Come e perchè il neoliberalismo ha inghiottito (e digerito) il feminismo. Carlo Formenti. 2021

Marxismo e liberalismo non sono solo due ideologie: sono anche ideologie[1], ma sono anche e soprattutto due paradigmi reciprocamente incompatibili, nella misura in cui incorporano visioni del mondo, principi e valori etici, metodi di analisi scientifica, bisogni umani e obiettivi politici fra loro antagonisti, così come sono antagonisti gli interessi di classe rappresentati dai partiti e movimenti che ad essi si inspirano.

La tesi che sosterrò in questo scritto è che il femminismo – termine con cui non intendo qui quel variegato insieme di correnti culturali che esiste da più di un secolo, bensì il movimento femminista politicamente organizzato, nato fra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta -, inizialmente sviluppatosi come articolazione interna del paradigma marxista (cui ha apportato il proprio contributo, allargando il concetto di sfruttamento ed evidenziando il ruolo del lavoro riproduttivo per la conservazione degli equilibri della società capitalistica), se ne è progressivamente separato, impegnandosi – senza successo – ad autodefinirsi come paradigma autonomo – e sotto vari aspetti concorrente – rispetto al marxismo, ottenendo quale unico risultato la propria integrazione nel paradigma liberale (nella forma neoliberale che quest’ultimo ha assunto a partire dagli anni Ottanta), del quale rappresenta oggi a tutti gli effetti una corrente ideologica (e qui il termine – diversamente da quanto chiarito in nota (1) – va inteso nel senso corrente di falsa coscienza).

Per sostenere quanto appena affermato, non mi avvarrò della produzione letteraria delle correnti mainstream del femminismo, anche perché, nel loro caso, la tesi di cui sopra suona scontata, ma prenderò in esame tre autrici – Silvia Federici, Nancy Fraser e Catherine Rottenberg – le quali, sia pure in diversa misura e con approcci differenti, rivendicano tuttora un punto di vista marxista, perlomeno su alcuni temi, e si pongono criticamente nei confronti del femminismo neoliberista.

Una scelta che consente di rendere ancora più evidente 1) che, nella misura in cui il femminismo si pone come paradigma autonomo e “alla pari” con il paradigma marxista, finisce per produrre discorsi eclettici che con il marxismo poco o nulla hanno a che fare; 2) che, malgrado l’atteggiamento critico nei confronti del femminismo neoliberale, anche un certo femminismo socialista finisce di fatto per convergere con quest’ultimo, subendone l’egemonia su una serie di questioni che hanno un peso strategico nei rapporti di forza fra capitale e lavoro.

Parto da Silvia Federici, autrice che in un saggio di qualche anno fa[2] avevo citato come un esempio, ancorché contraddittorio, di resistenza del femminismo marxista nei confronti dell’egemonia neoliberale, riferendomi soprattutto al libro Il punto zero della rivoluzione [3]. Con l’uscita di Genere e Capitale[4] mi pare che questo equivoco sia da considerarsi sciolto.

Infatti basta leggere il primo capitolo (“Marxismo, femminismo e patriarcato del salario”) per capire che la “lettura femminista di Marx” cui allude il sottotitolo ha poco a che fare con Marx. In primo luogo, perché marxismo e femminismo sono presentati come due “movimenti teorico politici” che vengono messi sullo stesso piano. Peccato che il marxismo abbia prodotto sconvolgimenti storici (dalla Rivoluzione d’Ottobre alla Rivoluzione Cinese, per citare solo i due casi più clamorosi) che hanno cambiato la vita di miliardi di esseri umani (uomini e donne) mentre il femminismo finora ha prodotto esclusivamente campagne di opinione che riguardano solo Stati Uniti ed Europa e solo una parte – appartenente alle classi medio elevate – della popolazione femminile di questa minoranza dell’umanità, la quale continua però a considerarsi la sola che conti; e ha contribuito a cambiare, non i rapporti di forza fra sfruttatori e sfruttati (che nei decenni del boom femminista sono drasticamente peggiorati a danno dei secondi, anche se di ciò non intendo attribuire la responsabilità al femminismo) ma la retorica del discorso politico dominante (retorica che, grazie alle reazioni di rigetto generate dai deliri del politicamente corretto, ha gettato milioni di proletari – uomini e donne – nelle braccia dei populisti di destra).

Di più: Federici parla della “difficoltà del femminismo socialista di integrare il marxismo nel femminismo”, dal che si deduce che femminismo e marxismo, in realtà, non vengono affatto messi sullo stesso piano, bensì si dà per scontata la superiorità del primo (altrimenti si parlerebbe semmai della difficoltà di integrare il femminismo nel marxismo).

Il che presuppone a sua volta la convinzione che la contraddizione capitale lavoro vada ricompresa, sussunta (aufhebung per dirla con Hegel) nella contraddizione di genere. Infatti Federici, partendo dalla giusta considerazione che le divisioni di genere e di razza svolgono un ruolo importante nella costruzione delle gerarchie del lavoro (questione che Marx aveva perfettamente presente) arriva a sostenere (contro David Harvey, il quale considera contingenti e non logicamente necessari questi fattori) che il capitalismo sarebbe strutturalmente sessista, razzista e coloniale. Un’affermazione che si regge esclusivamente se riferita al colonialismo, la cui necessità strutturale – in senso marxiano! – è stata ampiamente dimostrata[5].

Il punto è – questione cruciale su cui dovremo tornare – che qui il termine “strutturalmente” non è usato nella sua accezione marxiana (che Federici, al pari delle autrici di cui ci occuperemo fra poco, liquida come “economicista”) bensì nel significato che gli viene comunemente attribuito dopo la svolta “culturalista” delle scienze sociali.

In altre parole, i suoi riferimenti teorici sono – più che Marx – Foucault, Antonio Negri e gli altri maestri della contaminazione fra marxismo e filosofie postmoderne, come certificato dalla sua rivendicazione di appartenenza a quella corrente culturale antistatalista e “benecomunista” che assume come modello di società alternativa al capitalismo, non il socialismo, bensì quei rapporti comunitari “che ridefiniscono il concetto marxiano di socialismo”. Per farla breve: la “difficoltà” di integrare il marxismo nel femminismo di cui parla Federici rispecchia la assoluta impossibilità di integrare due ordini di discorso che c’entrano fra loro come i proverbiali cavoli a merenda.

Veniamo a Nancy Fraser. Il mio atteggiamento nei confronti di questa autrice ha subito una evoluzione simile a quella appena descritta a proposito di Silvia Federici. In diversi miei lavori[6] avevo descritto il suo discorso come il più solido e attendibile baluardo contro la marea neoliberista che il femminismo socialista sia ad oggi riuscito ad erigere. Tale giudizio si fondava in particolare su Fortune of Feminism[7], e su una serie di articoli in cui aveva condotto una critica serrata del femminismo mainstream e della sua piena integrazione nel fronte del “progressismo neoliberale”.

È per questo motivo che ho voluto ospitare la traduzione del suo dialogo con la sociologa svizzera Rahel Jaeggi – Capitalismo [8]– nella collana Meltemi “Visioni eretiche”, da me diretta. Rileggendo a distanza di un anno l’edizione italiana di quel testo (che avevo letto solo in parte nella versione inglese) ho avuto la sensazione che la sua posizione marxista – peraltro già ibridata con inserti post strutturalisti – si sia fatta meno chiara e salda di quanto non fosse in passato. Una sensazione corroborata dalla lunga e articolata recensione che Alessandro Visalli[9] ha dedicato al libro in questione sul suo blog.

Parto dalle ragioni per cui considero tuttora utile il contributo della Fraser. In primo luogo, perché, al contrario di Silvia Federici, non solo non condivide la critica femminista allo statalismo welfarista, ma anzi considera tale critica funzionale all’attacco neoliberista che, a partire dagli anni Ottanta, ha distrutto i rapporti di forza dei lavoratori (e delle lavoratrici), eliminando le protezioni e le garanzie – frutto di secolari lotte di classe – che consentivano di resistere alle pressioni padronali su livelli salariali e condizioni di vita, e creando condizioni favorevoli ai processi di precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro.

