

As soon as the war in Ukraine started, communist parties around the world took wildly different positions. On the right wing of the movement, several parties adopted a position of more or less open support for the ruling class of their own country and western imperialism. A particularly hypocritical example of this is the position of the Spanish Communist Party (PCE). The PCE is part of a Spanish coalition government with the Socialist Party (PSOE). Spain’s vice-president Yolanda Díaz and Minister Alberto Garzón are party members, and the PCE general secretary is also a secretary of state.

This government is firmly committed to NATO imperialism and has sent weapons and aid to Ukraine. But at the same time, the PCE issues statements demanding the disbandment of NATO and rejecting the war in Ukraine. Even its purely verbal so-called ‘opposition’ to NATO imperialism, is couched in terms of “peace” in the abstract, and defence of “international institutions” and the “rule of international law”.

A similar position was taken by the French Communist Party (PCF), which condemned Russia’s invasion of Ukraine as being “against international law” and in breach of “international treaties”. In the same vein, the PCF upholds “France’s strategic independence”, which is the phrase under which the French ruling class advances its pretence to play an independent role in the world arena. Furthermore, while calling for “peace”, the PCF fully supports western imperialist sanctions on Russia, as if in some way economic sanctions are not also a part of the actual war. Their whole position is one of tail-ending the French bourgeoisie, which in the early days of the war was also calling for “peace negotiations” in an attempt to strike a somewhat independent position from that of US imperialism.

A large number of so-called communist parties, having abandoned Leninism a long time ago, are mesmerised by the idea of ‘peace’ in the abstract and of ‘the international institutions’, chiefly the United Nations.

This is far removed from Lenin’s position towards imperialist war. Lenin insisted that communists are not pacifists as there are wars we consider to be justified: wars of national liberation, against imperialism and revolutionary wars. Since war is the consequence of imperialism, the only consistent way to fight against war is to fight imperialism and the capitalist system from which it arises. Lenin’s slogan during the First World War was not that of “peace,” but rather, “turn the war into a civil war”. That is to say, he called for workers to fight their own ruling class. He explained that the war would eventually end, but that an imperialist ‘peace’ would be just the preparatory period for further wars later on. Therefore, Lenin insisted, the only way to achieve genuine peace was to struggle for socialism.

As for ‘international institutions’, Lenin and the Bolsheviks were scathing in their rejection of the United Nations’ predecessor, the League of Nations, which they described as a “thieves’ kitchen” – that is, a place where different imperialist powers came to share out their loot.

Lenin public domainLenin insisted that communists are not pacifists / Image: public domain

Lenin considered this point so important that he included rejection of the League of Nations in the famous 21 conditions for membership of the Communist International. These were meant to cleanse the new organisation of unworthy opportunist elements, which had joined under the pressure of the rank and file: “without the revolutionary overthrow of capitalism, no international arbitration courts, no talk about a reduction of armaments, no ‘democratic’ reorganisation of the League of Nations will save mankind from new imperialist wars.”

The position of revolutionary Marxists in the First World War (they did not adopt the name ‘communist’ until after the war) was summed up in Karl Liebknecht’s dictum, “the main enemy of the working class is at home”.

This basic internationalist principle has been abandoned by many communist parties around the world, not only in those countries that are part of NATO or support US imperialism, but also on the other side of the war. Thus, the Communist Party of the Russian Federation (CPRF) has also taken a shameful chauvinist position, uncritically defending Putin and the war he is waging in the interest of the Russian ruling class.

Split at the Havana International Meeting of Communist and Workers’ Parties

This abject capitulation led to an open conflict at the 22nd International Meeting of Communist and Workers’ Parties (IMCWP), which took place in Havana, Cuba on 27-29 October 2022. The IMCWP is an annual conference, which was initiated by the Communist Party of Greece (KKE) back in 1998. Communist parties from around the world meet to discuss and the conference usually ends with a joint statement, which is arrived at by consensus, rather than voted upon after a debate.

This time it was different. While a joint statement was produced, it did not deal with the war in Ukraine, which was only mentioned in passing. The statement ended with the words: “United in the struggle against imperialism and capitalism!” But the nearly 60 parties participating were very far from being united on this question.

The meeting was in fact, sharply divided over the Ukraine war. In its intervention, the Russian Communist Workers’ Party (RCWP) argued that Russia’s war was “just and defensive”, and that the task of Communists was to support the Russian bourgeois state as it was fighting “to suppress fascism and assist the national liberation struggle in Ukraine”.

The CPRF, for their part, were correctly accused by the KKE of supporting Putin and his United Russia party, and retorted that, in fact, it was Putin who was supporting them! “It is not that the CPRF ‘has shown solidarity with United Russia and President Putin,’ but [United Russia and President Putin], owing to historical imperatives, have to follow the path the CPRF has persistently called for over three decades.”

Two separate declarations were therefore issued on the war. One was proposed by the Russian Communist Workers’ Party (RCWP), the Communist Party of the Russian Federation (CPRF), and the Communist Party of Ukraine (CPU), which basically repeated the arguments of the Russian ruling class in justification for their intervention in Ukraine; whilst peppering these justifications with a fair dose of “Communist”, “proletarian” and “anti-fascist” seasoning. It contains no attempt to analyse the war aims of the Russian capitalist class, nor does it contain a single word of criticism of Putin and his reactionary capitalist regime. That this was proposed by two parties calling themselves ‘Communist’ from Russia is an utterly scandalous capitulation to social-chauvinism. This statement was signed by 23 IMCWP participant parties, and another 12 organisations not participating in the meeting.

In response, a second counter-declaration was issued, signed by 24 parties participating in the IMCWP, notably including the KKE, plus another four. This starts by describing the war as a capitalist war on both sides. It also denies any claim that the Russian government has anything to do with the anti-fascist struggle or with pro-Soviet sentiment, correctly pointing out that Russia is a capitalist country, something which some, incredibly, do not seem to understand:

“The Russian Federation, being a bourgeois state, is only nominally, in the framework of bourgeois law, the inheritor of the USSR, while it has nothing in common with the USSR either in its base or superstructure. During the 30 years of ‘independence’ of the Russian Federation, financial and monopolistic capital was created; industry, education, and health care sectors were systematically destroyed; unemployment increased, and the gap between the rich and the poor grew, labour rights and democratic freedoms were eliminated.”

This second resolution also correctly criticises “the militarisation of Ukraine, promotion of an extremely reactionary nationalist ideology, incitement of inter-ethnic hatred, creation of nationalist militant groups,” as well as the suppression of labour and political rights. But perhaps the most interesting part of the resolution is point five, which explains how to put an end to the war in Ukraine:

“We are certain that it is only the Ukrainian working class united with the Russian proletariat and supported by the workers of the world that are able to stop the imperialist slaughter. Ukraine’s, Russia’s and world bourgeoisie mobilised and armed workers. It is necessary that these armaments be aimed at the governments of war, to convert the imperialist war between the peoples into a civil war between classes. It is only this that will enable the working class to put an end to imperialism as a source of wars and form bodies of workers’ power, as well as transform the combating states in the interests of working people.”

This is absolutely correct, and is in fact a repetition of the arguments made by Lenin during the First World War.

Tank Image AFU StratCom Wikimedia CommonsThe Russian Communist Workers’ Party (RCWP) argued that Russia’s war was “just and defensive” / Image: AFU StratCom, Wikimedia Commons

It is remarkable, however, that in the Spanish version of the statement, which has also been published on the official IMCWP site, this whole section is missing, being replaced instead by talk of “immediate peace negotiations”, a “ceasefire”, the “investigation of war crimes committed by all sides in the conflict” (without saying who is going to carry out such an investigation), etc. This is at odds with the English version, which correctly explains that it is the task of the working class to fight imperialism and war.

The second, internationalist, resolution then launches a correct and sharp head-on attack on the supporters of the first pro-Russian resolution:

“It is shameful and criminal for communists all over the world to trail behind the governments of bourgeois countries and work for the interests of their national bourgeoisie, to support one or another bloc of bourgeois countries. Our immutable task is to help workers all over the world realise that imperialist wars do not lead to the emancipation of labour, on the contrary, they enslave it even more; that in the imperialist conflict the working class has no allies among the ruling circles, only enemies; that their friends are only the proletarians, no matter what nationality they may be.”

We fully agree with this. There are of course some criticisms that could be made of the internationalist resolution. The analysis of the causes and character of the war in the first part is very schematic and underdeveloped. It says nothing about the role of US imperialism and its provocative eastward expansion of NATO over 30 years; it does not deal with the reactionary Maidan movement of 2014 and the regime that it established, etc. Many of these points are explained in the Havana meeting joint statement, but the internationalist resolution would have been strengthened by including them.

How not to build an international

This is symptomatic of a major problem in the method used to build the IMCWP. The fact that parties that are completely at odds, can sign a joint declaration avoiding the issues in dispute, even if these are central to the world situation, and then produce two additional statements with opposing views, makes a farce of the idea of building an international Communist organisation. In fact, the IMCWP is based on diplomacy, rather than a frank struggle of ideas.

It should also be noted that there were a number of parties that signed the final statement whilst having a purely bourgeois pacifist position, of trust in the “international institutions”, and even some (like the PCE in Spain) that are participants in governments that are part of NATO and are sending weapons and funding to Ukraine. The PCE and other parties sharing a similar position are then allowed to sign the Havana IMCWP joint statement talking about the struggle for socialism, the interests of the world proletariat, and the promotion of Marxism and Leninism, while sitting in a pro-imperialist government.

Even amongst those organisations that signed the second, more principled statement, there is a great deal of hypocrisy. How else can you explain the fact that the South African Communist Party (SACP) – which has had a two-stage policy for decades and has been part of the ANC capitalist government for nearly 30 years (a government which ordered the security forces to open fire on striking miners at Marikana, in defence of the interests of the multinational mine-owners) – is allowed to put its name to a resolution which says “it is shameful and criminal for communists all over the world to trail behind the governments of bourgeois countries and work for the interests of their national bourgeoisie”?

This would have been unthinkable in Lenin’s Communist International. There were many sharp debates while Lenin was alive, and there were occasions in which Lenin himself was in a minority. But he never thought of saying, “well, we can have a joint statement avoiding the polemical questions, and then each faction can have their own separate statements about the issues we disagree with.” Such a procedure makes a mockery of the very idea of a Communist international, which should be based on democratic centralist principles, not on ‘unanimity’ and certainly not on ‘consensus’.

The sharpness of the split that took place at the Havana meeting is the result of the war in Ukraine, which brought crucial issues to the fore, but also of the method of papering over differences used before in these IMCWP meetings.

There were also a number of parties present that do not seem to have signed either statement on the war in Ukraine, including the Communist Party of Britain, the Communist Party of France, the Communist Party of Spain (PCE) and the Communist Party of Cuba, among others.

The dispute at the Havana meeting continued with a series of attacks by participating parties on each other, and public statements by the CPRF, the RCWP, the KKE, etc. The split revealed at the Havana meeting had serious consequences for several of the parties involved.

It led to a split in the RCWP, particularly affecting its youth wing and its trade union front. The party was reduced to a rump. The social-chauvinist position the RCWP leadership adopted towards the war in Ukraine, in direct contradiction to its claim to stand for Marxist and Leninist principles, has destroyed it. Previously, the leadership could claim to stand to the left of the CPRF, but now they have adopted exactly the same chauvinist position. The hypocrisy and double standards of the party leadership in public and towards its own members were finally laid bare.

The split amongst the IMCWP participants has now led to the decision, taken by the KKE, to disband the European Communist Initiative, the European equivalent of the IMCWP, and will probably lead to the dissolution of the IMCWP itself at its forthcoming meeting in Turkey. Lessons must be drawn. An international can only be built on the basis of political clarification and principled agreement, not diplomacy and empty speechifying.

The so-called Anti-imperialist Platform

The split amongst the Communist parties that came to the fore at the Havana meeting had been anticipated by the formation of the so-called World Anti-imperialist Platform (WAP), promoted by the People’s Democracy Party of Korea and with the participation of several of the IMCWP parties. The organisation of the Platform seems to have a lot of resources, and has organised five international meetings in the space of one year with all expenses paid (two in Paris, one in Seoul, one in Belgrade and one in Caracas).

The political line of this Platform is very clearly stated in its founding ‘Paris Declaration’. The main points are: “there is no economic data to justify characterising China or Russia as imperialist”; “that Russia, China and the DPRK are the targets of imperialist aggression because they represent a serious threat to the imperialists’ world hegemony”; “We must challenge the misleading and dangerous practice of certain forces calling themselves ‘communist’ and ‘socialist’ who have declared the war in Ukraine to be an ‘inter imperialist’ conflict in which both sides are equally aggressive and to blame”, and furthermore: “Russia and China in particular are able not only to defend themselves against imperialist bullying but also to help small or economically weak developing countries stand up for themselves and break free of imperialist colonisation and debt slavery.” And as a consequence of this, the Platform argues that the people “should be educated” on these questions and anti-imperialists should stand for the victory of Russia and China: “Victory to the forces of national-liberation and anti-imperialist resistance!”

Maduro Image Nicolás Maduro TwitterThe PSUV has used the state apparatus to launch an attack on the Communist Party of Venezuela / Image: Nicolás Maduro, Twitter

The groups involved in this Platform are a strange amalgam of small Maoist sects, Titoist organisations, a few Italian fringe groupings, etc. The RCWP has typically played cat and mouse with it. While participating in the meetings and publicly defending the main ideas of the Platform, it has refrained from actually signing the declaration in an attempt to cover itself up.

As well as some parties, which can be considered left wing in one way or another, there are also some openly reactionary organisations in the Platform. Among them is Vanguardia Española, a Spanish chauvinist sect, which mixes support for Spanish colonisation of America with references to Marxism. This is not too surprising. Once you abandon a class point of view and adopt a chauvinist position, everything is possible. In fact, one of the triggers for the split in the RCWP was the move of its leadership towards joint work with Limonov’s group, the openly fascist National Bolshevik Party of Russia. Meanwhile, the ‘Communist’ Party (Italy) of Marco Rizzo (also part of the WAP) had an electoral alliance with people who had been linked to the fascist party Forza Nuova, all in the name of “defending national sovereignty”.

Also part of the Platform is the Venezuelan ruling party, the PSUV, which in recent years has carried out a policy contrary to that which led to all the gains and advances of the Bolivarian revolution under Chavez. Its policy has involved privatising factories that were previously nationalised; taking land from the peasants to give it back to the old landowners; jailing trade union activists, and implementing a brutal monetarist package to make the workers pay the price for the capitalist crisis.

More than this, in recent months, the PSUV has used the state apparatus to launch an attack on the Communist Party of Venezuela (PCV), which has reached the point of the Supreme Court removing the PCV’s elected leadership and replacing it with an ad hoc junta made up of non-party members. This was done in order to take over the party’s electoral registration.

In terms of size, the so-called WAP is quite irrelevant. But the positions it advances are more widespread, particularly the idea that somehow China and Russia are anti-imperialist and play a progressive role in world relations.

Are Russia and China anti-imperialist?