Considera parimenti controproducente il modo in cui il femminismo ha criticato il cosiddetto “salario familiare” (cioè il reddito garantito dal solo componente maschile della coppia) nella misura in cui ha di fatto legittimato quel capitalismo flessibile che, attraverso l’arruolamento in massa di forza lavoro femminile nel processo produttivo, è riuscito a mettere in competizione lavoratori e lavoratrici abbassando il salario per tutti (invece di elevare quello femminile al livello di quello maschile) e facendo sì che ora si debba lavorare in due per guadagnare ciò che prima guadagnava uno.

Sostiene inoltre che la presa di distanza delle femministe dall’economismo marxista (che sostanzia le critiche alle politiche redistributive del movimento operaio di cui sopra) hanno buttato via il bambino con l’acqua sporca. Infine, oltre a esprimere scetticismo nei confronti della cultura della politicizzazione del personale, rovescia il punto di vista della Federici, parlando di integrazione del femminismo nel marxismo e non viceversa.

Tuttavia è esattamente quest’ultimo il nodo che fa problema: questa integrazione, infatti, dal suo punto di vista significa integrare nel paradigma marxista le “intuizioni” postcoloniali, post strutturaliste, ecologiste ecc. che stanno alla base del “femminismo della seconda ondata”.

In altre parole, si tratterebbe di conciliare “giustizia distributiva” e “giustizia del riconoscimento” [10], perché se è vero che i movimenti concentrati sul riconoscimento delle varie identità di gruppo hanno finito per trascurare la dimensione della distribuzione, è altrettanto vero, sostiene Fraser, che i movimenti dei lavoratori concentrati sulle rivendicazioni salariali hanno costantemente trascurato la dimensione del riconoscimento identitario.

Il punto è che questa aspirazione a “riequilibrare” i due ordini di discorso finisce – dal momento che essi non rispecchiano due approcci ideologici, bensì , come chiarito sopra, due paradigmi – per risolversi necessariamente nell’affermazione egemonica di uno dei due rispetto all’altro e, anche nel caso della Fraser, come cercherò di mostrare riprendendo le osservazioni di Visalli, il paradigma che finisce per prevalere è quello femminista, in barba alle sue professioni di marxismo.

La pietra d’inciampo, come per la Federici, sta nella stratificazione interna alla classe degli sfruttati secondo linee di genere e di razza (cui si sono aggiunte quelle evocate dalla cultura LGBTQ), stratificazione che giustificherebbe l’esigenza di integrare rivendicazioni di giustizia di riconoscimento e rivendicazioni di giustizia distributiva, in quanto si presume che questa stratificazione avrebbe motivi strutturali (vedi sopra le considerazioni in merito all’ambiguità di tale concetto), sarebbe cioè una necessità per la auto conservazione del modo di produzione capitalistico.

Ora a contestare questa affermazione è, nel dialogo sopra citato, Rahel Jaeggi – che marxista non è ma, in quanto allieva della scuola di Francoforte, possiede una raffinata padronanza del pensiero dialettico – la quale rinfaccia alla Fraser che, dalla sua argomentazione teorica, non si evince alcun motivo per cui gli sfruttati debbano essere categorizzati in base a confini di genere e/o di razza, e aggiunge che, ciò posto, l’ordine di genere e di razza descrive semplicemente i modi empirici in cui espropriazione e sfruttamento sono stati storicamente organizzati (che è poi esattamente quanto sostiene Harvey – vedi sopra). Cito letteralmente qui di seguito la sua argomentazione:

tu dici che il capitalismo separa la storia in primo piano, quella della produzione di merci, da quella sullo sfondo, quella dell’espropriazione e della riproduzione sociale. Dici anche che il sessismo ed il razzismo sono intrinseci al capitalismo fintanto che esso assegna le funzioni della storia sullo sfondo a popolazioni appositamente designate, che di conseguenza saranno razzializzate e femminilizzate.

Ma lasci aperta un’altra possibilità. E se il capitalismo non richiedesse questa seconda condizione? E se mirasse a espropriare e ‘riproduttivizzare’ quasi tutti, esigendo manodopera in quelle dimore nascoste dall’intera popolazione che non possiede capitale, oltre a ciò che esso già richiede loro attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato? Non è uno scenario possibile? E se lo fosse, il risultato non sarebbe un capitalismo non razzista, non sessista?

Ebbene, come giustamente sottolinea Visalli nella sua recensione, di fronte a questa obiezione Fraser appare palesemente in difficoltà, nel senso che è indotta ad ammettere che l’ipotesi della Jaeggi è “logicamente possibile”, ma poi se la cava aggiungendo che la si può escludere “per tutti gli scopi pratici”. Ora è pur vero che la storia della cultura femminista è ricca di disinvolte alzate di spalle nei confronti delle pretese di rigore logico della filosofia “maschile” – do you remember Sputiamo su Hegel?[11] -, ma è altrettanto vero che, per un’autrice che si richiama al marxismo, doversi aggrappare ad un’argomentazione puramente empirica (argomentazione che, per inciso, appare sempre più debole anche sul piano fattuale, a fronte d’una cultura imprenditoriale che esalta le differenze di genere, età, razza e gusti sessuali [12] come vantaggi competitivi per la moderna forza lavoro, in particolare per i suoi strati medio elevati), non è certamente il massimo.

E tuttavia non ha alternative perché, se dovesse ammettere che sessismo e razzismo non sono necessità organiche per il modo di produzione capitalistico, ma sono derubricabili a permanenze residue, l’intera parabola femminista si ridurrebbe a una lotta di retroguardia contro tali arcaismi culturali e contro le forze politiche che li incarnano (che non sono certamente le élite dominanti liberal progressiste, le quali, al contrario, hanno fatto della retorica femminista uno dei loro tratti caratterizzanti).

Per dare un minimo di consistenza alle presunte radici strutturali su cui si fonderebbe la necessità capitalistica di mantenere l’oppressione di genere, Fraser deve imbarcarsi in un complicato ragionamento sul ruolo economico – deponendo quindi le armi del femminismo “culturalista” e recuperando quelle dell’economismo marxista – del processo riproduttivo. Ma anche qui, come vedremo più avanti, inciampa in difficoltà e contraddizioni irrisolvibili. Prima di occuparmene, tuttavia, discuterò le tesi che Catherine Rottenberg avanza nel suo L’ascesa del femminismo neoliberale[13].

Al libro della Rottenberg dedicherò più spazio perché, trattandosi di un’autrice che appartiene a una generazione successiva a quella di Federici e Fraser, e non collocandosi nel campo del femminismo marxista e socialista, ma piuttosto in quello della cultura post coloniale, post strutturalista e foucaultiana, è più vicina – benché lo critichi – al femminismo neoliberale e, almeno sotto certi aspetti, lo considera un fenomeno positivo con cui le femministe “ortodosse” dovrebbero confrontarsi, senza rinunciare al dialogo. Sono caratteristiche che ben si prestano a evidenziare come tutte queste varianti del femminismo – apparentemente in conflitto reciproco – siano in realtà strettamente interconnesse, e come il tanto vituperato femminismo neoliberale non abbia fatto altro che sviluppare – banalizzandoli e popolarizzandoli – tendenze e presupposti teorico politici già presenti nelle correnti più radicali e culturalmente “rigorose” del movimento.

Rottenberg descrive i tratti distintivi del neoliberalismo in modo non dissimile da quello di molti autori marxisti[14]. In particolare sottolinea che: 1) mentre il liberalismo classico si fondava sulla separazione fra sfera pubblica e sfera privata, il neoliberalismo tende a erodere il confine fra tali sfere nella misura in cui “esporta” la razionalità economica in tutti gli ambiti della vita, riducendo le persone a “capitale umano”; 2) il neoliberalismo produce soggetti imprenditorializzati (diventa imprenditore di te stesso!) orientati a “investire” su di sé e resi responsabili del proprio benessere (la cura di sé come terapeutizzazione del soggetto, che è chiamato a “imparare a essere felice” e a occuparsi del proprio stato emotivo); 3) il neoliberalismo produce soggetti radicalmente individualizzati che competono gli uni con gli altri per “ottimizzare” il proprio capitale umano e organizzare la propria vita in base al calcolo razionale del rapporto costi/benefici.