Putin Image Kremlin dot ruIn Russia, capitalism was restored after 1991 by the degenerate leadership of the Communist Party of the Soviet Union / Image: Kremlin.ru

We have dealt with these questions in detail elsewhere (see: Imperialism today and the character of Russia and China) but it should be clear to everyone that both countries are capitalist. In Russia, capitalism was restored after 1991 by the degenerate leadership of the Communist Party of the Soviet Union – a bureaucratic layer that was not content with deriving enormous privileges from the state-owned planned economy, and instead wanted to convert itself into the private owners of the means of production. This they did through the wholesale looting of state property in a reactionary process, which led to a brutal collapse of living and cultural standards, throwing the working class back decades.

After a period in which the new capitalist ruling class was completely under the domination of western imperialism (represented by the Yeltsin years), it then gained confidence and started asserting its own interests, first in the regional (Georgia, Ukraine, Caucasus), and then, although to a lesser extent, on the world arena (Syria, Africa).

In China, the process of capitalist restoration took place over a protracted period of time with the ‘Communist’ Party remaining firmly in power. Now, however, it serves completely different property relations: no longer those of the planned economy but of a capitalist economy. Initially, this transition occurred by allowing foreign capital in. But progressively, the Chinese capitalist class started to assert its own separate interests, under the protection of the Chinese state. Increasingly, China has become an imperialist power, although relatively weak compared to US imperialism. It exports capital, which it invests abroad in order to secure sources of energy and raw materials, to protect its trade routes, and to control fields of investment and markets for its exports. In the process, it has come into conflict with US imperialism, the dominant world power. This is the meaning of the trade and military tensions between the two.

However, we need to have a sense of proportion. US imperialism is still the dominant power in the world due to its economic weight and control of the international financial system. Its military might is derived from its economic power and the superior productivity of labour it is capable of achieving. Yes, US imperialism is in relative decline, but only relative decline. Yes, China and to a lesser extent Russia are rising imperialist powers, but they are still much weaker than the US.

The task of communists is not to support one bloc against the other, but rather to defend the interests of the working class everywhere against those of the ruling class, primarily our own ruling class at home.

The split in the Brazilian Communist Party

The most politically interesting fallout of the conflict amongst the different Communist parties on the war in Ukraine is the recent split in the Brazilian Communist Party (PCB), which was triggered directly by the participation of its leadership in these meetings of the World Anti-Imperialist Platform, a move that was against party policy as agreed at its most recent congress.

Within the PCB, a left-wing opposition coalesced against the policy of supporting the interests of the capitalist ruling class of China and Russia. The former general secretary of the PCB, Ivan Pinheiro, was critical of the party’s participation in the WAP meetings and the statements made at them by the party leadership. After being bureaucratically blocked from expressing his critical views internally, he decided to issue a public document in June.

The leadership of the PCB responded to the growing support for the left opposition around Pinheiro, particularly strong amongst the party’s youth, by resorting to bureaucratic measures and expulsions. The left opposition demanded that the party congress, long overdue, should be convened so that all differences could be debated democratically. This was the last thing the clique in the leadership wanted, as it feared it would become a minority if there was a democratic debate in the ranks. Things came to a head at the end of July when the leadership decided to expel five CC members, including Pinheiro himself on spurious grounds.

Rather than becoming demoralised, those expelled mounted a counter-offensive, launching a Manifesto for the Revolutionary Reconstruction of the PCB. As the weeks went by, an increasing number of party, local and regional organisations, cells and organisations of the youth (UJC) declared their support for the left opposition and came out in favour of the PCB RR. As Ivan Pinheiro explains:

XI Putin Image Пресс служба Президента России Wikimedia CommonsWithin the PCB, a left-wing opposition coalesced against the policy of supporting the interests of the capitalist ruling class of China and Russia / Image: Пресс служба Президента России, Wikimedia Commons

“I believe that the outbreak of the war in Ukraine was the fuse that sparked this intense polarisation… it has forced us to debate issues that many of us were reluctant to face up to, including the character of the Chinese state and the relevance of imperialism, the class illusion of so-called multipolarity, the role of communists in the face of a war between national bourgeoisies that turn their proletariats into cannon fodder and which is inseparable from inter-imperialist disputes.”

The right-wing shift of the leadership of the PCB was not limited to international affairs. As Pinheiro’s left opposition pointed out, it went hand in hand with a growing adaptation to bourgeois democracy and the government of Lula, which is one of open class collaboration. The fact that the PCB receives electoral state funding for political parties helps the party bureaucracy gain a degree of independence from the party ranks, thus solidifying its reformist tendencies.

We welcome the struggle waged by the expelled left opposition of the PCB and their efforts of revolutionary reconstruction. We find ourselves in very close agreement with the comrades on key questions of international and national politics, and this sets the ground for fraternal collaboration, as we collaborated a decade ago when Pinheiro was the general secretary of the party. That collaboration extended to the question of Ukraine and the struggle against the Maidan regime in 2014. Of course, there are differences between our organisations – inevitably – but we agree on one fundamental question: we stand firmly on the principle of proletarian class struggle, against any collaboration with the bourgeoisie and any form of ‘stageism’, which puts off the socialist revolution to a far off, distant future.

A rebellion of the youth: back to Lenin!

The dispute over the position towards the war in Ukraine was not the only element in the crisis of the PCB. There is another element, which is common to the crisis in a number of other Communist parties around the world.

In the recent period, and particularly during the pandemic and the lockdown, a layer of youth joined the party, attracted by its communist name. These were fresh, new layers, imbued with a revolutionary spirit, and they soon clashed with the leadership, which was unable to offer them any inspiration or political education. Some of the new youth they recruited became quite popular on different social media platforms for their defence of the ideas of communism. Their prominence was seen as a threat to the party leadership, and so they became the first ones to be hit by bureaucratic measures. The use of administrative measures to solve political debates is a clear sign of a leadership which has no trust in its own ideas.

This phenomenon – the influx of youth into communist parties, attracted by the name and symbols, their rejection of the reformist policies and parliamentary cretinism of the leadership and of the use of bureaucratic measures to suppress them – is quite widespread. Rizzo’s ‘Communist’ Party in Italy lost its youth organisation. The Connolly Youth Movement (CYM) broke with the Communist Party of Ireland at the beginning of 2021, after a series of splits and conflicts. In Spain the PCE has just expelled the whole leadership of its youth movement, UJCE, and appointed an ad hoc leadership, after the youth developed a strong criticism of the reformism of the PCE leadership and were silenced at the last party congress. The list goes on.

Lenin speech Image public domainA cursory examination of Stalin’s policies would reveal that they represent a fundamental break with Lenin and Leninism / Image: public domain

In several of these cases, the new, young, radical elements have gravitated towards the figure of Stalin as a reaction against the reformism of the leadership of the party. This is understandable, but wrong.

A cursory examination of Stalin’s policies would reveal that they represent a fundamental break with Lenin and Leninism. Where Lenin firmly defended a strategy of no confidence in bourgeois liberals and the need for the working class to take power, Stalin brought back the Menshevik ‘two stage’ theory of alliance with the ‘progressive bourgeoisie’, which led to disaster in China, Spain and elsewhere. Where Lenin opposed “international institutions” like the League of Nations, which he described as a “thieves’ kitchen”, Stalin brought the USSR into the League of Nations in 1934. Where Lenin advocated proletarian internationalism, Stalin courted the different imperialist powers, and then disbanded the Communist International in May 1943 as a gesture of goodwill.

On the question of methods of party democracy and democratic centralism, we have to say that in many cases, these youth have been on the receiving end of bureaucratic methods, which are typical of Stalinism and have nothing to do with the clean banner of Leninist democratic centralism. While Lenin was alive, debate thrived within the Communist International and the Russian party on many different questions: the Brest-Litovsk negotiations, the trade union question, the New Economic Policy, the United Front, participation in parliament and trade unions, etc. That made the party and the International stronger, not the opposite.

We ask those comrades who are members of communist parties, and who have rightly come into opposition, to examine these questions carefully as they are not of merely historical interest. On the contrary, they are extremely relevant to the discussions taking place today among Communist parties about imperialism, the character of Russia and China, the role of the BRICS, and the idea of a so-called “multipolar” world.

Of course, some will say: “but you are Trotskyists!” And so we are. We defend the ideas and traditions of Trotsky, but we think these are not different from the ideas and traditions of Lenin. On all the aforementioned questions (working-class independence, opposing collaboration with the bourgeoisie, proletarian internationalism, and a democratic centralist form of organisation) there was no difference between Lenin and Trotsky after 1917.

It is true that many who call themselves ‘Trotskyists’ have in fact capitulated to the ruling class, and in relation to the war in Ukraine have adopted a treacherous pro-imperialist position. This is the case for instance with the so-called Fourth International, whose scandalous slogan is “sanctions on Russia, weapons for Ukraine”. They are de facto on the same side as NATO imperialism, i.e. their own ruling class, in this war.

This has nothing to do with the genuine ideas of Trotsky and is the result of having abandoned a class point of view, in the same way that those ‘Communist’ parties which support their own imperialist ruling class have nothing to do with Lenin or Leninism, regardless of how they claim to define themselves.

We are firmly convinced that on all of these questions, which are crucial for Communists today, it is necessary to break with reformism, chauvinism and adopt a principled working-class point of view. That is, it is necessary to go back to Lenin. In this way, the basis can be laid for the rebuilding of a genuine and revolutionary Communist international which can only be created through political struggle and not through diplomatic combinations.

Join us

Así entró Julio Paíz a Hielo Ardiente y a la consagración musical. Entrevista a Willy Chávez por Fredy Campos. 2010

El reciente fallecimiento del talentoso cantante, me dio pie para ir en busca de esta entrevista que le hice en el 2010 a Willy Chávez, el gran mástil del célebre grupo musical bautizado como «HIELO ARDIENTE, toda una institución del período conocido en El Salvador como LAS BUENAS EPOCAS.

Aquí sus impresiones:

Entrevista: Fredy Campos

-¿Dónde y cuándo naciste?

-Nací en San Miguel el 30 de diciembre de 1948

-¿No te importa si pongo la fecha completa?

-No, a mí eso no me importa, la mayoría de edad te da mayor imagen de experiencia.

-¿Tuviste una niñez feliz?

-Sí, fueron días felices en los que experimenté cosas nuevas cada día, especialmente con todo lo relacionado con la música. A pesar de que mi mamá se me murió cuando yo tenía 6 años y me crié con mis abuelos.

-¿En qué etapa de tu vida descubrís el talento por la música?

-Fijate que yo estudié en una escuela de orientación vocacional. Había sólo tres escuelas con el mismo sistema de enseñanza en todo El Salvador: una en Santa Ana, otra en San Salvador y la de San Miguel, que se llamaba Escuela Renovada Ofelia Herrera.

Cuando yo estaba en segundo grado hicieron una estudio para medir habilidades y aptitudes; entonces me dijeron «Tú traes para músico.» El sistema regular de educación era por la mañana, por la tarde era un sistema de clubes, en donde entre otros, había uno de música, en este club se originó el primer grupito en el que yo participé que se llamó Los Boys Dancers tocábamos con guitarras de madera y con instrumentos de la banda de guerra, allí yo empecé tocando la batería, pero me decepcioné cuando supe que el precio de una batería era el mismo que el de la casa donde vivíamos nosotros…un poco fuera de alcance.

Pasó el tiempo y para 1964 yo ya estaba bien metido en la música y ya había aparecido en San Miguel Los Thunders, un grupo profesional formado por gente de posibilidades.

-¿Te acordás de quiénes eran?

-Sí, el dueño era un señor que tenía una ferretería de nombre Mauricio Nostas, y los músicos originales eran, en la guitarra líder, Mauricio Nostas, la guitarra de acompañamiento estaba Alcides Cardona, en el bajo tocaba Mauricio Aparicio, la batería la tocaba Carlos Díaz, quien ahorita vive en Canadá, y el cantante se llamaba, Nelson López, éste ahorita es un coronel retirado del ejército.

Por esos días también habían aparecido los New Comets de Santa Ana, ahí cantaba un chavo que creo que le decían el gordo Arrazola, estos se convirtieron después en los TNT. En San Salvador había dos grupos, que eran Los Super Twisters y Los Satélites, en donde cantaba Meme Nuila, quien posteriormente vino a tocar la guitarra con Hielo Ardiente me entiendes? Se hizo guitarrista, era muy bueno el chavo. Tocaba la batería uno que le decían el Piojo de Oro, que después se hizo abogado.

-¿Cuántos instrumentos tocás?

-Toco todo lo que es persusión: batería, timbales, congas, luego a los 14 años, como vi que la batería estaba fuera de mi alcance por la economía, aprendí a tocar guitarra, me enseñó un chavo que era vecino mío. Ya a los 4 o 5 meses estaba tocando guitarra, me dijo que no necesitábamos dos guitarras y le quité la primera y la segunda cuerda a la mía y empecé a tocar el bajo ja, ja, ja.

Tocábamos solo rolitas de Los Beatles, Los Ventura, de Jerry y los Pacemakers, casi toda la onda de ese tiempo. Pero hasta aquí todo era por hobby, por darle rienda suelta a tus habilidades pues. Fijate que me entró un vicio de guitarra, tocaba 24 horas al día, era un vicio terrible. Toqué como 7 meses la guitarra y luego me empecé a especializar en el bajo. Después me quedé solo porque a mi amigo se lo llevaron los Holly Boys para San Salvador.

-Qué mala onda…¿Y quién era este chamaco, vos?

-Se llamaba Ricardo Yescas, se hizo después locutor de radio. Después me mudé para La Unión invitado por un grupito que había salido allí. Entonces me sacaron un trato: me dieron tres discos para que me los aprendiera y luego yo se los enseñara a ellos, madre, dije yo, no sabía que yo ya sabía tocar música. Pero todos estos chavos no esperaban futuro con la música, se fueron para la Universidad en San Salvador y yo me regresé para San Miguel. Uno de ellos se llama José Roberto Maldonado, es una eminencia en cardiología en San Salvador.

-¿Cómo se llamaba ese grupito?

-Los Port Boys, Los Chicos del Puerto. De allí me regresé a San Miguel y me invitaron a participar en un grupito al que se llamaba Los Goblins.

-¿De dónde sacaban esos nombres, vos?

-Palabritas que se oían en inglés en ese entonces vos. Pues aquí me sucedió lo mismo que con mi dúo, a Juan González, le ofrecieron más dinero Los Vikings y se fue con ellos, Caballero se fue para San Salvador a estudiar medicina y me volví a quedar solo. En eso aparece un chavo que me dice: «Guillermo, quiero que toqués en mi grupo» (se llamaba Los Kings). Como el grupo no tenía categoría yo no quería tocar con ellos y se la quiese poner difícil, le dije:

-Mirá, si me comprás un bajo Precission 20, que era lo mejor en bajo, porque toda la mara en esos días tocaban con bajeradas Teisco, solo los Super Twisters y los Satélites se daban el lujo en El Salvador de tocar con Fender, los que distribuía Mario Prossida en San Salvador. Yo sabía que no me lo iba a comprar. Pues a los dos días va a pareciendo el chavo y me dice «Guillermo, vámonos para San Salvador, voy a comprarte el Precission ahorita». Aquí ya no me pude echar atrás y empecé a tocar con el grupito; pero hubo problemas con los papás que no les daban permiso y nos desintegramos.

De ahí ya yo más maduro empecé a formar un grupo serio, recluté a mis músicos, los fui haciendo uno por uno y formamos Los King Masters, ensayábamos como 14 horas al día hasta que nos salían bien las canciones. Así nos fuimos haciendo de un nombre porque yo siempre quise formar un grupo de categoría, nos invitan a amenizar una fiesta de UGAASAL, y aquí tengo mi primer contacto con Tito Carías.

-¿Cómo entra Julio Paiz al grupo?

-Tito nos urgió que había que grabar otro disco ya que Cuando Era un Jovencito había pegado. «Mínimo en dos semanas necesitamos un 45» nos dijo. Nos fuimos para San Salvador Pablo, Armando, el Chele Lila y yo. Había un chavo que tocaba armonía, pero casi no la hacía, como era el dueño de los instrumentos, lo teníamos ahí. Así que fuimos, y grabamos Mientes o Sientes, y El Bardo. Entonces decía Jorge Velado de DICESA, quien era el segundo jefe después de don Toño Hütt, que quería darnos materiales para que yo los trabajara, a lo que yo dije que de veras no quería material de ellos, entonces decía Jorge: «no, no, no ahí dejen a Willy, que agarre lo que él quiera, porque sabe lo que está haciendo». Entonces grabamos El Bardo. y Mientes o Sientes. Willie Maldonado estaba en la consola de grabación porque en este aspecto Tito no tenía la experiencia de Willie, y me dice:

-Mirá, tu feeling para el bajo, papá, súper bien, tu proyección musical, súper bien; todos sabemos que vos sos el cerebro de este grupo. Pero sólo tenés un problema: aunque cantás bien, fijate que se te oye mal, para qué te voy a dar paja, tu voz no colabora papá. Buscate un chavo que tenga una buena voz y con tus canciones va a sonar.

Dicho y hecho. Había un grupo en San Miguel que se llamaba Los J3T2, porque los componían tres con nombres que empezaban con J y dos que empezaban con T.

-Menos mal que no había otros dos que comenzaran con P, porque hubiera oído mal veá vos.

-¡Ja, ja, ja, de plano! Pues un día pasé por donde estaban ensayando ellos y me paré a oirlos desde afuera. Al rato me asomo por la puerta y le digo al cantante:

-Mirá vení, ¿Cómo te llamás?

-Me llamo Julio Paiz.

-¿Por casualidad ya sabés quién soy yo?

-Sí, vos sos Guillermo Chávez.

-¿No quisieras cantar en mi grupo?

-No, vos, fijate que yo tengo compromiso con estos chavos y no los puedo dejar botados.

-Pero mirá, aquí no vas a ningún lado, aquí lo más lejos que vas a llegar es Moncagua, y conmigo vas a hallar futuro. es más, podés grabar tu primer disco ya. Pensalo y si decís

sí, llegate a la casa mañana y te enseño las dos canciones que vamos a grabar, ya pasado mañana nos vamos para DICESA. Al siguiente día llegó a la casa, agarré la guitarra y le enseñé El Bardo y la primera parte de Mientes o Sientes. Nos vamos para San Salvador, borramos las partes que yo había grabado y grabó Julio. Willie se me queda viendo y me dice:

-Mirá, vení para acá, este es el cantante que necesitabas hombre, oí qué bonita se oye la canción con éste, tiene como voz de niño pero se le oye bien, problema resuelto.

Todos los arreglos son míos, los otros chavos eran buenos músicos y me seguían la onda. Además de la parte musical, yo ponía uniformes, asignaba sueldos y otras cosas propias de este trabajo. Pero se vino un problema que había pasado dos veces: el dueño de los instrumentos, Omar Rivera, quería agarrar el 70 por ciento del dinero que ganábamos.

Estamos hablando de por ahí por 1968, yo ganaba 12 colones la hora y a los otros les pagaba 3. Más tarde le dije que les aumentara el sueldo a mis músicos y me respondió: «No, vos pedime lo que querás ganar, pero estos babosos no saben ni m… solo hacen lo que vos les decís», a lo que le respondí: «Sí, pero yo solo no puedo hacer nada sin ellos, son tan importantes como yo en el grupo».

Me dijo que definitivamente no les iba a aumentar a los muchachos y le repliqué que se metiera sus instrumentos por donde le cupieran, se los devolví y se quedó botado, pues la verdad, yo era el capitán de aquel barco y lo iba a llevar por la mejor ruta. A Omar lo dejamos tirado con sus instrumentos por bayunco. De ahí me fui a hablar con el Ing. Carlos Prieto, le planteé la situación y me preguntó: «¿Cuánto necesitás», le respondí: «Diez mil colones, 7 para equipo y 3 para transporte y misceláneos».

De inmediato me tiró un cheque y me dice «No te preocupés, pagámelo como mejor te convenga.» Me fui a a garrar el equipo más bravo que había en el país, el Fender, un revere, piano Yamaha, timbales lo último, catorce micrófonos y una Coaster que era lo único en El Salvador, pues nosotros viajábamos bastante. Teníamos nuestra propia casa, secretaria, contador, motoristas, roadies, trajes elegantes, todo profesional me entendés.

-¿De vos venían todas esas ideas?

-Modestia a parte sí papá, es que yo quería hacer un proyecto tipo Led Zepelin y esos súper grupos internacionales, aunque guardando su distancia me entendés, porque esos babosos tienen aviones.

-¿Cuánto ganabas ya aquí?

Ya aquí yo ganaba mis quince pesos por hora y mis músicos, doce.

-¿En este punto ya son Hielo Ardiente?

-Sí, ya habíamos ido a DICESA a cambiarnos de nombre porque el San Miguel había sido el nombre firmado por Omar y no quería líos legales. Primero le cambié la cantidad que nos daban como regalías, que eran 6 centavos por disco, te firmo si nos das 35 centavos por disco y le cambiamos el nombre le dije a Jorge Velado y éste aceptó.

-¿De dónde sale lo de «Hielo Ardiente»?

-Salióde un mini concurso que hicimos entre los miembros en el que cada uno escribió un nombre en un papelito, yo escribí Hielo y alguien más escribió Ardiente y ese adoptamos.

-Uno de los éxitos más grandes de Hielo Ardiente es Señora, todo mundo sabe que esa es una creación de Serrat ¿Cómo surge la versión exitosa de ustedes?

-Fijate que un amigo mío que estudiaba en México, creo que en el Instituto Politécnico de Monterrey, llegó a San Miguel y me dice: «Fijate que a México llegó JM Serrat y presentó esta canción mirá, agarró la guitarra, me la tarareó, y me dio la letra de Señora. Vine yo y como nunca la había escuchado con Serrat, le saqué los acordes y vámonos papá, éxito rotundo.

-Me estás habalndo sólo de fusilamientos, ¿Tenían canciones originales?

-Claro que sí: Sha la la I love you, Mientes o Sientes, Eres como yo, etc. estás hablando con el Rubén Darío del movimiento papá, ja, ja, ja!

-¿Cuál fue la primera canción que grabaron como Hielo Ardiente?

-Fue Habladurías.

-¿Y de dónde salen con un famosos de la música clásica,vos? La rola «Tristeza» es el célebre Etude 3 de Chopin.

-Locuras con las que a veces yo salía. Eso viene de arriba vos, no sé ni cómo hacía, solo me ponía a preparar música hasta las dos tres de la mañana, al siguiente día a ensayar, luego a grabar o al camino. Sólo así se puede triunfar papá. Fijate que los Beatles, que eran los Beatles, trabajaban hasta doce horas por perfeccionar una o dos canciones.

-Contame la historia de «Julia.»

-Esa canción se la oí en Panamá a un señor que cantaba con un acordeón a la salida de un restaurante adonde habíamos ido a cenar con Tito Carías. Lo oí una vez, y le dí un balboa para que la tocara de nuevo; le pagué para que la tocara una diez veces más hasta que se me pegó. Cuando llegué a El Salvador, le hice los arreglos correspondientes y el resto es historia.

-¿Cómo era tu relación con el grupo, eras tranquilo o eras un dictador con los otros chavos, eras su amigo o eras «el jefe»?

-Eramos amigos, pero me respetaban como el líder, a veces me odiaban porque los presionaba pero eso nos llevó a figurar me entendés. Y en realidad la reputación llegó al punto de adquirir el respeto hasta de otros músicos de otras bandas famosas en ES.

-¿Cómo se separa el Hielo Ardiente?

-Mirá, todo tiene un ciclo vos los sabés bien, ya era suficiente, porque esa vida también cansa. En la última gira por Estados Unidos en 1974, porque también fuimos el primer grupo que hizo giras internacionales, después de la Flores, estando en San Francisco reuní a los muchachos y les dije: señores, tengo que darles la noticia que yo ya no voy a seguir con el grupo. No crean que los abandono, Uds. ya han crecido como músicos y es tiempo ya de que sigamos con nuestros planes de vida, al menos yo así lo hago. Si Uds. quieren seguir es su decisión, pero yo aquí me quedo. Por toda respuesta me dijeron los chavos que sin mí no eran nada y cada quién siguió su vida.

-¿Por qué crees vos que ya no surgen músicos de pegue en ES después de ustedes, los de LBE?

-Mirá, no solo en El Salvador vos. Las Buenas Epocas fueron el resultado de un boom mundial ves? Y se dio en los sesenta y setenta y ya no se volvió a dar en todo el mundo. Ya no hubo otros Beatles, ya no hubo otros Rolling Stones, ya no hubo otro Santana. Vos decís en tu página que viste en el documental a los músicos de LBE ya alcanzados por al edad y siguen cantando, pero también es el caso de Los Rolling Stones, Ringo, Paul MacArtney, etc. No es que en El Salvador ya no nazcan músicos con talento, es que en el mundo entero ya no se dan las condiciones de las Buenas Epocas.

-Hey ¿Puedo decir que yo te aconsejé que dijeras eso Willy? Ese análisis está fenómeno brother.

-¡Ah ja, ja, ja, ja, sí hombre, dale! 

-¿A qué te dedicás ahora?

-Sigo en la música, es más en todos estos años he organizado grupos musicales en Los Angeles con músicos salvadoreños, mexicanos, nicaragüenses, etc. Hoy día trabajo en clubes haciendo un dúo con mi esposa quien tambiénes artista.

-Finalmente ¿Tenés algún mensaje para LBE?

Sí, quiero en primer lugar felicitarte por lo que has hecho para los músicos de nuestra generación al crear esta página. De plano que la necesitábamos, Fredy. En segundo lugar quiero disculparme con los productores del documental de LBE por no haber podido darles la entrevista, aunque me invitaron lo cual les agradezco con mucha humildad, sepan que yo respeto mucho lo que están haciendo y les auguro un gran éxito; sin embargo yo soy un poco camera shy y no hubiera querido hacer un mal papel, o decir algo inexacto o inapropiado por estar pensando en cómo me voy a ver en la película. Mis sinceras disculpas por mi malacrianza. Un saludo a toda la mara de LBE y a vos gracias por tu paciencia de santo Fredy.

-No hay problema brother, de todas maneras yo sólo te hacía las preguntas, dejaba la grabadora y me dormía hasta la siguiente pregunta. Ja, ja, ja, ja!

Y aquí terminó la entrevista con Willy Chávez, un músico slvadoreño muy «sui generis.» En el transcurso de una conversación lo mismo cuenta un chiste de Pepito, que habla del último libro de Isabel Allende. En su período de éxito en El Salvador lo mismo grabó una canción escuchada a un hombre en una calle cualquiera de Panamá, que una fundamentada en un Etude de Chopin. Como Los Beatles, trabajó 24-7 por subir a la montaña, como Los Beatles, escogió San Francisco, California, para terminar las giras e iniciar un nuevo ciclo de vida.

Willy Chávez, un hombre nacido para dejar una huella profunda de su paso por la vida, un salvadoreño que contribuyó en gran parte a dejarle a El Salvador el legado de Las Buenas Epocas, y ni siquiera lo sabe.

Los cuatro líderes que con sus caprichos están poniendo al mundo patas para arriba. Thomas L. Friedman. Octubre de 2023

WASHINGTON.- Desde que supe que en 1947 Walter Lippmann popularizó el término “Guerra Fría” para definir el conflicto emergente entre la Unión Soviética y Estados Unidos, pensé que sería genial poder nombrar una época histórica. Ahora que la posguerra fría ha expirado, la pos-posguerra fría en la que hemos entrado está pidiendo a gritos un nombre. Así que aquí va: es la era de “Eso no estaba en el plan”.

Lo sé, no suena muy elegante, y no espero que se impregne, pero es sorprendentemente preciso. Me topé con ello en un reciente viaje a Ucrania. Estaba hablando con una madre ucraniana que explicaba que desde que comenzó la guerra, su vida social se redujo a comidas ocasionales con amigos, fiestas de cumpleaños de niños “y funerales”. Después de escribir su cita en mi columna, agregué mi propio comentario: “Eso no estaba en el plan”. Antes del año pasado, los jóvenes ucranianos disfrutaban de un acceso más fácil a la Unión Europea (UE), emprendían startups tecnológicas, pensaban en dónde ir a la universidad y se preguntaban si debían vacacionar en Italia o España. Y luego, como un meteorito, llega esta invasión rusa que trastornó sus vidas de la noche a la mañana.

Ucrania no está sola. Los planes de muchas personas y de muchos países han quedado completamente trastornados últimamente. Hemos entrado en una era pos-posguerra fría que promete poco de la prosperidad, previsibilidad y nuevas posibilidades de la época de posguerra fría de los últimos 30 años desde la caída del Muro de Berlín.

Policías de Israel usan cañones de agua para dispersar a manifestantes que bloquean una autopista durante una protesta contra los planes del gobierno del primer ministro Benjamin Netanyahu de reformar el sistema judicial, el miércoles 5 de julio de 2023, en Tel Aviv. (AP Foto/Oded Balilty)
Policías de Israel usan cañones de agua para dispersar a manifestantes que bloquean una autopista durante una protesta contra los planes del gobierno del primer ministro Benjamin Netanyahu de reformar el sistema judicial, el miércoles 5 de julio de 2023, en Tel Aviv. (AP Foto/Oded Balilty)

Hay muchas razones para esto, pero ninguna es más importante que el trabajo de cuatro líderes clave que tienen una cosa en común: cada uno de ellos cree que su liderazgo es indispensable y está dispuesto a llegar a extremos para mantenerse en el poder todo el tiempo que pueda.

Estoy hablando de Vladimir Putin, Xi Jinping, Donald Trump y Benjamin Netanyahu. Los cuatro, cada uno a su manera, han creado enormes trastornos dentro y fuera de sus países basados en su propio interés personal, en lugar de en el interés de sus pueblos, y han hecho que sea mucho más difícil para sus naciones funcionar con normalidad en el presente y planificar sabiamente para el futuro.

Tomemos a Putin. Comenzó como algo así como un reformista que estabilizó la Rusia post-Yeltsin y supervisó un auge económico gracias al aumento de los precios del petróleo.