Dopodiché si passa a descrivere il modo in cui il neoliberalismo ha riconfigurato il femminismo a sua immagine a somiglianza. In primo luogo, la Rottenberg cerca di spiegare perché il neoliberalismo aveva “bisogno” del femminismo per risolvere le sue contraddizioni interne (il che ci riporta al tentativo di definire un rapporto di necessità strutturale fra capitale e funzione riproduttiva femminile).

Se è vero che per il neoliberalismo tutte le persone – donne e uomini – non sono altro che capitale umano, cioè unità produttive neutre, sembrerebbe trovare conferma l’obiezione critica della Jaeggi a Fraser (vedi sopra), ma Rottenberg se la cava dicendo che per riprodursi il capitalismo ha bisogno che le donne generino figli, cioè futuri lavoratori. Ora, posto che questa esigenza non è specifica del modo di produzione capitalistico, ma di tutte le forme sociali che lo precedono (e di quelle che auspicabilmente lo seguiranno), è evidente che il problema del processo riproduttivo non può essere appiattito sulla biologia (con la conseguenza, per inciso, di ri-naturalizzare la differenza di genere) ma implica tematiche più ampie (ci torneremo più avanti). Ma passiamo al modo in cui Rottenberg descrive l’uso capitalistico (neoliberale) del femminismo.

Analizzando una serie di esempi tratti dalla copiosa produzione letteraria di donne in carriera (di sinistra, ma anche di destra, compresa una certa Ivanka Trump!), Rottenberg evidenzia il filo rosso che le attraversa: il leitmotiv di questi scritti – che echeggiano la straboccante produzione editoriale di manuali di self help – è la descrizione del modo in cui si può conciliare successo personale e un’appagante vita familiare.

Ovviamente, a disturbare la sensibilità femminista “classica” dell’autrice, è il fatto che in questi testi si danno per scontati, oltre alle aspirazioni professionali, relazioni eterosessuali e desiderio di maternità (anche se le si potrebbe obiettare che la visione di un felice equilibrio lavoro- famiglia sarebbe perfettamente condivisibile anche da una coppia omosessuale con figli nati attraverso la pratica dell’utero in affitto). Un altro aspetto che viene messo in luce è l’enfasi sulla necessità di coltivare e cambiare se stesse (ma tutto questo non vi richiama alla mente le pratiche di autoscoscienza? Niente di nuovo sotto il sole, almeno da questo punto di vista…).

Dopodiché Rottenberg batte insistentemente su un altro tasto: il classico slogan il personale è politico, che mirava a riconfigurare il privato come parte del pubblico, viene rovesciato, nel senso che questo nuovo femminismo mira piuttosto a riconfigurare il pubblico in relazione alle esigenze e ai bisogni del privato (promuovendo condizioni che, in azienda come in società, siano più favorevoli all’equilibrio lavoro-famiglia di cui sopra).

L’annotazione è interessante, in quanto consente di evidenziare come questo “rovesciamento” era in realtà già immanente alla versione originaria dello slogan: affermare che il personale è politico vuol dire infatti dare il via a quell’erosione del confine fra le due sfere che verrà sfruttato dall’ideologia neoliberale per creare una dimensione dove tutto – a partire dalla politica – è personalizzato, dove la sfera pubblica – vedi in proposito quanto scritto da Richard Sennett[15] – è letteralmente neutralizzata. La politicizzazione del personale si rovescia così nella spoliticizzazione di tutti i rapporti sociali – pubblici e privati, sempre più reciprocamente confusi – che da ora in avanti potrà e dovrà essere combattuta solo riaffermando con decisione il principio secondo cui il politico non è personale.

Ma torniamo alla critiche al femminismo neoliberale. Rottenberg sottolinea giustamente come questa ideologia incarni le esigenze, gli interessi e i bisogni una minoranza privilegiata di donne bianche appartenenti alle classi medio elevate. Per raggiungere l’auspicato equilibrio lavoro-famiglia, questi soggetti decentrano il lavoro di cura a donne che appartengono a classi sociali – e a etnie – “inferiori” il che produce un curioso paradosso: in questo modo si realizza, sia pure con modalità impreviste e imprevedibili, la famosa rivendicazione del salario al lavoro domestico, e tuttavia ciò non coincide con il passaggio verso la liberazione, bensì rappresenta la via attraverso la quale si è prodotta una nuova discriminazione di classe e e di razza tutta interna al genere.

Rottenberg scrive, a tale proposito, che il privilegio dell’1% delle donne si basa sullo sfruttamento del 99%. Ma questa affermazione è contestabile da due distinti punti di vista: in primo luogo, non è per nulla vero che si tratta dell’1%, visto che quella minoranza di privilegiate non è fatta solo da manager, politiche, attrici, pop star, campionesse sportive, influencer, ecc. ma è fatta di milioni di appartenenti alle classi medio alte che, nei decenni scorsi, hanno potuto usufruire – grazie alla finanziarizzazione dell’economia – di parte dei sovraprofitti realizzati delle élite dominanti; secondariamente la maggioranza degli sfruttati non è fatta solo di donne, perché se è vero che il lavoro di cura mercenario è in larghissima misura femminile, è altrettanto vero che i soldi con cui viene pagato vengono dallo sfruttamento di milioni di proletari – donne e uomini, gente di colore e bianchi poveri.

Infine Rottenberg mette in luce come il femminismo neoliberista fornisca argomenti politici per sostenere la “superiorità” della civiltà occidentale, che viene contrapposta a tutte le altre nella misura in cui è la sola a riconoscere – e a garantire – la parità effettiva uomo-donna. E, ciò che è più grave, questo femminismo viene impugnato come arma propagandistica per giustificare gli interventi dell’imperialismo occidentale (americano in primis) nei Paesi a maggioranza musulmana, in quanto funzionali a tutelare i diritti delle donne di quei Paesi (poco male se migliaia di donne pagano con la vita quelle “ingerenze umanitarie”).

A conclusione di questa requisitoria ci si potrebbe aspettare la messa al bando del femminismo neoliberale in nome dei principi del “vero” femminismo. Invece no. Per Rottenberg occorre riconoscere che, malgrado i molti demeriti (che però non devono alimentare atteggiamenti “colpevolizzanti”, per cui critica la durezza della posizione assunta dalla Fraser su questo argomento), il femminismo neoliberale non è privo di meriti.

In primo luogo, scrive, dopo un’era “post femminista” in cui il femminismo sembrava essere sparito dall’orizzonte delle culture occidentali, nella misura in cui si dava per scontato che la parità di genere era stata sostanzialmente raggiunta, questa nuova ondata, malgrado la sua “arretratezza” culturale e politica, ha contribuito a diffondere la consapevolezza che le discriminazioni di genere esistono ancora, con il risultato che aumenta continuamente il numero delle giovani donne che si dichiarano femministe e, anche se esse non ne traggono le dovute conseguenze politiche, ciò fa sì che il femminismo sia divenuto accettabile (ma sarebbe meglio dire egemone, perlomeno negli Stati Uniti e non solo) in misura mai vista in precedenza.

Attribuisce qualche merito persino a Ivanka Trump, la quale, descrivendo la sua esperienza di lavoro di cura in termini asetticamente manageriali, avrebbe dato un contributo nello smontare l’idea dell’esistenza di un naturale istinto di cura femminile. Insomma: tracciare un confine [16] fra il “vero” femminismo e il femminismo neoliberale è impossibile, ma soprattutto sarebbe politicamente controproducente.

Questo atteggiamento “ecumenico” sembrerebbe estendersi oltre i confini di genere, nella misura in cui l’autrice di cui mi sto occupando sostiene di inspirare la propria visione politica al pensiero di Judith Butler, notoriamente in contrasto con quella ortodossia femminista che trascura le altre dimensioni del conflitto politico e sociale a favore del solo conflitto di genere [17].

In particolare, Rottenberg fa propria la categoria di precarietà, che, secondo Judith Butler [18], sarebbe il trait d’union che consentirebbe di aggregare in un blocco antisistema individui, gruppi e popolazioni che, di per sé, non solo avrebbero poco da spartire gli uni con gli altri, ma sarebbero portatori di interessi potenzialmente conflittuali.