Pero luego los ingresos por petróleo comenzaron a caer, y como describe el experto en Rusia Leon Aron en su próximo libro, Riding the Tiger: Vladimir Putin’s Russia and the Uses of War, Putin dio un giro importante al comienzo de su tercer mandato en 2012, después de que estallaran las mayores protestas anti-Putin de su régimen en 100 ciudades rusas y su economía se estancara. La solución de Putin: “Cambiar la base de legitimidad de su régimen de progreso económico a patriotismo militarizado”, me dijo Aron, y culpar de todo lo malo a Occidente y la expansión de la OTAN.

Soldados ucranianos se preparan para disparar contra las posiciones rusas desde un obús M777 suministrado por Estados Unidos en la región de Kharkiv, Ucrania, el 14 de julio de 2022.
Soldados ucranianos se preparan para disparar contra las posiciones rusas desde un obús M777 suministrado por Estados Unidos en la región de Kharkiv, Ucrania, el 14 de julio de 2022. – Créditos: @Evgeniy Maloletka

En el proceso, Putin convirtió a Rusia en una fortaleza sitiada, que, en su mente y en la propaganda, solo Putin es capaz de defender, y por lo tanto requiere que él permanezca en el poder de por vida. Pasó de ser el distribuidor de ingresos de Rusia a ser el distribuidor de dignidad, ganada de todas las formas y lugares incorrectos. Su invasión de Ucrania para restaurar una Rusia mítica era inevitable.

Los eventos en China también se han desarrollado de manera bastante inesperada últimamente. Después de abrirse gradualmente y relajar los controles internos desde 1978, lo que la hizo más predecible, estable y próspera que en cualquier otro momento de su historia moderna, China experimentó un giro de casi 180 grados bajo el presidente Xi: él eliminó los límites de mandato, respetados por sus predecesores para evitar la aparición de otro Mao, y se convirtió en presidente indefinidamente. Xi aparentemente creía que el Partido Comunista Chino estaba perdiendo el control, lo que llevaba a la corrupción generalizada, por lo que reafirmó su poder en todos los niveles de la sociedad y los negocios, mientras eliminaba a cualquier rival.

No cabe duda de que observar los esfuerzos de Donald Trump por revertir nuestra elección de 2020 al inspirar a una turba a saquear el Capitolio el 6 de enero de 2021, y luego ver a este mismo hombre convertirse en el principal candidato republicano a la presidencia en 2024, hace que nuestra próxima elección sea una de las más importantes de nuestra historia, para que no sea la última. Eso no estaba en el plan.

Insurrectos leales al presidente Donald Trump asaltan el Capitolio, Washington, 6 de enero de 2021.
Insurrectos leales al presidente Donald Trump asaltan el Capitolio, Washington, 6 de enero de 2021. – Créditos: @John Minchillo

En la medida en que hay un denominador común que une a estos cuatro líderes, es que todos han violado las reglas de su juego en casa, y en el caso de Putin, han iniciado una guerra en el extranjero, por una razón demasiado familiar: mantenerse en el poder. Y sus sistemas locales: la élite rusa, el Partido Comunista Chino, el electorado israelí y el Partido Republicano, no han podido frenarlos de manera efectiva o completa.

Pero también hay diferencias importantes entre los cuatro. Netanyahu y Trump están enfrentando resistencia en sus democracias, donde los votantes pueden llegar a destituir o detener a ambos, y ninguno de ellos ha iniciado una guerra. Xi es un autócrata, pero tiene una agenda para mejorar la vida de su pueblo y un plan para dominar las principales industrias del siglo XXI, desde la biotecnología hasta la inteligencia artificial. Pero su gobierno cada vez más autoritario puede ser precisamente lo que impide que China llegue allí, principalmente porque está generando una fuga de cerebros.

Putin no es más que un jefe de la mafia disfrazado de presidente. Será recordado por transformar a Rusia de una potencia científica, que puso en órbita el primer satélite en 1957, en un país que no puede fabricar un automóvil, un reloj o una tostadora que alguien fuera de Rusia compraría. Putin tuvo que marcar el 1-800-CoreadelNorte para buscar ayuda para su ejército devastado en Ucrania.

El presidente ruso Vladimir Putin se reúne con el líder norcoreano Kim Jong-un en el Cosmódromo de Vostochny.
El presidente ruso Vladimir Putin se reúne con el líder norcoreano Kim Jong-un en el Cosmódromo de Vostochny. – Créditos: @-

Trump, en última instancia, es el más peligroso de los cuatro, por una simple razón: cuando el mundo se vuelve tan caótico y países clave se desvían del plan, el resto del mundo depende de Estados Unidos para liderar en la contención de los problemas y oponerse a los alborotadores.

Pero Trump prefiere ignorar los problemas y ha elogiado a los alborotadores, incluido Putin. Es lo que hace que la perspectiva de otra presidencia de Trump sea tan aterradora, tan temeraria y tan incomprensible.

Porque Estados Unidos sigue siendo el poste central que sostiene el mundo. No siempre lo hacemos con sabiduría, pero si dejáramos de hacerlo por completo, cuidado. Dado lo que ya está sucediendo en estos otros tres países importantes, si nos tambaleamos, dará lugar a un mundo en el que nadie podrá hacer ningún plan.

Hay un nombre fácil para eso: la Era del Desorden.

Prólogo a El infinito en un junco. La invención de los libros en el mundo antiguo. Irene Vallejo.

Misteriosos grupos de hombres a caballo recorren los caminos de Grecia. Los campesinos los observan con desconfianza desde sus tierras o desde las puertas de sus cabañas. La experiencia les ha enseñado que solo viaja la gente peligrosa: soldados, mercenarios y traficantes de esclavos. Arrugan la frente y gruñen hasta que los ven hundirse otra vez en el horizonte. No les gustan los forasteros armados.

Los jinetes cabalgan sin fijarse en los aldeanos. Durante meses han escalado montañas, han franqueado desfiladeros, han cruzado valles, han vadeado ríos, han navegado de isla en isla. Sus músculos y su resistencia se han endurecido desde que les encargaron esta extraña misión. Para cumplir su tarea deben aventurarse por los violentos territorios de un mundo en guerra casi constante. Son cazadores en busca de presas de un tipo muy especial. Presas silenciosas, astutas, que no dejan rastro ni huella.

Si estos inquietantes emisarios se sentasen en la taberna de algún puerto, a beber vino, comer pulpo asado, hablar y emborracharse con desconocidos (nunca lo hacen por prudencia), podrían contar grandes historias de viajes. Se han adentrado en tierras azotadas por la peste. Han atravesado comarcas asoladas por incendios, han contemplado la ceniza caliente de la destrucción y la brutalidad de rebeldes y mercenarios en pie de guerra. Como todavía no existen mapas de regiones extensas, se han perdido y han caminado sin rumbo durante días enteros bajo la furia del sol o las tormentas. Han tenido que beber aguas repugnantes que les han causado diarreas monstruosas.

Siempre que llueve, los carros y las mulas se atascan en los charcos; entre gritos y juramentos han tirado de ellos hasta caer de rodillas y besar el barro. Cuando la noche les sorprende lejos de cobijo alguno, solo su capa les protege de los escorpiones. Han conocido el tormento enloquecedor de los piojos y el miedo constante a los bandoleros que infestan los caminos. Muchas veces, cabalgando por inmensas soledades, se les hiela la sangre al imaginar un grupo de bandidos esperándolos, conteniendo el aliento, escondidos en algún recodo del camino para caer sobre ellos, asesinarlos a sangre fría, robarles la bolsa y abandonar sus cadáveres calientes entre los arbustos.

Es lógico que tengan miedo. El rey de Egipto les ha confiado grandes sumas de dinero antes de enviarlos a cumplir sus órdenes a la otra orilla del mar. En aquel tiempo, solo unas décadas después de la muerte de Alejandro, viajar llevando una gran fortuna era muy arriesgado, casi suicida. Y, aunque los puñales de los ladrones, las enfermedades contagiosas y los naufragios amenazan con hacer fracasar una misión tan cara, el faraón insiste en enviar a sus agentes desde el país del Nilo, cruzando fronteras y grandes distancias, en todas las direcciones.

Desea apasionadamente, con impaciencia y dolorosa sed de posesión, esas presas que sus cazadores secretos rastrean para él, haciendo frente a peligros ignotos.

Los campesinos que se sientan a fisgonear a la puerta de sus cabañas, los mercenarios y los bandidos habrían abierto los ojos con asombro y la boca con incredulidad si hubieran sabido qué perseguían los jinetes extranjeros.

Libros, buscaban libros.

Era el secreto mejor guardado de la corte egipcia. El Señor de las Dos Tierras, uno de los hombres más poderosos del momento, daría la vida (la de otros, claro; siempre es así con los reyes) por conseguir todos los libros del mundo para su Gran Biblioteca de Alejandría. Perseguía el sueño de una biblioteca absoluta y perfecta, la colección donde reuniría todas las obras de todos los autores desde el principio de los tiempos.

Siempre me asusta escribir las primeras líneas, cruzar el umbral de un nuevo libro. Cuando he recorrido todas las bibliotecas, cuando los cuadernos revientan de notas enfebrecidas, cuando ya no se me ocurren pretextos razonables, ni siquiera insensatos, para seguir esperando, lo retraso aún varios días durante los cuales entiendo en qué consiste ser cobarde.

Sencillamente, no me siento capaz. Todo debería estar ahí —el tono, el sentido del humor, la poesía, el ritmo, las promesas—. Los capítulos todavía sin escribir deberían adivinarse ya, pugnando por nacer, en el semillero de las palabras elegidas para empezar.

Pero ¿cómo se hace eso? Mi bagaje ahora mismo son las dudas.

Con cada libro vuelvo al punto de partida y al corazón agitado de todas las primeras veces. Escribir es intentar descubrir lo que escribiríamos si escribiésemos, así lo expresa Marguerite Duras, pasando del infinitivo al condicional y luego al subjuntivo, como si sintiese el suelo resquebrajarse bajo sus pies.

En el fondo, no es tan diferente de todas esas cosas que empezamos a hacer antes de saber hacerlas: hablar otro idioma, conducir, ser madre. Vivir.

Después de todas las agonías de la duda, después de agotar los aplazamientos y las coartadas, una tarde calurosa de julio me

enfrento a la soledad de la página en blanco. He decidido abrir mi texto con la imagen de unos enigmáticos cazadores al acecho de la presa. Me identifico con ellos, me gusta su paciencia, su estoicismo, sus tiempos perdidos, la lentitud y la adrenalina de la búsqueda.

Durante años he trabajado como investigadora, consultando fuentes, documentándome y tratando de conocer el material histórico. Pero, a la hora de la verdad, la historia real y documentada que voy descubriendo me parece tan asombrosa que invade mis sueños y cobra, sin yo quererlo, la forma de un relato.

Siento la tentación de entrar en la piel de los buscadores de libros en los caminos de una Europa antigua, violenta y convulsa. ¿Y si empiezo narrando su viaje?

Podría funcionar, pero ¿cómo mantener diferenciado el esqueleto de los datos bajo el músculo y la sangre de la imaginación?

Creo que el punto de partida es tan fantástico como el viaje en busca de las Minas del Rey Salomón o del Arca Perdida, pero los documentos atestiguan que existió de verdad en la mente megalómana de los reyes de Egipto. Tal vez allá, en el siglo III a. C., fue la única y última vez que se pudo hacer realidad el sueño de juntar todos los libros del mundo sin excepción en una biblioteca universal.

Hoy nos parece la trama de un fascinante cuento abstracto de Borges —o, quizá, su gran fantasía erótica—.

En la época del gran proyecto alejandrino, no existía nada parecido al comercio internacional de libros. Estos se podían comprar en ciudades con una larga vida cultural, pero no en la joven Alejandría.

Los textos cuentan que los reyes usaron las enormes ventajas del poder absoluto para enriquecer su colección. Lo que no podían comprar, lo confiscaban. Si era preciso rebanar cuellos o arrasar

cosechas para hacerse con un libro codiciado, darían la orden de hacerlo diciéndose que el esplendor de su país era más importante que los pequeños escrúpulos.

La estafa, por supuesto, formaba parte del repertorio de cosas que estaban dispuestos a hacer para conseguir sus objetivos. Ptolomeo III ansiaba las versiones oficiales de las obras de Esquilo, Sófocles y Eurípides conservadas en el archivo de Atenas desde su estreno en los festivales teatrales. Los embajadores del faraón pidieron prestados los valiosos rollos para encargar copias a sus minuciosos amanuenses. Las autoridades atenienses exigieron la exorbitante fianza de quince talentos de plata, que equivale a millones de dólares de hoy.

Los egipcios pagaron, dieron las gracias con pomposas reverencias, hicieron solemnes juramentos de devolver el préstamo antes de que transcurrieran — digamos— doce lunas, se amenazaron a sí mismos con truculentas maldiciones si los libros no volvían en perfecto estado y a continuación, por supuesto, se los apropiaron, renunciando al depósito. Los dirigentes de Atenas tuvieron que soportar el atropello.

La orgullosa capital de tiempos de Pericles se había convertido en una ciudad provinciana de un reino incapaz de rivalizar con el poderío de Egipto, que dominaba el comercio del cereal, el petróleo de la época.

Alejandría era el principal puerto del país y su nuevo centro vital.

Desde siempre, una potencia económica de esa magnitud puede extralimitarse alegremente. A todos los barcos de cualquier procedencia que hacían escala en la capital de la Biblioteca se les sometía a un registro inmediato. Los oficiales de aduanas requisaban cualquier escrito que encontraban a bordo, lo hacían copiar en papiros nuevos, devolvían las copias y retenían los originales. Estos libros tomados al abordaje iban a parar a las estanterías de la Biblioteca con una breve anotación aclarando su procedencia («fondo de las naves»).

Cuando estás en la cima del mundo, no hay favores excesivos. Se decía que Ptolomeo II envió mensajeros a los soberanos y gobernantes de cada país de la tierra. En una carta sellada les pedía que se tomasen la molestia de enviarle para su colección sencillamente todo: las obras de poetas y escritores en prosa de su reino, de oradores y filósofos, de médicos y adivinos, de historiadores y todos los demás.

Además —y esta ha sido mi puerta de entrada a esta historia—, los reyes enviaron por los peligrosos caminos y mares del mundo conocido a agentes con la bolsa llena y órdenes de comprar la máxima cantidad posible de libros y de encontrar, allí donde estuvieran, las copias más antiguas. Ese apetito de libros y los precios que se llegaban a pagar por ellos atrajeron a pícaros y falsificadores.

Ofrecían rollos de falsos textos valiosos, envejecían el papiro, fundían varias obras en una para aumentar su extensión e inventaban toda clase de hábiles manipulaciones. Algún sabio con sentido del humor se divirtió escribiendo obras bien amañadas, auténticos fraudes calculados para tentar la codicia de los Ptolomeos. Los títulos eran divertidos; podrían comercializarse hoy con facilidad, por ejemplo: «Lo que Tucídides no dijo». Sustituyamos a Tucídides por Kafka o Joyce, e imaginemos la expectación que provocaría el falsario al aparecer en la Biblioteca con las fingidas memorias y los secretos inconfesables del escritor bajo el brazo.