In quanto portatori di un comune status precario – che la Butler, e Rottenberg con lei, non riconduce a fattori economici – donne, LGBTQ, poveri, minoranze etniche e religiose, ecc. potrebbero confluire in un fronte unitario, se non unito, di resistenza. Ritroviamo qui il rifiuto dell’economismo di matrice marxista, al quale si contrappone una visione culturalista del conflitto sociale, per cui le ragioni della giustizia di riconoscimento vengono inevitabilmente anteposte a quelle della giustizia distributiva (innescando radicali effetti di rigetto nei confronti delle sinistre liberal da parte delle classi subalterne). Troviamo, anche, un approccio che somiglia al concetto di “catena equivalenziale” elaborato da Ernesto Laclau e Chantal Mouffe [19], secondo cui un “popolo” si costruisce come sommatoria di rivendicazioni eterogenee che hanno come comun denominatore il fatto di non trovare risposta da parte delle élite dominanti (anche in questo caso le soggettività in gioco sono definite sul piano simbolico e non in relazione all’appartenenza di classe).

La differenza con il discorso populista di Laclau-Mouffe, sembrerebbe essere che, mentre quest’ultimo presuppone un momento di “verticalizzazione” della catena equivalenziale, si pone cioè il problema di quale soggetto individuale (leader) o collettivo (movimento) debba svolgere un ruolo egemonico all’interno della catena, la visione di Butler-Rottenberg parrebbe rigorosamente “orizzontalista” (il che lo accomuna ai discorsi di Federici e Fraser che assumono a loro volta quale modello il movimento Occupy Wall Street e la sua proiezione elettorale nella sinistra democratica di Bernie Sanders, Ocasio Cortez e altri).

Apparentemente, perché il ruolo egemonico, in questo «popolo» che si autoattribuisce l’estensione del 99%, laddove si riduce a una quota ideologizzata – e quindi minoritaria – di ceto medio riflessivo, spetta senza dubbio al movimento femminista, che può illudersi di esercitarlo proprio grazie al confluire nelle sue fila del femminismo neoliberale e delle sue propaggini ideologiche (MeTo, politicamente corretto, quote rosa, discorso mainstream di media e politici di regime, ecc.).

Un illusione maggioritaria che funziona, da un lato, rimuovendo il tema del conflitto di classe, che viene riformulato/neutralizzato come conflitto interno al genere (ricomponibile sulla base di una “sorellanza” universale che vede tutte le donne contrapposte in blocco a tutti i maschi – contrapposizione che è vista come la sola, “vera” contraddizione antagonista), dall’altro lato, alimentando il mito di una presunta superiorità morale del genere femminile – mito che una intellettuale femminista come Jessa Crispin [20] ha avuto il coraggio di sfatare.

Il grumo concettuale in cui tutti questi nodi vengono al pettine è quello della centralità del lavoro riproduttivo che, per tutte queste autrici, si fonderebbe sulla presunta necessità strutturale dell’oppressione di genere ai fini della riproduzione del modo di produzione capitalistico. Concludo quindi copiaincollando qui di seguito la riflessione critica che Alessandro Visalli ha dedicato a tale tema nella sopracitata recensione a un libro di Nancy Fraser:

E proprio in questo punto viene inserito il focus tematico femminista della riproduzione, intesa in modo molto largo come tutte quelle forme che “producono e mantengono legami sociali”, e consistono nella ‘tutela’, nel ‘lavoro affettivo’, nella formazione di soggetti umani come esseri incarnati e come esseri sociali.

Qualcosa che forma il loro habitus e la loro sostanza socio-etica nella quale si muovono. Si tratta, cioè, del lavoro di socializzazione dei giovani, della costruzione di comunità e di produzione e riproduzione di significati condivisi, di disposizioni affettive e orizzonti di valore che sostengono la cooperazione sociale. Il punto è che, parla la Fraser, “nelle società capitaliste molta (anche se non tutta) quest’attività continua al di fuori del mercato – nelle famiglie, nei quartieri, nelle associazioni della società civile e in una serie di istituzioni pubbliche, tra cui scuole e centri di assistenza all’infanzia e agli anziani”.

In questa formulazione così ampia si tratta di una presa di posizione indiscutibilmente corretta. Ma, se pure alcune di queste attività indispensabili e non mercatizzate (non mercatizzabili) sono comparativamente svolte in misura maggiore da donne, nessuna è specificamente ed esclusivamente femminile. Non solo le donne creano e mantengono i legami sociali, svolgono ‘lavoro affettivo’, formano esseri umani e li socializzano, costruiscono comunità e producono significati, disposizioni affettive e orizzonti di valore. Non solo le donne sostengono la cooperazione sociale.

Ma, e in questo ovviamente la mia distanza dal femminismo, io dico di più: non lo fanno principalmente le donne, e non lo fanno maggiormente le donne. Ovviamente lo fanno sia le donne sia gli uomini, e, naturalmente, lo fanno diversamente. Rivendico, in altre parole, anche come padre oltre che come essere sociale e buon amico, parte responsabile di una comunità umana, la mia capacità, pur non essendo donna, di produrre e mantenere legami sociali, di amare e essere capace di tutela dei più deboli e dei vicini e parenti, di contribuire per la mia parte a formare soggetti umani come esseri incarnati e come esseri sociali. Rivendico la mia capacità di comprendere e rispettare l’habitus nel quale viviamo e la sua sostanza socio-etica. Di essere parte della socializzazione dei giovani, della costruzione di comunità e di produzione e riproduzione di significati condivisi, di disposizioni affettive e orizzonti di valore che sostengono la cooperazione sociale.

Ma torniamo al testo. In genere il femminismo per “riproduzione” intende strettamente l’allevamento dei nuovi esseri umani come forza lavoro (per cui, schematicamente, se non ci fossero le madri a tutta evidenza non ci sarebbero i figli, non crescerebbero, e dunque non ci potrebbero essere lavoratori). Una funzione che nella prospettiva tradizionale del cosiddetto “salario familiare” è femminilizzata. Se fosse tutto qui il femminismo sarebbe una battaglia di retroguardia, in quanto le condizioni di riproduzione sociale per l’accumulazione lo hanno superato da tempo.

Come abbiamo visto è tramontato come modello normativo e socialmente dominante con l’insorgere dell’accumulazione flessibile nella quale si è passati ai due salari e quindi alla ripartizione del lavoro su entrambi i ruoli. La Fraser propone perciò una versione molto allargata del termine, quella sopra schematizzata, al fine di rendere ancora possibile la critica femminista in un mondo nel quale in linea di principio tutti lavorano (se pure male).

Un mondo nel quale sembra si sia riprodotta quella condizione denunciata da Angela Davis in Donne, razza e classe per la quale donne e uomini erano del tutto equivalenti, in tutti i lavori, perché visti dai padroni di schiavi dei paesi del sud solo come forza lavoro.

Da una parte la ‘riproduzione’ sociale comprende ora in senso larghissimo la creazione, socializzazione e soggettivazione degli esseri umani, in tutti i loro aspetti. Quindi “anche la realizzazione e il rifacimento della cultura, delle varie aree dell’intersoggettività in cui gli esseri umani sono inseriti – le solidarietà, i significati sociali e gli orizzonti di valore nei quali e attraverso i quali vivono e respirano”. Dall’altra resta appannaggio femminile. In pratica, detto in altro modo, per la visione sessista della nostra le donne sono esseri umani completi e gli uomini solo forza lavoro.

Che altro aggiungere? A mò di conclusione mi pare di poter dire che, se esiste ancora un femminismo socialista, l’unico modo che ha per “salvarsi l’anima”, e soprattutto per non affogare nella palude del femminismo neoliberale, consiste, per dirla con Marx, nel rimettere il mondo con i piedi in terra, vale a dire nel ristabilire l’ordine gerarchico fra conflitto di classe e conflitto di genere, restituendo al primo il carattere di contraddizione strutturale – in senso marxiano, che non vuol dire affatto economista, nella misura in cui incorpora fattori etici, antropologici e storici – di tipo antagonista, e al secondo il carattere di contraddizione interna alla classe degli sfruttati, da ricomporre ai fini della lotta contro il nemico comune.