A pesar de las prudentes sospechas de fraude, los compradores de la Biblioteca temían dejar pasar un libro que pudiera ser valioso y

arriesgarse a enfurecer al faraón. Cada poco tiempo, el rey pasaba revista a los rollos de su colección con el mismo orgullo con el que pasaba revista a los desfiles militares. Preguntaba a Demetrio de Falero, el encargado del orden de la Biblioteca, cuántos libros tenían ya. Y Demetrio lo ponía al día sobre la cifra: «Ya hay más de veinte decenas de millares, oh Rey; y me afano para completar en breve lo que falta para los quinientos mil». El hambre de libros desatada en Alejandría empezaba a convertirse en un brote de locura apasionada.

He nacido en un país y una época en que los libros son objetos fáciles de conseguir. En mi casa, asoman por todas partes. En etapas de trabajo intenso, cuando pido docenas de ellos en préstamo a las distintas bibliotecas que soportan mis incursiones, suelo dejarlos apilados en torres sobre las sillas o incluso en el suelo. También abiertos boca abajo, como tejados a dos aguas en busca de una casa que cobijar.

Ahora, para evitar que mi hijo de dos años arrugue las hojas, formo pilas sobre el reposacabezas del sofá, y cuando me siento a descansar, noto el contacto de sus esquinas en la nuca. Al trasladar el precio de los libros al de los alquileres de la ciudad donde vivo, resulta que mis libros son unos inquilinos costosos. Pero yo pienso que todos, desde los grandes libros de fotografía hasta esos viejos ejemplares de bolsillo encolados que siempre intentan cerrarse como si fueran mejillones, hacen más acogedora la casa.

La historia de los esfuerzos, viajes y penalidades para llenar los estantes de la Biblioteca de Alejandría puede parecer atractiva por su exotismo. Son acontecimientos extraños, aventuras, como las fabulosas navegaciones a las Indias en busca de especias. Aquí y ahora, los libros son tan comunes, tan desprovistos del aura de novedad tecnológica, que abundan los profetas de su desaparición.

Cada cierto tiempo leo con desconsuelo artículos periodísticos que

vaticinan la extinción de los libros, sustituidos por dispositivos electrónicos y derrotados frente a las inmensas posibilidades de ocio. Los más agoreros pretenden que estamos al borde de un fin de época, de un verdadero apocalipsis de librerías echando el cierre y bibliotecas deshabitadas.

Parecen insinuar que muy pronto los libros se exhibirán en las vitrinas de los museos etnológicos, cerca de las puntas de lanza prehistóricas. Con esas imágenes grabadas en la imaginación, paseo la mirada por mis filas interminables de libros y las hileras de discos de vinilo, preguntándome si un viejo mundo entrañable está a punto de desaparecer.

¿Estamos seguros?

El libro ha superado la prueba del tiempo, ha demostrado ser un corredor de fondo. Cada vez que hemos despertado del sueño de nuestras revoluciones o de la pesadilla de nuestras catástrofes humanas, el libro seguía ahí. Como dice Umberto Eco, pertenece a la misma categoría que la cuchara, el martillo, la rueda o las tijeras. Una vez inventados, no se puede hacer nada mejor.

Por supuesto, la tecnología es deslumbrante y tiene fuerza suficiente como para destronar a las antiguas monarquías. Sin embargo, todos añoramos cosas que hemos perdido —fotos, archivos, viejos trabajos, recuerdos— por la velocidad con la que envejecen y quedan obsoletos sus productos. Primero fueron las canciones de nuestras casetes, después las películas grabadas en VHS.

Dedicamos esfuerzos frustrantes a coleccionar lo que la tecnología se empeña en hacer que pase de moda. Cuando apareció el DVD, nos decían que por fin habíamos resuelto para siempre nuestros problemas de archivo, pero vuelven a la carga tentándonos con nuevos discos de formato más pequeño, que invariablemente requieren comprar nuevos aparatos.

Lo curioso es que aún podemos leer un manuscrito pacientemente copiado hace más de diez siglos, pero ya no podemos ver una cinta de vídeo o un disquete de hace apenas algunos años, a menos que conservemos todos nuestros sucesivos ordenadores y aparatos reproductores, como un museo de la caducidad, en los trasteros de nuestras casas.

No olvidemos que el libro ha sido nuestro aliado, desde hace muchos siglos, en una guerra que no registran los manuales de historia. La lucha por preservar nuestras creaciones valiosas: las palabras, que son apenas un soplo de aire; las ficciones que inventamos para dar sentido al caos y sobrevivir en él; los conocimientos verdaderos, falsos y siempre provisionales que vamos arañando en la roca dura de nuestra ignorancia.

Por eso decidí sumergirme en esta investigación. Al principio de todo, hubo preguntas, enjambres de preguntas: ¿cuándo aparecieron los libros? ¿Cuál es la historia secreta de los esfuerzos por multiplicarlos o aniquilarlos? ¿Qué se perdió por el camino, y qué se ha salvado? ¿Por qué algunos de ellos se han convertido en clásicos? ¿Cuántas bajas han causado los dientes del tiempo, las uñas del fuego, el veneno del agua? ¿Qué libros han sido quemados con ira, y qué libros se han copiado de forma más apasionada? ¿Los mismos?

Este relato es un intento de continuar la aventura de aquellos cazadores de libros. Quisiera ser, de alguna manera, su improbable compañera de viaje, al acecho de manuscritos perdidos, historias desconocidas y voces a punto de enmudecer. Quizá aquellos grupos de exploradores eran solo esbirros al servicio de unos reyes poseídos por una obsesión megalómana. Tal vez no entendían la trascendencia de su tarea, que les parecía absurda, y en las noches al raso, cuando se apagaban los rescoldos de la hoguera, mascullaban entre dientes que estaban hartos de arriesgar la vida por el sueño de un loco.

Seguramente hubieran preferido que los enviasen a una misión con más posibilidades de ascenso, como sofocar una revuelta en el desierto de Nubia o inspeccionar el cargamento de las barcazas del Nilo. Pero sospecho que, al buscar el rastro de todos los libros como si fueran piezas de un tesoro disperso, estaban poniendo, sin saberlo, los cimientos de nuestro mundo.

Prometeo encadenado. Esquilo

PERSONAJES:

FUERZA Y VIOLENCIA, criados de Zeus

HEFESTO, dios del fuego, hijo de Zeus

PROMETEO, hijo de la diosa Temis

OCÉANO, divinidad

ÍO, hija de Inaco

HERMES, mensajero de los dioses

CORO DE OCEÁNIDES.

La escena representa una región montañosa, en los confines del mundo, cerca del mar. Llegan FUERZA y VIOLENCIA, traen prisionero a PROMETEO. Les sigue HEFESTO con sus herramientas de herrero. Se disponen a clavar al titán en una escarpada roca.

FUERZA. Hemos alcanzado la región extrema de la tierra, el rincón escítico, en un desierto nunca hollado. Hefesto, a ti te concierne cumplir las órdenes que te dio tu padre, en estas abruptas rocas sujetar a este malhechor con grilletes irrompibles y vínculos de acero. Porque robando tu flor, el resplandor del fuego, origen de todas las artes, se la entregó a los hombres.

Ha de pagar la pena a los dioses por una falta como ésta, para que aprenda a soportar la tiranía de Zeus y renunciar a sus sentimientos humanitarios.

HEFESTO. Fuerza y Violencia, para vosotros se ha cumplido ya el mandato de Zeus y nada os retiene ya. Pero yo no me atrevo a atar a un dios hermano en esta cima tormentosa. Sin embargo, es incontestablemente necesario tener coraje para ello: es cosa grave no cumplir las palabras de un padre.

(A Prometeo.) De Temis, la consejera, hijo de elevados pensamientos, contra tu voluntad y la mía voy a clavarte con indisolubles lazos de bronce a esta roca inhóspita, en donde no verás ni la voz ni la figura de un mortal, sino que quemado por la resplandeciente llama del sol, cambiarás la flor de tu piel; con alegría para ti, la noche con su manto estrellado ocultará la luz y el sol disipará de nuevo la escarcha del alba; pero siempre te abrumará la carga del mal presente, pues todavía no ha nacido tu libertador.

Esto has ganado con tus sentimientos humanitarios. Tú, un dios que no te acoquinas ante la cólera de los dioses, has otorgado, más allá de lo justo, unos honores a los mortales; por esto montarás en esta roca una guardia ingrata, de pie, sin dormir ni doblar la rodilla. Lanzarás muchos lamentos y gemidos inútiles, pues el corazón de Zeus es inflexible. Un nuevo señor siempre es duro.

FUERZA. Vamos, ¿por qué te demoras y te apiadas en vano? ¿Por qué no aborreces al dios más odioso de los dioses, que ha, entregado a los mortales tu privilegio?

HEFESTO. El parentesco es muy fuerte, y la amistad.

FUERZA. Lo concedo. Pero desobedecer las palabras de un padre ¿cómo es posible? ¿No temes esto más?

HEFESTO. Tú siempre eres cruel y lleno de audacia.

FUERZA. Ningún remedio proporcionará el llorar por ése; no te canses en un trabajo inútil.

HEFESTO. ¡Oh oficio muy odiado por mí!

FUERZA. ¿Por qué lo odias? De los males presentes, ciertamente no tiene culpa alguna tu oficio.

HEFESTO. Sin embargo, ojalá hubiera tocado a otro.

FUERZA. Todo es enojoso, salvo mandar sobre los dioses; porque nadie es libre excepto Zeus.

HEFESTO. Lo sé, y nada puedo responder a esto.

FUERZA. ¿No te apresuras, pues, en rodearle de cadenas, para que el padre no te vea remiso?

HEFESTO. Pueden verse ya en sus manos las manillas.

FUERZA. Cíñeselas a los brazos y con toda tu fuerza golpea con el martillo y clávalo en las rocas.

HEFESTO. El trabajo ya se termina y no en vano.

FUERZA. Golpea más, aprieta, nada dejes flojo; pues es capaz de encontrar alguna salida, incluso de lo impracticable.

HEFESTO. Este codo, al menos, está fijo y es difícil que le suelte.

FUERZA. Ahora clávale en medio del pecho, bien fuerte, la dura mandíbula de una cuña de acero.

HEFESTO. ¡Ay, ay, Prometeo, gimo por tus penas!

FUERZA. ¿Vacilas y lloras por los enemigos de Zeus? Vigila no sea que un día te compadezcas a ti mismo.

HEFESTO. Ves un espectáculo horrible de ver.

FUERZA. Veo que ése tiene lo que merece. Más échale a los costados las bridas.

HEFESTO. Es mi obligación hacerlo, no me lo mandes con tanta insistencia.

FUERZA. Pues te ordenaré y además te azuzaré. Baja y sujeta sólidamente con anillas sus piernas.

HEFESTO. El trabajo está hecho y sin gran esfuerzo.

FUERZA. Con vigor hunde estas trabas en la carne; pues es severo el que juzgará tu obra.

HEFESTO. Tu lenguaje responde a tu figura.

FUERZA. Ablándate; pero no me reproches mi obstinación y la aspereza de mi carácter.

HEFESTO. Vámonos; tiene una red en torno a sus miembros.

FUERZA. Ahora sé, allá, insolente y despojando a los dioses de sus privilegios, dáselos a los efímeros. ¿Qué alivio son capaces los mortales de llevar a tus penas? Con falso nombre los dioses te llaman Prometeo, pues tú mismo necesitas un previsor para saber de qué manera te librarás de tal artificio. (Hefesto con Fuerza y Violencia salen.)

PROMETEO. ¡Oh éter divino, y vientos de alas rápidas, y fuentes de los ríos, y sonrisa innumerable de las olas marinas, y Tierra madre universal, y círculo omnividente del Sol; yo os invoco: ved lo que, siendo dios, sufro de los dioses!

Mirad con qué ultrajes desgarrado he de padecer durante un tiempo infinito de años. Tal es la cadena infame que contra mí ha inventado el joven caudillo de los Felices. ¡Ay, ay! Por el sufrimiento, presente y futuro gimo, sin saber cuándo surgirá el fin de estos males.

Pero ¿qué digo? Todo lo que ha de acontecer lo sé bien de antemano y ninguna desgracia imprevista vendrá de nuevo sobre mí. Pero es preciso soportar lo más ligeramente posible la suerte decretada, sabiendo que no hay lucha contra la fuerza de la Necesidad.

Con todo, me es igual de imposible callar o no callar esta desgracia. Porque habiendo proporcionado una dádiva a los mortales estoy uncido al yugo de la necesidad, desdichado. En el tallo de una caña me llevé la caza, el manantial del fuego robado, que es para los mortales maestro de todas artes y gran recurso. De este pecado pago ahora la pena, clavado con cadenas bajo el éter.

¡Ah, ah! ¿Qué ruido, qué aroma invisible ha volado hasta mí?

¿Vienes de un dios, de un mortal o de un semidiós? ¿Ha llegado a este peñasco, en los límites del mundo para contemplar mis penas, o qué quiere? Mirad encadenado a este dios desgraciado Odiado de Zeus, me he enemistado con todos los dioses que frecuentan la corte de Zeus por mi gran amor hacía los hombres. ¡Ay, ay! ¿Qué movimiento de alas escucho cerca de aquí? El aire susurra con ese ligero batir de alas. Todo lo que se aproxima me produce pavor.

(Llega el coro de las Oceánides en un carro alado que se coloca sobre un roquero cercano al que está clavado Prometeo.)

CORO. Nada temas. Amiga es esta tropa que en rápida carrera de alas se ha acercado a este peñasco, consiguiendo persuadir a duras penas el corazón paterno. Veloces las brisas me trajeron. Pues el eco de los golpes de hierro penetró hasta el fondo de mis cavernas y arrojó de mí el tímido pudor; descalza me lancé en mi carro alado.

PROMETEO. ¡Ay, ay! ¡Ay, ay! Prole de la fecunda Tetis, hijas del padre Océano, que con su curso insomne gira en torno a toda tierra, mirad, contemplad con qué cadenas clavado en la cima rocosa de este precipicio monto una guardia no envidiable.

CORO. Veo, Prometeo; y una tímida niebla llena de lágrimas a mis ojos, cuando contemplo sobre esa roca tu cuerpo que se consume en la ignominia de estos grilletes de acero. Porque nuevos pilotos gobiernan el Olimpo y Zeus, con nuevas leyes, reina arbitrariamente y aniquila ahora los colosos de antes.

PROMETEO. ¡Si al menos me hubiera precipitado bajo tierra, más allá del Hades hospitalario a los muertos, hasta el Tártaro infranqueable, echándome ferozmente en cadenas insolubles,

de suerte que ni un dios ni nadie se regocijará de ello! Pero ahora, juguete de los vientos, miserable, sufro para escarnio de mis enemigos.