Preciso infine che ricomporre non significa ignorare la radicalità dei problemi: affermare che sessismo, razzismo, omofobia sono elementi residuali, che giocano ormai un ruolo secondario – se non addirittura negativo – per la conservazione del dispositivo di dominio liberal liberista, non significa affermare che si tratta di questioni trascurabili, né che non vadano combattuti con la massima decisione, significa semplicemente che metterli in cima alla lista degli obiettivi politici – o peggio eleggerli a unici obiettivi – vuol dire consegnarsi nelle mani del nemico di classe.


[1] Come ho cercato di chiarire nelle Glosse alla Ontologia dell’essere sociale di Gyorgy Lukacs – pubblicate su questo blog – per una visione marxista lontana dal materialismo volgare, l’ideologia non è sinonimo di falsa coscienza, ma rappresenta piuttosto un fattore costitutivo dell’identità stessa – in senso materiale e non puramente ideale – di un soggetto sociale storicamente determinato.

[2] Cfr. C. Formenti, La variante populista, DeriveApprodi, Roma 2016.

[3] Cfr. S. Federici, Il punto zero della rivoluzione, ombre corte, Verona 2014.

[4] Cfr. S. Federici, Genere e Capitale. Per una rilettura femminista di Marx, DeriveApprodi, Roma 2020.

[5] Vedi, in particolare, A. Visalli, Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare, Meltemi, Milano 2020.

[6] Cfr. La variante…, op. cit.; vedi anche Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019.

[7] N. Fraser, Fortune of Feminism, Verso, London-New York 2015

[8] N. Fraser, R. Jaeggi, Capitalismo, Meltemi, Milano 2019.

[9] http://tempofertile.blogspot.com/2021/05/nancy-fraser-capitalismo-una.html

[10] Cfr. N. Fraser, a. Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Lotte di genere e disuguaglianze economiche, Meltemi, Milano 2020.

[11] Cfr. C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, 1974.

[12] La promozione della diversità come fattore di vantaggio competitivo per la nuova forza lavoro, in particolare per i cosiddetti “lavoratori della conoscenza”, è un tratto distintivo dei settori capitalistici più avanzati, in particolare per l’industria high tech e le Internet Company. Vedi in proposito il concetto di “classe creativa” in R. Florida (L’ascesa della nuova classe creativa, Mondadori, Milano 2003.

[13] C. Rottenberg, L’ascesa del femminismo neoliberale, ombre corte, Verona 2021.

[14] La descrizione più approfondita della costruzione del nuovo soggetto lavorativo da parte del neoliberalismo si deve probabilmente a P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013.

[15] R, Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori, Milano 2006.

[16] A proposito del rifiuto fobico di tracciare confini simbolici, tipico delle culture postmoderniste cfr. F. Furedi, I confini contano, Meltemi, Milano 2021.

[17] La Butler ingaggiò a tale proposito una durissima polemica con le femministe tedesche – che arrivò ad accusare senza mezzi termini di razzismo – in merito all’episodio di Colonia, allorché nella notta di Capodanno, migliaia di immigrati musulmani invasero il centro della città importunando le donne. Ho commentato quella polemica ne Il socialismo è morto, op. cit.

[18] Cfr. J. Butler, Vite precarie, Meltemi, Milano 2004; vedi anche L’alleanza dei corpi, nottetempo, Milano 2017.

[19] Cfr. E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008; vedi anche C. Mouffe, For a left Populism, Verso, London-New York 2018

[20] Cfr. J. Crispin, Why I’m nit a femminist. A femminist manifesto, Melville House, London 2017.

Sobre el ataque a Giordano, sionismo y limpieza étnica. Rolando Astarita. 2021

Días pasados se desató una feroz campaña contra el diputado Juan Carlos Giordano, de Izquierda Socialista – Frente de Izquierda. El “pecado” de Giordano fue criticar al sionismo y al Estado de Israel. Organizaciones sionistas, periodistas y políticos (en primera fila, los de Juntos por el Cambio) lo acusaron de antisemita y algunos hasta pidieron su expulsión del Congreso. Los acusadores sostienen que “estar en contra del sionismo equivale a ser antisemita”. En otros términos, según esta gente Giordano es un nazi, o poco menos que un nazi. Por supuesto, ninguna de las lumbreras de esta campaña puede explicar cómo es que un partido trotskista que ha luchado contra dictaduras militares, que siempre se opuso al nazismo y al fascismo, tenga ahora a diputados y dirigentes defendiendo a nazis y antisemitas. Menos todavía explican cuáles son las causas, históricas, políticas y sociales, que subyacen al enfrentamiento entre palestinos e israelitas. ¿Será que los palestinos tienen, por nacimiento, el gen del antisemitismo?   

A los efectos de proporcionar elementos para el análisis y debate de estas cuestiones, en esta nota resumo lo principal de The Ethnic Cleansing of Palestine, del historiador israelí Ilan Pappe. El libro de Pappe está enfocado en la limpieza étnica de Palestina, llevada a cabo en 1948 por las unidades militares judías. Un hecho que, como veremos, es revelador de la naturaleza del sionismo y del Estado de Israel.

La orden del 10 de marzo de 1948

Pappe comienza señalando que el 10 de marzo de 1948 veteranos líderes sionistas, acompañados de jóvenes oficiales judíos, dieron la orden a las unidades de combate de iniciar la limpieza étnica de Palestina. O sea, ejecutar el llamado plan D, o plan Dalet, consistente en la expulsión de palestinos de vastas áreas del país.

Con ese objetivo, la dirección sionista realizó una detallada descripción de los métodos que deberían emplearse para la expulsión forzada de los palestinos: intimidación en gran escala; cerco y bombardeo de poblados y centros de población; incendio de viviendas, propiedades y bienes; expulsiones; demoliciones; y finalmente, la colocación de minas entre los escombros para impedir que los expulsados retornaran. A cada unidad militar se le asignó su lista de objetivos, consistentes en poblados y barrios. Era el plan elaborado por la dirección sionista para lidiar con la presencia de tantos palestinos que vivían en la tierra que codiciaba el movimiento nacional judío.

Pappe plantea que el plan de limpieza fue tanto el producto inevitable del impulso ideológico sionista a tener una presencia exclusivamente judía en Palestina, como la respuesta a los desarrollos en el terreno una vez que el gabinete británico hubo decidido finalizar el mandato. Los choques con milicias palestinas locales proveyeron el contexto perfecto y el pretexto para implementar la visión ideológica de una Palestina étnicamente limpia. Pappe señala que la política sionista se basó primero en represalias contra los ataques palestinos de febrero de 1947, y se transformó, en marzo de 1948, en una iniciativa para limpiar étnicamente al  país de conjunto. Llevó seis meses completar la operación. Cuando terminó, más de la mitad de la población palestina nativa, cerca de 800.000 personas, había sido desarraigada; 531 villas o aldeas destruidas y 11 barrios urbanos vaciados de sus habitantes. O sea, la mitad de la población indígena que vivía en Palestina había sido expulsada; y la mitad de sus aldeas y ciudades destruidas. Muy pocos de los expulsados pudieron regresar. Solo unos 150.000 palestinos permanecieron dentro del nuevo Estado de Israel.

“El plan decidido el 10 de marzo de 1948, y sobretodo su sistemática implementación en los meses que siguieron, fue un caso claro de una operación de limpieza étnica, considerada bajo la actual ley internacional como un crimen contra la humanidad. Un crimen de esta magnitud, sin embargo, ha sido casi totalmente borrado de la memoria pública global: la desposesión, en 1948, de los palestinos por Israel. Este evento, el más formativo en la historia moderna de la tierra de Palestina, ha sido negado sistemáticamente, y todavía hoy no es reconocido como un hecho histórico. La limpieza étnica es un crimen contra la humanidad y las personas que la perpetran hoy son consideradas criminales de guerra que deben ser llevados delante de tribunales especiales. Sin embargo, muchos de los que decidieron y participaron de esa limpieza tuvieron roles principales en la política de Israel y en la sociedad hasta su muerte. Para los palestinos, eran criminales que nunca serían llevados a juicio” (énfasis agregados).