CORO. ¿Cuál de los dioses tiene un corazón tan duro que haga burla de esto? ¿Quién no comparte tus pesares, excepto Zeus? Éste, siempre en su ira, de un alma inflexible, somete la raza celeste, y no cesará hasta que se haya saciado su corazón, o que alguien con alguna artimaña conquiste el mando tan difícil de conquistar.

PROMETEO. Ciertamente, aunque ultrajado en estos brutales grilletes de mis miembros, todavía tendrá necesidad de mí el príncipe de los Felices para enseñarle el nuevo designio que le despojará de su cetro y honores. Y no me ablandará con melifluos sortilegios de la persuasión, ni nunca yo, acoquinado con sus duras amenazas, revelaré este secreto, antes de que me libre de fieras cadenas y consienta en pagar la pena de este ultraje.

CORO. Tú eres osado y en vez de ceder por estos amargos sufrimientos, hablas con demasiada libertad. Un temor penetrante altera mi corazón y me estremezco por la suerte que te espera: dónde debes abordar para contemplar el fin de estos sufrimientos. Pues el hijo de Cronos tiene un carácter inaccesible y un corazón inflexible.

PROMETEO. Sé que es severo y que tiene en su poder la justicia; sin embargo, creo que un día será de blando corazón cuando sea sacudido de este modo. Entonces aplacando esta rígida cólera, vendrá presuroso a concertar conmigo alianza y amistad.

CORIFEO. Descríbelo todo y explícanos en qué culpa te ha sorprendido Zeus para ultrajarte de una manera tan infame y cruel. Infórmanos, si no te perjudica el relato.

PROMETEO. Me duele hablar de estas cosas, pero no decir nada es también un dolor; de todos modos, infortunios. Así que los dioses empezaron a enfadarse y se produjo entre ellos la discordia, unos queriendo arrojar a Cronos de su trono, para que Zeus desde entonces reinara; otros por el contrario, esforzándose para que Zeus no mandara nunca sobre los dioses; entonces yo, que quería persuadir con los mejores consejos a los titanes, hijos de la Tierra y del Cielo, no pude. Despreciando las arteras trazas creyeron, en su brutal presunción, que sin fatiga se harían los dueños por la violencia. Pero, no una sola vez, mi madre, Temis y Tierra, forma única bajo nombres diversos, me había profetizado cómo se cumpliría el futuro: que no por la fuerza ni por la violencia, sino con engaño deberían vencer a los poderosos. Mientras yo les iba explicando estas cosas con mis palabras, no se dignaron ni dirigirme la mirada. Lo mejor en aquellas circunstancias me pareció que era, haciendo caso de mi madre, ponerme al lado de Zeus que recibía de grado a un voluntario. Por mis consejos el antro negro y profundo del Tártaro oculta al antiguo Cronos y a sus aliados. Tales son los beneficios que ha recibido de mí el tirano de los dioses y que me ha pagado con esta cruel recompensa. Sin duda es un achaque inherente a la tiranía no confiar en los amigos.

Ahora, lo que me preguntáis, por qué causa me hiere, os lo aclararé. En cuanto se sentó en el trono paterno, en seguida distribuyó entre los dioses sus privilegios, a cada uno diferentes, y organizó su imperio; pero no se preocupó en absoluto de los míseros mortales, sino que, aniquilando toda la raza, deseaba crear otra nueva. A este proyecto nadie se opuso sólo yo. Yo me atreví; libré a los mortales de ir, destrozados, al Hades. Por eso ahora estoy sufriendo tales sufrimientos, dolorosos de sufrir, lamentables de ver. Por haber tenido ante todo piedad de los mortales, no fui juzgado digno de conseguirla, sino que implacablemente estoy así tratado, espectáculo infamante para Zeus.

CORIFEO. De corazón de hierro y tallado de una piedra, Prometeo, es el que no se indigna contigo por tus penas. Yo, por mi parte, habría deseado no verlas, y ahora que las veo siento un dolor en el corazón.

PROMETEO. Sí, sin duda, para los amigos soy doloroso de ver.

CORIFEO. ¿Fuiste, tal vez, más lejos que esto?

PROMETEO. Sí. Hice que los mortales dejaran de pensar en la muerte antes de tiempo.

CORIFEO. ¿Qué solución hallaste a este mal?

PROMETEO. Albergué en ellos esperanzas ciegas.

CORIFEO. Gran favor otorgaste a los mortales.

PROMETEO. Además de esto, yo les regalé el fuego.

CORIFEO. ¿Y ahora los efímeros tienen el fuego resplandeciente?

PROMETEO. Por él aprenderán muchas artes.

CORIFEO. Por tales culpas Zeus te…

PROMETEO. … me ultraja y no afloja para nada mis males.

CORIFEO. ¿No hay un término fijado a tu prueba?

PROMETEO. No, ninguno, salvo cuando le plazca a él.

CORIFEO. ¿Cuándo le placerá? ¿Hay alguna esperanza? ¿No ves que has delinquido? Pero decir que has delinquido, para mí no es ningún placer y para ti es dolor. Pero dejemos esto y busca algún medio de librarte de esta prueba.

PROMETEO. Es fácil al que tiene el pie fuera de las desgracias aconsejar y amonestar al infortunado. Pero todo esto yo lo sabía. De grado, de grado falté, no lo negaré; ayudando a los mortales yo mismo me he encontrado castigos. Con todo, no creía que con tales penas había de consumirme en unas rocas abruptas, encontrándome en una cima desierta y sin vecinos.

Pero ahora, sin lamentaros por estos sufrimientos, bajando a tierra firme, escuchad mi suerte futura, para que lo sepáis todo hasta el fin. Creedme, compadeced al que ahora sufre: la aflicción vuela sin cesar, y ora se posa en uno, ora en otro.

CORIFEO. Tú urges a una tropa dispuesta a obedecerte, Prometeo. Ahora, dejando con pie ligero este raudo asiento y el éter, ruta sagrada de las aves, me acercaré a este suelo escabroso; porque deseo escuchar hasta el final tus padecimientos.

(Mientras las Oceánides descienden al suelo, aparece Océano en un carro tirado por un caballo alado.)

OCÉANO. He llegado al final de un largo viaje en mi recorrido hacia ti, Prometeo, dirigiendo con mi mente, sin bridas, esta ave de alas veloces. De tus desgracias, sábelo, me compadezco. El parentesco, creo, me obliga, y, aparte la sangre, no hay a quien diera parte mayor que a ti. Conocerás que digo la verdad y que no se halla en mí adular en vano. Venga, pues, dime en qué he de ayudarte; porque nunca dirás que tienes un amigo más seguro que Océano.

PROMETEO. ¡Ea!, ¿qué es esto? ¿También tú vienes a ser testigo de mis males? ¿Cómo te atreviste, dejando la corriente que lleva tu nombre y las roqueras grutas naturales, llegar a la tierra madre del hierro? ¿O has venido para contemplar mi suerte e indignarte con mis males? Mira este espectáculo: yo, el amigo de Zeus, que le ayudé a establecer su tiranía, con qué sufrimientos soy abatido por él.

OCÉANO. Lo veo, Prometeo, y quiero aconsejarte lo mejor, aunque eres listo. Conócete a ti mismo y adopta nuevas actitudes, pues también hay un nuevo tirano entre los dioses. Pero si lanzas palabras tan duras y aceradas, quizá te oiga Zeus que está sentado mucho más alto que tú, y el enojo de estos males presentes te parezca un juego. Así, desgraciado, deja este afán y busca la liberación de estos males. Tal vez te parecerá que digo cosas viejas; sin embargo, tal es, Prometeo, el salario de una lengua demasiado altiva. Tú todavía no eres humilde ni cedes a los males, y a los presentes quieres añadir otros. Tómame, pues, por maestro y no estires tu pierna contra el aguijón, viendo que ahora reina un monarca duro y sin que tenga que rendir cuentas. Ahora me marcho e intentaré, si puedo, librarte de estas penas; tú tranquilízate y no hables con demasiado insolencia. ¿O no sabes siendo en rigor tan sabio, que se castiga a una lengua disparatada?

PROMETEO. Te envidio porque te encuentras fuera de culpa aunque participaste en todo y te asociaste a mi osadía. Ahora déjalo y no te preocupes. De todos modos no le convencerás; no es fácil de convencer. Y vigila que no te perjudiques en este camino.

OCÉANO. Eres mucho mejor para inspirar prudencia al prójimo que a ti mismo; juzga por hechos, no por palabras. Pero en mi afán, no me retengas. Porque me ufano, sí, me ufano de que Zeus me concederá la gracia de librarte de estos males.

PROMETEO. Te alabo por tu solicitud y no cesaré de hacerlo; en buena voluntad nada descuidas. Pero no te esfuerces: trabajarás en vano, sin provecho para mí, si es que quieres hacerlo.

Permanece tranquilo y mantente apartado. Porque yo, si soy desgraciado, no por esto quisiera que a los más alcanzaran las desgracias. No, en verdad, pues ya me consume la suerte de mi hermano, Atlas, que en las regiones de occidente, de pie, sostiene en sus espaldas la columna del cielo y de la tierra, peso no fácil para el brazo. También he compadecido, al verle, al hijo de la Tierra, habitante de las cuevas cilicias, gran gigante de cien cabezas, domado por la fuerza, el impetuoso Tifón. Se enfrentó a todos los dioses, silbando miedo de sus atroces fauces; de sus ojos brillaba horrible esplendor, como si fuera a aniquilar violentamente la tiranía de Zeus. Pero le alcanzó el dardo que no duerme de Zeus, cl rayo que desciende respirando fuego y le derrotó de sus altivas fanfarronadas. Pues herido en el mismo corazón, quedó reducido a cenizas y su fuerza disipada por el rayo. Y ahora, cuerpo inútil y arrinconado, yace cerca del estrecho marino, oprimido bajo las raíces del Etna, mientras Hefesto, instalado en las altas cimas, forja el hierro ardiente. De allí un día irrumpirán torrentes de fuego que con feroces fauces devorarán las vastas llanuras de la fecunda Sicilia. Tal ira exhalará Tifón con los ardientes dardos de una insaciable tormenta de fuego, aunque carbonizado por el rayo de Zeus. Pero tú no eres inexperto y no me necesitas como guía; sálvate, como sabes. Yo apuraré este mi destino hasta que Zeus aplaque su ira.

OCÉANO. ¿No sabes esto, Prometeo, que las palabras son médicos de la enfermedad de la cólera?

PROMETEO. Sí, si uno ablanda el corazón en el momento preciso, y no reduce por la fuerza una pasión virulenta.

OCÉANO. Pero, si uno muestra solícito esfuerzo y valor para la acción, ¿qué daño ves tú que haya en ello?

PROMETEO. Trabajo inútil y simplicidad irreflexiva.

OCÉANO. Déjame que sufra esta enfermedad; pues es provechoso parecer insensato cuando uno es cuerdo.

PROMETEO. Esta falta más bien parecerá la mía.

OCÉANO. Sin duda tus palabras me envían de nuevo a casa.

PROMETEO. Temo que tu lamento por mí te lance a una enemistad.

OCÉANO. ¿Con el que acaba de sentarse en un todopoderoso asiento?

PROMETEO. Vigila que no se altere tu corazón.

OCÉANO. Tu infortunio, Prometeo, es maestro.

PROMETEO. Vete, aléjate, salva tu actual buen sentido.

OCÉANO. Cuando ya me iba, me molestaban tus palabras. Pues mi cuadrúpeda ave acaricia ya con sus alas el dilatado camino del éter y gozoso doblará la rodilla en su establo. (Océano se marcha en su monstruo alado. Tras un silencio, las Oceánides aparecen sobre de una roca y cantan lo siguiente.)

CORO. Lloro por tu fatal destino, Prometeo; y vertiendo de mis delicados ojos una corriente de lágrimas mojo mi mejilla con húmedas fuentes. Hostilmente gobernando con leyes propias Zeus manifiesta a los dioses de antaño su lanza soberbia.

Ya todo este país ha lanzado un grito lastimero; sus pueblos lloran por la grandeza y el antiguo prestigio tuyo y de tus hermanos, y todos cuantos mortales habitan la tierra vecina de la sagrada Asia, ante el gran gemido de tus penas sufren contigo.

Y las vírgenes que habitan en la tierra cólquide, valientes luchadoras, y la turba de Escitia, que ocupa el lugar más remoto de la tierra alrededor del lago Meótico.

Y la flor guerrera de Arabia, los que viven una ciudadela escarpada cerca del Cáucaso, hostil ejército que brama en lanzas de acerada proa.

Sólo antes otro dios titán he visto sufrir, vencido en la ignominia de unos lazos de acero, Atlas, que llevando siempre en la espalda, fuerza inflexible, la tierra y la bóveda celeste, gime.

La ola marina cayendo ola sobre ola brama, llora el abismo, el tenebroso Hades en las profundidades de la tierra ruge, y las fuentes de los sagrados ríos exhalan su dolor quejumbroso.

PROMETEO. (Tras de un largo silencio.) No penséis que callo por arrogancia o altanería; pero un pensamiento me devora el corazón al verme así tan vilipendiado. En verdad, a estos dioses nuevos, ¿qué otro si no yo les repartió exactamente sus privilegios? Pero sobre esto callo; pues sabéis lo que podría deciros.

Escuchad, en cambio, los males de los hombres, cómo de niños que eran antes he hecho unos seres inteligentes, dotados de razón. Os lo diré, no para censurar a los hombres, sino para mostraros la buena voluntad de mis dones. Al principio, miraban sin ver y escuchaban sin oír, y semejantes a las formas de los sueños en su larga vida todo lo mezclaban al azar. No conocían las casas de ladrillos secados al sol, ni el trabajo de la madera; soterrados vivían como ágiles hormigas en el fondo de antros sin sol. No tenían signo alguno seguro ni del invierno, ni de la floreciente primavera ni del estío fructuoso, sino que todo lo hacían sin razón, hasta que yo les enseñé los ortos y ocasos de los astros, difíciles de conocer.

Después descubrí también para ellos la ciencia del número, la más excelsa de todas, y las uniones de las letras, memoria de todo, laboriosa madre de las Musas. Y el primero até bajo el yugo a las bestias esclavizadas a las gamellas y a las albardas, a fin de que tomaran el lugar de los mortales en las fatigas mayores, y llevé bajo el carro a los caballos, dóciles a las riendas, orgullo del fasto opulento. Sólo yo inventé el vehículo de los marinos, que surca el mar con sus alas de lino. Y, mísero de mí, yo que he encontrado estos artificios para los mortales, no tengo artimaña que pueda librarme de la actual desgracia.

CORIFEO. Padeces un castigo indigno; privado de razón divagas, y como un mal médico que a su vez ha enfermado, te desanimas y no puedes encontrar para ti mismo los remedios curativos.

PROMETEO. Escucha el resto y te sorprenderás más: las artes y recursos que ideé. Lo más importante: si uno caía enfermo, no había ninguna defensa, ni alimento, ni unción, ni pócima, sino que faltos de medicinas morían, hasta que les enseñé las mezclas de remedios clementes con los que ahuyentan todas las enfermedades. Clasifiqué muchos procedimientos de adivinación y fui el primero en distinguir lo que de los sueños ha de suceder en la vigilia, y les di a conocer los sonidos de oscuro presagio y los encuentros del camino. Determiné exactamente el vuelo de las aves rapaces, los que son naturalmente favorables y los siniestros, los hábitos de cada especie, los odios y amores mutuos, sus compañías; la lisura de las entrañas y qué color necesitan para agradar a los dioses, y los matices favorables de la bilis y del lóbulo del hígado. Haciendo quemar los miembros cubiertos de grasa y el largo lomo, encaminé a los mortales a un arte difícil de entender y revelé los signos de la llama que antes eran oscuros. Tal es mi obra.

Y los recursos escondidos a los hombres debajo de la tierra, bronce, hierro, plata, oro, ¿quién podría preciarse de haberlos descubierto antes que yo? Nadie, lo sé bien, a menos que quiera hablar en vano. En una palabra, sabe todo a la vez: todas las artes para los mortales proceden de Prometeo.

CORIFEO. No ayudes a los mortales más allá de lo necesario y descuides tu propia desgracia. Yo tengo buena esperanza de que un día, liberado de estas cadenas, no tendrás un poder inferior a Zeus.

PROMETEO. No tiene decretado todavía que esto se cumpla, la Moira que todo lo lleva a término; cuando estaré encorvado por mil dolores y desgracias, entonces escaparé de estas cadenas. El arte es con mucho, más débil que la Necesidad.

CORIFEO. ¿Y quién es el timonero de la Necesidad?

PROMETEO. Las Moiras de tres formas y las memoriosas Erinis.

CORIFEO. ¿Zeus, pues, es más débil que ellas?

PROMETEO. No puede, por lo menos, escapar a su destino.

CORIFEO. ¿Y cuál es el destino de Zeus sino reinar por siempre?

PROMETEO. Sobre esto no preguntes más, no insistas.

CORIFEO. Es, sin duda, un augusto secreto lo que ocultas.

PROMETEO. Hablad de otra cosa; no es el momento de revelar este secreto, sino de esconderlo lo más posible; pues guardándolo oculto, escaparé de estas cadenas humillantes y de estos sufrimientos.

CORO. Que nunca el que todo lo gobierna, que nunca Zeus coloque enfrente de mi voluntad su fuerza, que jamás me tarde en acercarme a los dioses con sagrados festines de hecatombes junto al curso inagotable del Padre Océano, ni los ofenda con mis palabras. Antes permanezca firme en mí este propósito y no se borre jamás.

Es dulce pasar una larga vida en confiadas esperanzas alimentando el corazón de deleites radiosos. Pero me estremezco cuando te veo desgarrado por tantos sufrimientos. Pues sin temer a Zeus, por propio criterio honras en exceso a los mortales, Prometeo.

Vamos, amigo, dime, ¿qué favor te aporta tu favor? ¿Dónde está la defensa, la ayuda de los efímeros? ¿No has visto la impotencia reducida, igual al sueño, que encadena la ciega raza humana? Nunca la voluntad de los mortales conculcará el orden establecido por Zeus.

Esto he aprendido observando tu funesto destino, Prometeo. Y un canto bien diferente ha volado hacia mí, el canto de himeneo que un día en torno a tu baño y a tu lecho de bodas entoné, cuando, persuadida por tus presentes, llevaste a nuestra hermana Hesíone a compartir contigo el lecho como esposa. (Entra Ío teniendo en su frente dos cuernos de vaca. Tras sus primeras palabras se siente de nuevo sacudida por el aguijón del tábano.)

ÍO. ¿Qué tierra es ésta? ¿Qué raza? ¿A quién diré que miro atormentada con pétrea brida? ¿Qué falta expiras tú en esta agonía? Dime a qué parte de la tierra he llegado, mísera, en mi extravío.

¡Ay, ay! ¡Ah, ah! Vuelve nuevamente a picarme, desgraciada, un tábano, fantasma de Argos, hijo de la Tierra. Apártalo, Tierra, porque tiemblo al ver al boyero de mil ojos. Camina con su pérfida mirada. Ni muerto la tierra lo oculta, sino que saliendo de las sombras a mí, infortunada, me da caza y me hace errar, afamada, por los arenales de la playa.

Detrás de mí, la sonora caña encerada deja oír la canción que duerme. ¡Ay, ay, dioses! ¿A qué lejanas tierras me llevan estas carreras errantes? ¿En qué falta, hijo de Cronos, en qué falta me has sorprendido para haberme uncido en estos tormentos, ¡ay, ay!, y extenuar así a una desgraciada alocada por el temor del tábano que la persigue? Abrásame en el fuego, escóndeme bajo tierra, dame por alimento a los monstruos marinos. No rechaces mis ruegos, Señor. Mis carreras infinitas me han sobradamente ejercitado, ni puedo saber cómo escapar a los padecimientos. ¿Oyes la voz de la cornígera doncella?

PROMETEO. ¿Cómo no oír a la muchacha hostigada por el tábano, a la hija de Inaco, que abrasa de amor el corazón de Zeus y ahora, odiada de Hera, se ejercita por fuerza en esas infinitas carreras?

ÍO. ¿De dónde viene que has pronunciado el nombre de mi padre? Responde a la infortunada: ¿quién eres tú, miserable, que a esta desgraciada saludas en términos tan verídicos y nombraste el mal de divina procedencia que me consume al morderme con aguijones vagabundos?

Empujada con violencia por el hambriento ultraje de mis saltos, he llegado víctima del airado designio de Hera. ¿Cuál de los desgraciados sufre, ¡ay, ay!, como yo? Pero dime con claridad lo que voy a padecer. ¿Qué expediente, qué remedio hay de mi mal? Enséñamelo, si lo sabes. Habla, da a conocer esto a la pobre virgen errante.

PROMETEO. Te diré claramente todo lo que quieras saber, no entretejiendo enigmas, sino en lenguaje simple, como es justo abrir la boca a amigos. Estás viendo al dador del fuego a los mortales. Prometeo.

ÍO. Oh tú que te mostraste tan beneficioso a la comunidad de los mortales, paciente Prometeo, ¿por qué razón sufres esto?

PROMETEO. Acabo justamente de quejarme por mis trabajos.

ÍO. Entonces, ¿no vas a otorgarme ese favor?

PROMETEO. Di qué pides: de mí puedes saberlo todo.

ÍO. Indica quién te ató en esa roca escarpada.

PROMETEO. La decisión de Zeus, pero la mano de Hefesto.

ÍO. ¿Y de qué faltas pagas tú la pena?

PROMETEO. Basta que te haya manifestado sólo esto.

ÍO. Muéstrame, además, el fin de mi viaje y cuál será este día para mí, la desdichada.

PROMETEO. No conocerlo es mejor para ti que conocerlo.

ÍO. No me escondas lo que he de padecer.

PROMETEO. No te rehúso ese favor.

ÍO. Entonces, ¿por qué tardas en proclamarlo todo?

PROMETEO. No hay malquerencia, pero dudo en turbar tu alma.

ÍO. No te preocupes más por mí, pues me es dulce.

PROMETEO. Ya que lo deseas, debo hablar; escucha, pues.

CORIFEO. No, todavía no; dame también a mí una parte de satisfacción. Sepamos primero la enfermedad de ésta, que nos diga ella misma sus funestos infortunios. De ti aprenda después los restantes trabajos.

PROMETEO. Trabajo tuyo es, lo, de complacerles con esta dádiva, máxime cuando son hermanas de tu padre; pues llorar y lamentar las desgracias cuando se ha de obtener una lágrima de los que escucha, merece el esfuerzo realizado.

ÍO. No sé cómo podría negarme a vosotras: en términos claros sabréis todo lo que pedís; sin embargo, me da vergüenza contaros cómo la tempestad suscitada por un dios y causa de mis metamorfosis se ha abatido sobre mí, mísera.

Sin cesar visiones nocturnas visitaban mi alcoba virginal y me exhortaban con dulces palabras: «Oh muy feliz muchacha, ¿por qué permanecer tan largo tiempo virgen, cuando puedes alcanzar la boda más excelsa? Porque Zeus está inflamado por ti con el dardo del deseo y anhela compartir contigo los placeres de Cipris. Tú, niña, no rechaces el lecho de Zeus; marcha hacia la pradera ubérrima de Lerna, a los rediles y boyeras de tu padre, para que el ojo de Zeus cese en su deseo.» Tales eran los sueños que todas las noches me sobresaltaban, mísera, hasta que osé revelar a mi padre los sueños nocturnos. Entonces a Pito y a Dodona despachó frecuentes mensajeros para saber qué debía emprender o decir que fuera agradable a los dioses. Pero ellos regresaban refiriendo unos oráculos equívocos, oscuros, difíciles de interpretar. Por último, una respuesta nítida llegó a Inaco, que claramente le recomendaba y anunciaba que me arrojara de la casa y de la patria, para errar en libertad hasta los últimos confines de la tierra, si no quería que viniera el rayo inflamado de Zeus que destruiría todo su linaje. Obediente a estos oráculos de Loxias, mi padre, me desterró y cerró su casa, a pesar suyo y mío: pero el freno de Zeus le obligaba a obrar así con violencia. Al punto mi forma y mi espíritu se alteraron y cornuda, como veis, y mordida por el tábano de acerado aguijón, me precipito, de un salto benéfico, hacia la corriente salutífera de Cernea y a la fuente de Lerna. Un boyero, hijo de la Tierra, de intemperados humos, me seguía con sus innumerables ojos fijos en mis pasos. Un destino imprevisto le privó de repente el vivir, y yo, desgarrada por el tábano, corro de país en país bajo el látigo divino. Ya sabes lo sucedido; y si puedes decirme qué penas me faltan, dímelo; no intentes, por compasión, tranquilizarme con relatos falsos; pues digo que no hay enfermedad más vergonzosa que las palabras compuestas.

CORO. Deja, deja, calla. ¡Ay! Nunca, nunca pensé que unas palabras tan extrañas llegaran a mis oídos, que unos sufrimientos, unas miserias, unos espantos, tan penosos de ver, tan penosos de sufrir, helaran mi alma con aguijón de doble filo. ¡Ay, destino, destino, me estremezco al contemplar la suerte de Ío!

PROMETEO. Demasiado pronto gimes y llena estás de temor; aguarda hasta que sepas el resto.

CORIFEO. Habla, explícate: es dulce a los enfermos conocer exactamente de antemano el dolor que les falta.

PROMETEO. La anterior petición la lograsteis fácilmente gracias a mí; deseabais primero saber por ella misma el relato de su desgracia; ahora oír lo que queda, qué sufrimientos ha de padecer esta joven por orden de Hera. Y tú, semilla de Inaco, guarda mis palabras en tu corazón, si quieres conocer el final de tu camino.

Primero, partiendo de aquí, vuélvete hacia el sol saliente y dirígete hacia los campos sin arar. Llegarás a los escitas nómadas que habitan chozas de mimbre trenzado sobre carros de hermosas ruedas y que llevan colgados arcos de largo alcance. No te aproximes a ellos, sino que, poniendo el pie en los acantilados en donde resuena el mar, atraviesa el país. A mano izquierda viven los que trabajan el hierro, los cálibes: guárdate de ellos, pues son feroces, inaccesibles a los extranjeros. Llegarás al río Hibristes, de nombre verídico; no lo atravieses, no es fácil de cruzar antes que alcances el mismo Cáucaso, el más alto de los montes, donde este río impetuoso brota de sus sienes. Debes pasar por encima de sus cumbres vecinas de los astros, para tomar el camino que lleva al mediodía, en donde hallarás a la hueste de las amazonas enemigas de los hombres, que un día fundarán Temiscira en torno al Termodonte, allí donde está Salmideso, mandíbula áspera del Ponto, huésped cruel a los marinos, madrastra de las naves; ellas te guiarán muy gustosamente. Entonces llegarás junto a las mismas puertas estrechas del lago, al istmo de Cimería, el cual con corazón intrépido debes dejarlo y atravesar el estrecho Meótico. Entre los mortales siempre vivirá el glorioso relato de tu paso y Bósforo recibirá de sobrenombre.

Dejando el suelo de Europa, llegarás al continente asiático. ¿No os parece que el tirano de los dioses es en todo igualmente violento? Deseando, dios como es, unirse a esta mortal lanzó contra ella este destino errante. ¡Amargo pretendiente de tu boda has encontrado, doncella! Pues el relato que acabas de oír, piensa que todavía no es ni siquiera el preludio.

ÍO. ¡Ay, ay de mí! ¡Ah, ah!

PROMETEO. De nuevo gritas y suspiras; ¿qué harás, pues, cuando sepas los sufrimientos que te restan?

CORIFEO. ¿Tienes todavía otros sufrimientos para decirle?

PROMETEO. Sí, un mar tempestuoso de fatal calamidad.

ÍO. ¿Qué gano, entonces, con vivir? ¿Por qué no al instante me arrojo de esta roca escarpada, para que, aplastándome en el suelo, me libere de todos estos males? Mejor es morir de una vez que sufrir miserablemente todos los días.

PROMETEO. Difícilmente, entonces, podrías soportar mis pruebas. Yo no tengo destinado morir, pues la muerte sería una liberación de mis dolores. Pero ahora no hay término fijado a mis trabajos, hasta que Zeus caiga de su trono.

ÍO. ¿Es posible que un día caiga Zeus de su poder?

PROMETEO. Tú te alegrarías, creo, de ver este suceso.

ÍO. ¿Y cómo no, si es por Zeus que sufro tan desgraciadamente?

PROMETEO. Que esto será así, puedes estar segura.

ÍO. ¿Quién lo despojará de su cetro tiránico?

PROMETEO. Él mismo y sus insensatos planes.

ÍO. ¿De qué manera? Dímelo, si no hay daño en ello.

PROMETEO. Contraerá una boda de la que un día se arrepentirá.

ÍO. ¿Con una diosa o con una mortal? Dímelo, si se puede.

PROMETEO. ¿Por qué con quién? No está permitido decirlo.

ÍO. ¿Acaso será derribado de su trono por su esposa?

PROMETEO. Ella tendrá un hijo más fuerte que su padre.

ÍO. ¿Y no tiene ningún medio de apartar este infortunio?

PROMETEO. No ciertamente, salvo yo desatado de estas cadenas.

ÍO. ¿Y quién te desatará sin el permiso de Zeus?

PROMETEO. Debe ser uno de tus descendientes.

ÍO. ¿Cómo dijiste? ¿Un hijo mío te librará de estos males?

PROMETEO. Sí, el tercer linaje después de diez generaciones más.

ÍO. No es fácil de comprender esta profecía.

PROMETEO. Tampoco busques conocer a fondo tus padecimientos.

ÍO. No me ofrezcas un bien para después quitármelo.

PROMETEO. De dos presentes, te concederé uno.

ÍO. ¿Cuáles? Muéstramelos y dame a elegir.

PROMETEO. Te lo concedo, elige: o te diré claramente tus males o el que me liberará.

CORIFEO. De estas dádivas concede una a ésta y otra a mí, y no desprecies mis palabras. A ella cuenta lo que le falta por correr y a mí tu libertador. Pues esto es lo que deseo.