La historiografía oficial y la “nueva historia”

La versión historiográfica oficial israelí pretende que en 1948 miles de palestinos abandonaron sus hogares y poblados por voluntad propia, con el propósito de dar paso a un ejército invasor árabe que destruiría al Estado de Israel. Esta historia fue luego embellecida por los defensores del programa sionista de múltiples formas. Por caso, el libro Exodus, de León Uris, en el que se afirma que los líderes árabes querían que la población palestina abandonara el territorio. Este relato, una épica sionista, fue llevado al cine en 1960. Allí se ve al comandante israelí, encarnado por Paul Newman, intentando convencer a los palestinos que permanecieran en sus viviendas.

La historia oficial fue desmentida por historiadores palestinos, quienes utilizando transcripciones de transmisiones radiales demostraron que no fueron los líderes árabes quienes impulsaron la salida de los pobladores árabes palestinos, sino los dirigentes sionistas. La propaganda israelí intentó borrar esas denuncias, insistiendo con “el abandono voluntario de los árabes”. Sin embargo, en las décadas de 1980 y 1990 apareció la llamada “nueva historia”, que  comenzó a revisar el relato sionista. El contexto inmediato fue la invasión del Líbano, en 1982, y la intifada en 1987. Este último año se publicaron en inglés The Birth of Israel – Myths and realities de Simha Flapan, periodista e historiador israelí; The Birth of the Palestinian Refugee Problem, de Benny Morris, también israelí y dirigente del partido Mapam. Asimismo ese año se publicó The Palestinian Catastrophe del investigador estadounidense Michael Palumbo. Los israelíes Pappe, Tom Segev y Avi Shlaim son otros representantes de la historiografía revisionista.

Pappe sostiene que, si bien los nuevos historiadores israelíes pasaron a segundo plano la limpieza étnica, de todas maneras, utilizando principalmente archivos militares israelíes, demostraron cuán falsa y absurda es la afirmación israelí de que los palestinos abandonaron voluntariamente sus hogares y poblaciones. Pudieron confirmar muchos casos de expulsiones masivas de villas y ciudades y mostraron que las tropas israelíes habían cometido un considerable número de atrocidades, incluyendo masacres. Por ejemplo, aunque Morris se basó exclusivamente en documentos de los archivos militares israelíes y concluyó con una visión muy parcial de lo ocurrido, fue suficiente para que algunos de sus lectores israelíes se dieran cuenta de que “el vuelo voluntario” de los palestinos era un mito, y que la autoimagen israelí de haber librado una guerra “moral” en 1948 contra el mundo árabe “primitivo” y hostil estaba más bien en bancarrota. Pero por otra parte, sigue Pappe, Morris ignoró atrocidades tales como envenenar el suministro de agua de la ciudad de Acre con tifoidea; pasó por alto numerosos casos de violaciones; y docenas de masacres que perpetraron los judíos. Morris también continuó afirmando que antes del 15 de mayo de 1948 no hubo desalojos forzados. Sin embargo, observa Pappe, fuentes palestinas muestran cómo meses antes de la entrada de tropas árabes en Palestina, y mientras los británicos todavía eran responsables de la ley y el orden en el país, las fuerzas judías ya habían tenido éxito en expulsar por la fuerza casi a un cuarto de millón de palestinos. Por eso Pappe concluye que si Morris y otros hubieran utilizado fuentes árabes o se hubieran vuelto hacia la historia oral, podrían haber tenido una mejor comprensión de la planificación sistemática detrás de la expulsión de los palestinos en 1948 y brindar una descripción más ajustada a la verdad de la enormidad de crímenes cometidos por soldados israelíes. Agreguemos que Morris, como otros revisionistas, nunca cuestionó seriamente el proyecto sionista. Aun así, y como señala Pappe, contribuyeron a desacreditar el relato sionista (sobre los nuevos historiadores, así como las represalias y amenazas que recibieron, véase también Palumbo, 1990; Gijón Mendigutia, 2008; González, 2020).

Definición de limpieza étnica

A fin de despejar malentendidos o falsas críticas, Pappe define a la limpieza étnica como el esfuerzo para hacer homogéneo a un país étnicamente mezclado, expulsando a un grupo particular de gente y transformándolos en refugiados al demoler las viviendas de las que fueron sacados. Puede haber un plan maestro, pero la mayoría de las tropas empeñadas en la limpieza étnica no necesitan órdenes directas: saben de antemano qué se espera de ellas. Las masacres acompañan a las operaciones, pero no son parte de un plan genocida: son una táctica clave para acelerar la huida de la población destinada a la expulsión. Más tarde, los expulsados son borrados de la historia oficial y popular, y extirpados de su memoria colectiva. Pappe sostiene que desde el estadio de planeación a la ejecución final, lo que ocurrió en Palestina constituye un claro caso, según las definiciones académicas e informadas, de limpieza étnica. En los tratados internacionales la limpieza étnica es considerada un crimen contra la humanidad.

En Palestina la limpieza étnica fue planificada y dirigida por los próceres del Estado de Israel, empezando por el líder sin disputa del movimiento sionista, David Ben-Gurion, y por funcionarios de primera línea del futuro ejército israelí, como Yigael Yadin y Moshe Dayan. En el mismo sentido que Pappe, Gijón Mendigutia escribe: “Hay numerosas pruebas basadas en documentos de archivos israelíes que revelan que los principales políticos como Chaim Weitzman, primer presidente de Israel, David Ben Gurión, primer ministro, y Moshe Sharret, ministro de Asuntos Exteriores, habían aprobado previamente ‘el traslado’ entre 1937-1948 y previsto la ‘limpieza de la tierra’ en 1948. Además, intentaron por todos los medios influir en las propuestas de la Comisión Peel en 1937, en la cual se proponía una partición de Palestina entre árabes y judíos, algo que conllevaba de por sí la idea de la transferencia”.  

Desde los orígenes del movimiento sionista, la expulsión de los palestinos

La idea de “limpiar el territorio”, o “transferencia de población” fue considerada una opción válida para los fundadores del movimiento sionista. Pappe cita a uno de sus pensadores más liberales, Leo Motzkin, quien, en 1917, escribía: “Nuestro pensamiento es que la colonización de Palestina tiene que ir en dos direcciones: Judío en Eretz Israel [el nombre de Palestina en la religión judía] y reasentamiento de los árabes de Eretz Israel en áreas fuera del país. La transferencia de tantos árabes puede parecer en principio inaceptable económicamente, pero de todas maneras es práctica. No requiere mucho dinero reasentar una aldea palestina en otra tierra”. En la consideración del movimiento sionista, Palestina estaba ocupada por ‘extraños’, y debía ser recuperada. ‘Extraños’ significaba todo aquel no judío que había estado viviendo en Palestina desde el período romano.

Para muchos sionistas Palestina no era siquiera una tierra ‘ocupada’ cuando llegaron por primera vez, en 1882, sino una tierra ‘vacía’: los palestinos nativos eran en gran medida invisibles para ellos o, si no, eran parte de la adversidad de la naturaleza y como tal sería  conquistada y removida. Tengamos en cuenta que, en una versión apenas distinta, el mito sionista pasó por “una tierra sin pueblo para un pueblo sin tierra”. Pero en Palestina había un pueblo.

Gijón Mendigutia también destaca que la expulsión de los palestinos fue inherente al proyecto sionista. El plan de expulsiones “es el propio concepto sionista, su aplicación tiene su origen en el pensamiento estratégico del sionismo. Las pautas trazadas y los objetivos marcados llevaban a un mismo fin: la creación de un Estado judío. Y sabían que si querían alcanzarlo era preciso hacer desaparecer la comunidad que había previamente, destruyendo las bases que la sustentaban, expulsando a sus habitantes y cometiendo asesinatos para que ese éxodo fuera más rápido y eficaz”. La ejecución del plan “inició una interminable y dramática situación aún sin resolver y parte indispensable de la solución del conflicto, los refugiados”.

En el mismo sentido, González (2020) escribe: “…dada la demografía de Palestina en 1947, el establecimiento de un Estado judío requería inexorablemente retirar a los palestinos de sus aldeas y ciudades. La decisión crucial fue evitar a toda costa el regreso a sus hogares de los palestinos árabes, ignorando las circunstancias en las que los habían abandonado, y sin importar el hecho de que su salida se había previsto inicialmente de modo explícito como un traslado temporal hecho bajo coacción en el medio de la guerra. Hubo, por supuesto, expulsiones deliberadas y masivas. La Operación D, llevada a cabo entre el 10 y el 14 de julio de 1948, que acabó en una masacre en Lydda y con el traslado forzoso de toda la población de las ciudades de Ramla y Lydda -diez millas al sudeste de Tel Aviv- a Jordania, fue un ejemplo pertinente. Pero la decisión realmente crucial, plenamente consciente y explícita, fue asegurar que el hundimiento de la comunidad palestina, que se reveló bajo la presión de una guerra abierta entre Israel y los Estados árabes, fuera irreversible” (énfasis añadidos).

Para que no queden dudas: en diciembre de 1947 Ben Gurion decía: “Hay un 40% de no judíos en las áreas otorgadas al Estado judío. Esta composición no constituye una sólida base para un Estado judío. Y debemos enfrentar esta nueva realidad con toda su severidad y diferencia. Tal balance demográfico cuestiona nuestra capacidad para mantener la soberanía judía… Solo un Estado con al menos el 80% de judíos es un Estado viable y estable” (citado por Pappe).

Colonialismo y militarismo sionista bajo protección británica

Según Pappe, hasta la ocupación de Palestina por los británicos, en 1918, el sionismo fue una mezcla de ideología nacionalista y práctica colonialista. Era de dimensiones limitadas: los sionistas conformaban no más del cinco por ciento del total de la población del país en aquel momento. Vivían en colonias y no afectaban ni eran particularmente notables para los palestinos. Pero el movimiento apuntaba a formar un Estado judío en Palestina. En 1917 el Secretario de Exteriores británico, Lord Balfour, prometió al movimiento  sionista establecer un hogar nacional para los judíos en Palestina. En 1920 se crea la Haganah, la principal organización paramilitar de la comunidad judía.

En los años siguientes, y con ayuda de los británicos, los sionistas fueron avanzando en posiciones, aumentó la inmigración judía (la población judía de Palestina pasó a representar el 30% en 1947), y los palestinos perdieron territorios. Esta situación generó sublevaciones palestinas, algunas de gran envergadura: la rebelión popular de 1936 fue tan profunda que obligó al gobierno británico a estacionar más tropas en Palestina que las que tenía destinadas a India. Solo después de tres años de luchas, y brutal represión, el movimiento fue sofocado. En tanto, el sionismo había organizado más enclaves y colonias independientes. La defensa y ulteriores avances de esos enclaves – y el consiguiente desalojo de palestinos- exigían el respaldo de las armas, esto es, militarismo y ejército. Por lo tanto la Haganah fue fortalecida, y muchos de sus miembros recibieron entrenamiento militar británico. En 1947 la ONU decidió la partición de Palestina en dos Estados independientes, uno árabe palestino y el otro judío (Jaffa sería un enclave árabe en el Estado judío y Jerusalén quedaba sometida a un régimen internacional especial). Los palestinos rechazaron esta partición.

¿David contra Goliat?

El 14 de mayo de 1948 se proclamó Israel como Estado independiente. Según Pappe, en ese momento la fuerza militar judía consistía en unos 50.000 efectivos, de los cuales 30.000 eran de combate y el resto auxiliares que vivían en diversos asentamientos. Estas tropas podían contar con la asistencia de una pequeña fuerza aérea y naval, y unidades de tanques, vehículos acorazados y artillería pesada. Enfrente estaban las fuerzas irregulares palestinas, no más de 7000 efectivos, sin organización y pobremente equipada en comparación con las fuerzas judías. En febrero de 1948 llegaron unos 1000 voluntarios provenientes del mundo árabe, y en los meses siguientes alcanzaron los 3000 efectivos. Hasta mayo ambas fuerzas estaban pobremente equipadas. Pero entonces el ejército israelí recibió, con ayuda del Partido Comunista, grandes envíos de armas enviados por Checoslovaquia y la URSS. Los ejércitos árabes, por su parte, aportaron algo de artillería pesada a los palestinos. Ambos ejércitos aumentaron en número, pero los palestinos nunca superaron los 50.000 efectivos, en tanto el ejército israelí aumentó a 80.000, bien entrenados. En las siguientes etapas la fuerza judía casi duplicó el número de todas las fuerzas árabes combinadas. Además, en los márgenes de la fuerza militar judía operaban dos grupos, Irgun (un desprendimiento de Haganah)  y Stern Gang. Por otra parte, estaba Palmach, que eran unidades de comando. En las operaciones de limpieza étnica estas organizaciones fueron las que efectivamente ocuparon las aldeas y ciudades palestinas. Irgun y Stern  cometieron innumerables actos de terrorismo para amedrentar y expulsar a árabes palestinos de sus hogares.

Escribe Pappe: “Inmediatamente después de la adopción por la ONU de la Resolución 181 (partición de Palestina) los líderes árabes declararon oficialmente que enviarían tropas para defender Palestina. Sin embargo, ni una vez entre el final de noviembre de 1947 y mayo de 1948 Ben Gurion y el pequeño grupo de líderes sionistas que lo rodeaban sintieron que su futuro Estado corría algún peligro, o que la lista de operaciones militares fuera tan abrumadora que afectara la expulsión de los palestinos. En público los líderes de la comunidad judía retrataban escenarios apocalípticos, y alertaban a sus audiencias de la inminencia de un ‘segundo Holocausto’. De todas formas, en privado, nunca usaron ese discurso. Eran plenamente conscientes de que la retórica de guerra árabe de ninguna manera era emparejada por una preparación seria. (…) Los dirigentes sionistas confiaban en que militarmente tenían ventaja y que podrían llevar a cabo la mayor parte de su ambicioso plan. Y tenían razón”.

Estos datos desarman entonces el mito de un frágil Israel frente a un poderoso enemigo árabe. En este respecto, Gijón Mendigutia sostiene que con ese mito se busca presentar la fundación de Israel “como heroica al verse como una ‘victoria milagrosa’ de ‘personas desvalidas’, pues era común difundir la idea de que la comunidad judía estaba formada por un gran número de supervivientes del holocausto a duras penas capaces de combatir”. El viejo relato de David contra Goliat. “Pero nuevamente, la apertura de los archivos ha determinado esta línea de investigación con un nuevo enfoque y contrario al relato sionista predominante: el Yishuv y el resto de judíos en Palestina no estaban en inferioridad de condiciones y su poder no era menor que el de los ejércitos árabes”.  

Destacamos también que inmediatamente después de proclamado el nuevo Estado, Israel “amplió su control más allá de las fronteras que se le habían asignado, ocupando territorios que correspondían al Estado árabe en virtud de la resolución de partición. Jaffa fue ocupada, al igual que ciudades como Acre, Haifa, Tiberias y parte de la zona internacional de Jerusalén” (González, 2020).

¿Quién empezó la guerra de 1948?

Una de las cuestiones que más ha tratado de ocultar la historiografía israelí es la responsabilidad sionista en el origen de la guerra de 1948. Como afirma Palumbo (1990), la causa subyacente del conflicto fue la toma de conciencia de los sionistas de que no se podía formar el Estado de Israel sin desplazar a la gran población árabe. Cita a Flapan, quien recuerda que Ben-Gurion y la dirección sionista rechazó varias propuestas de paz. Sin embargo, observa Palumbo, la guerra no podía ser indefinidamente evitada. Es que el Estado judío creado por la resolución de la ONU de 1947 no era viable sin el desplazamiento de los palestinos. Por otra parte, Morris sostuvo que la principal responsabilidad por el inicio de la guerra es de los palestinos, que querían destruir el Estado de Israel. Pero Palumbo muestra que en 1947 las manifestaciones palestinas, contrarias a la partición, y armadas con palos y piedras, fueron represaliadas por las organizaciones terroristas judías Irgun y Stern, escalando el conflicto. Incluso en diciembre de 1947 el Alto Comisionado de la ONU reportó que la Agencia judía también era responsable por el terrorismo “disidente” de Irgun y Stern.