PROMETEO. Puesto que éste es vuestro deseo, no me negaré a narrar todo cuanto deseáis. A ti, primero, lo, revelaré tu agitada carrera; grábala en las fieles tablillas de tu memoria.

Cuando hayas atravesado la corriente, frontera de los dos continentes, sigue adelante hacia los encendidos levantes pisados por el sol, cruzando el mugiente mar, hasta que alcances la llanura gorgónea de Cístenes, donde viven las Fórcides, tres viejas doncellas de figura de cisne, que tienen un ojo común, un solo diente, y a las que nunca mira el sol con sus rayos ni la nocturna luna. Cerca de ellas se hallan tres hermanas aladas con cabellera de serpientes, las Gorgonas, aborrecidas de los hombres, a las que ningún mortal puede ver sin expirar. Tal es la advertencia que te hago. Pero escucha otro peligroso espectáculo: guárdate de los perros mudos de Zeus, de dientes afilados, los grifos y del ejército Arimaspo, gente de un solo ojo, montada a caballo, que vive junto a las aguas del aurífero río Plutón: tú no te acerques a ellos.

Entonces llegarás a una tierra lejana, un pueblo de tez oscura, establecido junto a las fuentes del sol, donde está el río Etíope. Baja por las riberas de éste hasta que llegues a la catarata, en donde de los montes Biblinos Nilo vierte sus aguas augustas y saludables. Éste te conducirá hasta el país triangular nilótico, donde el destino os reserva, Ío, a ti y a tus hijos, fundar una gran colonia. Sí algo de esto es confuso y difícil de comprender, pregunta de nuevo y entérate con precisión. Dispongo de más tiempo del que quiero.

CORIFEO. Si tienes algo nuevo u olvidado que contar de su fatigosa carrera, dilo; pero si lo has dicho todo, concédenos ahora el favor que pedimos. Lo recuerdas, sin duda.

PROMETEO. Ésta ha oído enteramente el final de su viaje. Pero, porque sepa que no vanamente me escucha, le diré qué trabajos bajos ha sufrido antes de venir aquí, dándole con ello la prueba de mi relato. Con todo omitiré la mayor parte de las fatigas e iré al término mismo de tus viajes.

En cuanto llegaste a las llanuras de los morosos y al escarpado dorso de Dodona, donde está el profético asiento de Zeus Tesproto con el prodigio increíble de las encinas que hablan, las cuales te saludaron claramente y sin enigmas como la que había de ser la ilustre esposa de Zeus -¿te halaga algo de esto?-, te lanzaste, punzada por tábano, por el camino de la costa hasta el gran golfo de Real, de donde la tormenta vuelve a traer aquí tus cursos errantes. Pero con el tiempo este golfo marino, sábelo bien, será llamado Jonio, recuerdo para todos los mortales de tu paso. Ésta es la prueba de que mi mente ve más de lo que es manifiesto.

Lo demás os lo relataré a la vez a vosotras y a ésta, volviendo sobre la huella de mi anterior relato. Hay una ciudad, Cánobo, en el extremo del país, junto a la misma boca y alfaque del Nilo; allí Zeus, imponiéndote su mano serena, al simple contacto, te vuelve el juicio; y darás a luz un hijo, cuyo nombre recordará que hizo nacer Zeus, el negro Épafo, que recogerá el fruto de todo el país que riega el Nilo de ancha corriente. La quinta generación después de él, formada por cincuenta doncellas, volverá de nuevo a Argos no de buen grado, huyendo de unas bodas consanguíneas con sus primos; éstos, en el frenesí de su deseo, halcones que van a la caza de palomas, vendrán también dando caza a unas bodas prohibidas. Mas un dios les negará lo que desean, y el país pelasgo los recibirá, vencidos por los golpes de un Ares femenino con una audacia que vela en la noche; pues cada esposa quitará la vida a su esposo tiñendo en el degüello una espada de doble filo. ¡Tal venga Cipris a mis enemigos! A una sola de las muchachas el encanto del amor no le deja dar muerte al compañero de lecho, sino que será ablandada en su resolución; de dos cosas preferirá una, ser llamada cobarde antes que asesina. Y ésta, en Argos; dará a luz a un real linaje. Sería necesario un largo discurso para exponerlo claramente; sabed, al menos, que de esta siembra nacerá el hombre valiente, famoso por su arco, que me librará de estos tormentos. Tal es el oráculo que me contó mi madre, la titánide Temis, de antiguo nacida. Mas, cómo y de qué manera, se necesita mucho tiempo para decirlo, y tú no ganarías nada con saberlo.

ÍO. ¡Ah, ah! Una convulsión, un delirio que turba mi mente, vuelven a abrasarme; el dardo sin forjar del tábano me hiere; mi corazón horrorizado palpita en mi pecho; mis ojos giran en sus órbitas. Arrastrada fuera del camino por un viento furioso de locura no gobierno mi lengua, y confusos pensamientos chocan al azar contra las olas de odiosa Ate. (Ío sale apresuradamente.)

CORO. Sabio, sí, sabio era el primero que concibió en su espíritu y formuló con la lengua que casarse según su rango es con mucho lo mejor, y cuando se es artesano no ambicionar unas bodas con gente enervada por las riquezas o envanecida por el linaje.

¡Ojalá que nunca, nunca, oh Moiras inmortales, me veáis aproximarme como esposa al lecho de Zeus, ni conseguir por marido a alguien de los dioses! Pues me estremezco al ver la doncella Ío, hostil al varón, consumirse, gracias a Hera, en la fatigosa carrera de sufrimientos.

A mí, una boda con un igual, no me asusta. Lo que temo es que el amor de dioses poderosos me mire con su ojo inevitable.

Pues es una guerra contra la cual no es posible la guerra, sin más esperanza que la desesperanza, y no sé qué sería de mí. Porque no veo cómo podría escapar a la voluntad de Zeus.

PROMETEO. En verdad, todavía Zeus, por altivo que sea de corazón, será humilde, según la boda que se dispone a contraer, que lo arrojará aniquilado de su tiranía y de su trono. Entonces se cumplirá del todo la maldición de su padre Cronos, que pronunció al caer de su antiguo trono. De estos trabajos, ningún dios, salvo yo, podría mostrarle claramente la solución. Yo lo sé y de qué forma. Después de esto, que esté sentado, animoso y confiado en los ruidos con que llena los aires, blandiendo en sus manos un dardo flamígero. Nada de esto le bastará para no caer ignominiosamente con una caída intolerable: tal es el adversario que se está preparando contra sí mismo, prodigio invencible, que encontrará una llama más poderosa que el rayo y un ruido más ensordecedor que el trueno; y dispersará el azote marino que sacude la tierra, el tridente, lanza de Poseidón. Cuando choque con este mal, aprenderá qué diferencia hay entre mandar y ser esclavo.

CORIFEO. Tú rechazas, según tus deseos, a Zeus.

PROMETEO. Digo lo que se cumplirá y además lo que deseo.

CORIFEO. ¿Hay que esperar a que alguien mande sobre Zeus?

PROMETEO. Y tendrá que soportar fatigas más pesadas que las mías.

CORIFEO. ¿Cómo no tienes miedo de lanzar palabras como éstas?

PROMETEO. ¿Y qué puede temer aquel que está decretado que no muera?

CORIFEO. Puede enviarte una prueba más dolorosa que ésta.

PROMETEO. Que lo haga: todo lo espero.

CORIFEO. Sabios son los que se inclinan ante Adrastea.

PROMETEO. Adora, implora, adula al poderoso del momento; a mí me importa Zeus menos que nada. Que haga, que mande como quiera durante este corto período; pues no reinará mucho tiempo sobre los dioses.

Pero veo a ese correo de Zeus, al servidor del nuevo tirano; seguramente viene a comunicar algo nuevo.

(Llega Hermes conducido por sus sandalias aladas.)

HERMES. A ti, el diestro, sumamente mordaz, que ofendiste a los dioses, pasando a los efímeros sus privilegios, ladrón del fuego, a ti te lo digo: el padre te manda decir qué bodas son ésas de que tanto alardeas por las cuales él caerá de su trono. Y esta vez explícate sin enigmas y cada cosa por separado. No me obligues, Prometeo, a un doble viaje, porque ya ves que Zeus no se ablanda con tus procedimientos.

PROMETEO. He aquí un discurso solemne y lleno de arrogancia, como de un criado de los dioses. Sois jóvenes y ejercéis un poder joven, y creéis que habitáis una fortaleza inaccesible a los dolores. Pero ¿no he visto ya a dos soberanos caídos de estas alturas? Y al tercero, al que ahora señorea, lo veré con más ignominia y rapidez. ¿Acaso te parezco tener miedo y agazaparme delante de los dioses jóvenes? Mucho, más bien todo, me falta para ello. Y tú regresa de nuevo por el camino que seguiste, pues no sabrás nada de lo que intentas averiguar de mí.

HERMES. Sin embargo, con estas arrogancias de antaño has venido a anclar en estos males.

PROMETEO. No cambiaría, sábelo bien, mi desgracia por tu servil condición. Es mejor, creo, estar esclavizado a esta roca que ser el fiel mensajero del padre Zeus. Es así que a los ultrajes hay que corresponder con ultrajes.

HERMES. Pareces envanecerse de tu actual situación.

PROMETEO. ¿Yo envanecerme? Así viera yo envanecidos a mis enemigos. Y a ti te cuento entre ellos.

HERMES. ¿También a mí me acusas, de tus desgracias?

PROMETEO. En una palabra, odio a todos los dioses que habiendo recibido beneficios de mí, me tratan inicuamente.

HERMES. Comprendo que deliras de una gran enfermedad maligna.

PROMETEO. Soy enfermizo si enfermedad es odiar a los enemigos.

HERMES. Serías insoportable si estuvieras bien.

PROMETEO. ¡Ay de mí!

HERMES. Zeus no conoce esta palabra.

PROMETEO. El tiempo, al envejecer, todo lo enseña.

HERMES. Tú, sin embargo, todavía no sabes ser sensato.

PROMETEO. Ciertamente, no habría hablado a un criado como tú.

HERMES. Parece que no quieres decir nada de lo que desea el padre.

PROMETEO. Estando en deuda con él, debería devolverle el favor.

HERMES. Te burlas de mí como si fuera un niño.

PROMETEO. ¿No eres un niño y algo más simple todavía, si esperas saber alguna noticia de mí? No hay ultraje ni artificio con cuales me impele Zeus a declarar esto antes de que desate estas cadenas infamantes. Según ello, que lance la llama devoradora, que con la nieve de blanca ala y con truenos subterráneos confunda y agite todo el universo; nada de ello me doblegará hasta revelarle por quién ha de caer de su tiranía.

HERMES. Mira si esta actitud te resulta útil.

PROMETEO. Hace tiempo que todo está visto y decidido.

HERMES. Decídete, insensato, decídete a razonar bien ante estos sufrimientos.

PROMETEO. En vano me importunas, como si exhortaras a una ola. No imagines que un día, asustado por el decreto de Zeus, llegue a ser de alma mujeril y suplique al gran odiado, levantando hacia él mis palmas a guisa de mujer, para que me libere de estas trabas.

HERMES. Me parece que, si hablo, voy a hablar mucho y en vano, pues en nada te conmueves ni ablandas con ruegos; sino que mordiendo el bocado como un potro recién domado, te rebelas y luchas contra las riendas. Sin embargo, tu violencia se funda en un débil razonamiento: pues la obstinación, para el que razona mal, nada puede por sí misma. Considera, si no te convencen mis palabras, qué tempestad, qué triple ola de desgracias te caerá inexorablemente encima. Primero, ese escarpado pico, con el trueno y la llama del relámpago, el padre lo hará pedazos y esconderá tu cuerpo que quedará aprisionado en los brazos encorvados de la piedra. Cuando haya transcurrido una larga duración de tiempo, regresará nuevamente a la luz; pero entonces el perro alado de Zeus, el águila sangrienta, desgarrará vorazmente un gran jirón de tu cuerpo, un comensal que, sin ser invitado, vendrá todos los días a regalarse con el negro manjar de tu hígado. No esperes un término de este suplicio hasta que aparezca un dios dispuesto a sucederte en los trabajos y se ofrezca a descender al tenebroso Hades y a las oscuras profundidades del Tártaro. Ante esto, reflexiona; pues no se trata de una jactancia fingida, sino de una

palabra muy bien pronunciada. Porque la boca de Zeus no sabe mentir, sino que cumple todo lo que dice. Tú mira bien y medita y no creas jamás que la insolencia sea mejor que el prudente consejo.

CORIFEO. Para nosotras, Hermes no parece hablar desatinadamente: porque te invita a dejar la arrogancia y a buscar la sabia discreción. Escucha: para un sabio es vergonzoso persistir en el error.

PROMETEO. Conocía yo el mensaje que ha vociferado; pero que un enemigo sea maltratado por enemigos, no es deshonroso. Así pues, que lance contra mí el rizo de fuego de doble filo, que el éter sea agitado por el trueno y la furia de vientos salvajes; que su soplo sacuda la tierra y la arranque de sus fundamentos con sus raíces; que la ola del mar con áspero bramido confunda las rutas de los astros celestes; que precipite mi cuerpo al negro Tártaro en los implacables torbellinos de la Necesidad. Sin embargo, él nunca me hará morir.

HERMES. Tales son los pensamientos y las palabras posibles de oír de seres sin juicio. ¿Qué falta a su suplicio para ser un delirio? ¿Se relaja en sus furores? Pero en todo caso, vosotras que compartís sus sufrimientos, retiraos aceleradamente de estos lugares, no sea que el mugido implacable del trueno aturda vuestros sentidos.

CORIFEO. Háblame de otras maneras y exhórtame en términos que me convenzan, pues de ninguna manera se puede tolerar la palabra que acabas de soltar. ¿Cómo puedes obligarme a practicar villanías? Con Prometeo quiero sufrir lo que sea preciso, pues he aprendido a odiar a los traidores, y no hay peste que aborrezca más que ésta.

HERMES. Bien, pues, no olvidéis lo que ahora os prevengo, y cuando seáis botín de la calamidad no reprochéis a la fortuna y nunca digáis que Zeus os lanzó a un padecimiento imprevisible, sino, en verdad, vosotras a vosotras mismas. Porque sabiéndolo y sin sorpresas ni engaño os encontraréis por vuestra locura prendidas en la red inextricable de Ate. (Hermes se retira. El huracán empieza a desencadenarse y la tierra a temblar.)

PROMETEO. Ahora no se trata ya de palabras sino de hechos: la tierra tiembla, al tiempo que en sus zigzagueantes profundidades muge el eco del trueno; relámpagos fulguran encendidos; torbellinos agitan tolvaneras; soplos de todos los vientos saltan unos contra otros, anunciando una lucha de hostil aliento; se mezclan confundidos el cielo con el mar. Tal es el ímpetu de Zeus que, intentando asustarme, avanza claramente contra mí.

¡Oh majestad de mi madre, oh Éter que haces girar la luz común a todos! ¡Ya veis de qué manera tan injusta! (Las rocas, con Prometeo y las Océanides, se sumergen estrepitosamente entre rayos y truenos.)

FIN