Por otra parte, y contra el discurso sionista, Palumbo señala que no hay razón para creer que los Estados árabes planearan el exterminio de los colonos judíos en 1948. No existe ningún elemento que permita sostener tal cosa. Con excepción de la represalia por la masacre de Deir Yassin (véase el siguiente apartado) los judíos capturados por los árabes en 1948 fueron bien tratados. Esto incluso fue reconocido por la radio de la Haganah.             

Una muestra de la crueldad en la “limpieza”

El libro de Pappe está lleno de datos y descripciones de la limpieza étnica de 1848. A fin de no hacer excesivamente larga esta nota, reproduzco algunos pasajes referidos a lo ocurrido en el poblado Deir Yassin. Pappe considera que es representativo del sentido de la operación.

El 9 de abril de 1948 tropas judías ocuparon Deir Yassin. A medida que irrumpían en ella, los soldados judíos rociaban las casas con fuego de ametralladoras, matando de esta manera a muchos de sus habitantes. Los aldeanos restantes fueron reunidos en un lugar y asesinados a sangre fría, y sus cuerpos fueron abusados. Un número de mujeres fueron violadas y posteriormente asesinadas. Fahim Zaydan, que en ese momento tenía 12 años, recordó cómo vio que asesinaban a su familia. “Nos llevaron de a uno; mataron a un hombre anciano y cuando una de sus hijas gritó, también fue asesinada. Luego llamaron a mi hermano Muhammad y lo mataron delante de nosotros, y cuando mi madre gritaba inclinándose hacia él, llevando a mi pequeña hermana Hudra en sus brazos, todavía amamantándola, también la mataron”. A Zaydam le dispararon estando en una fila con otros niños. Todos fueron baleados por soldados judíos, “solo por diversión”. Zaydam tuvo la suerte de sobrevivir a sus heridas.  

Pappe informa que investigaciones recientes llevaron el número de masacrados en Deir Yassin de 170 a 93. Por supuesto, además de las víctimas de la masacre, decenas de otros fueron muertos en la lucha y no fueron incluidos en la lista oficial de víctimas. Sin embargo, dado que las tropas judías consideraban a todo aldeano palestino como un enemigo militar, era tenue la distinción entre masacrar gente y matarla “en batalla”. Siempre según Pappe, 30 bebés fueron asesinados. Escribe: “En ese momento la dirección judía anunció con orgullo que había un alto número de víctimas, de manera de hacer de Deir Yassin el epicentro de la catástrofe, una advertencia a todos los palestinos de que les esperaba un destino similar si se negaban a dejar sus hogares y luchaban”. Palumbo cita a Morris, quien admite que las atrocidades de Deir Yassin tuvieron “el más duradero efecto de un solo evento de la guerra en precipitar la huida de los aldeanos árabes de Palestina”. Morris, de todas formas, trata de disminuir la responsabilidad del mando sionista en la masacre. En este respecto Palumbo cita el testimonio de un oficial de Irgun diciendo que el Stern Gang “propuso liquidar a los residentes de la aldea después de la conquista para mostrar a los árabes qué ocurre cuando Irgun y Stern Gang realizan juntos una operación”. 

Más en general, Pappe señala que fuentes palestinas, combinando archivos militares israelíes con historias orales, establecen 31 masacres confirmadas, comenzando por la de Tirat Haifa el 11 de diciembre de 1947, y terminando con Khirbat Ilin en el área de Hebron, el 19 de enero de 1947; y pude haber habido al menos otras seis matanzas.  

Nunca se puso fin

Las masacres israelíes no pararon en 1949. Escribe Pappe: “A 15 minutos con auto desde la Universidad de Tel-Aviv está la aldea de Kfar Oassim, donde, el 29 de octubre de 1956, las tropas israelíes masacraron 49 aldeanos que volvían de sus campos. Luego fue Qibya, en los 1950; Samoa, en los 1960; aldeas de Galilea, en 1976; Sabra y Shatila, en 1982; Kfar Qana en 1999; Wadi Ara, en 2000; y el Campo de Refugiados Lenin, en 2002. A esto hay que agregar  numerosos asesinatos que registra Belselem, la organización de derechos humanos de Israel. Nunca se puso fin a la matanza de Palestinos por Israel.  

El imperativo de luchar contra la negación del crimen

Pappe  sostiene que además de la necesidad de entender las raíces del conflicto contemporáneo israelí-palestino, existe, por sobre todas las cosas, un imperativo moral de continuar la lucha contra la negación del crimen: “Cuando creó su Estado-nación el movimiento sionista no libró una guerra “que trágica pero inevitablemente llevó a la expulsión de ‘partes’ de la población indígena”, sino que fue lo opuesto: el principal objetivo fue la limpieza étnica de toda Palestina que el movimiento codiciaba para su nuevo Estado. Unas pocas semanas después de que empezaran las operaciones de limpieza étnica, los Estados árabes vecinos enviaron un pequeño ejército –pequeño en comparación a su poder militar total- para intentar, en vano, impedir la limpieza étnica. La guerra con los ejércitos regulares árabes no detuvieron las operaciones de limpieza étnica hasta su terminación exitosa en el otoño de 1948”.

Luego: “Yo acuso, pero también soy parte de la sociedad que es condenada en este libro. Me siento tanto responsable como parte de la historia y, como otros en mi propia sociedad, estoy convencido, como muestro en las páginas finales, que un viaje tan penoso hacia el pasado es el único camino hacia adelante si queremos crear un futuro mejor para todos nosotros, palestinos e israelíes”. Por eso el libro es “la simple pero terrorífica historia de la limpieza étnica de Palestina, un crimen contra la humanidad que Israel ha querido negar y hacer que el mundo olvide. Recuperándolo del olvido es de nuestra incumbencia, no solo porque es un muy atrasado acto de reconstrucción historiográfica o deber profesional. Es, tal como lo veo, una decisión moral, el primer paso que debemos tomar si queremos que la reconciliación tenga una chance y enraíce la paz en las tierras desgarradas de Palestina e Israel”.  

Por último, Gijón Mendigutia señala que en Israel dirigentes políticos y académicos hicieron todo lo posible por boicotear y acallar los estudios históricos que cuestionan la “historia oficial”. Escribe: “en los departamentos de Estudios de Oriente Próximo de las universidades israelíes siguen ignorando e intentan ocultar la Nakba [expulsión por la fuerza] palestina como hecho histórico u objeto de estudio. Y para alcanzar este objetivo forman parte de las numerosas represalias que se han llevado a cabo contra los “nuevos historiadores” o todo aquel que vaya contra el establishment sionista”.  

Pues bien, sus émulos criollos no se quedan atrás. “Expulsemos a Giordano del Congreso”. Bonita prueba de respeto por la libertad de opinión y de investigación, y de amor por la verdad histórica. Giordano es el nazi y el antisemita. Los que encubren y defienden limpiezas étnicas y masacres, son los paladines de la libertad. A la vista de datos y testimonios de tantas voces silenciadas, ¿no les da un poco, aunque sea un poco, de asco?   

Textos utilizados:

Gijón Mendigutia, M. (2008): “Los ‘nuevos historiadores’ israelíes. Mitos fundacionales y desmitificación”, Revista de Estudios Internacionales Mediterráneos, N° 5, mayo-agosto, pp. 27-41.

González, D. F. (2020): “Aportes para la comprensión del conflicto palestino–israelí a partir del análisis del eurocentrismo en la ideología sionista”, Departamento de Historia, Facultad de  Humanidades y Ciencias de la Educación, Universidad Nacional de La Plata.

Palumbo, M. (1990): “What Happened to Palestine? The Revisionists Revisited”, Link, vol. 23, N° 4.

Pappe, I. (2011): The Ethnic Cleansing of Palestine, edición en ebook, Oneworld Publications.

Come il linguaggio modella il nostro pensiero e determina la nostra visione política. Giorgia Tolfo. 2021

Che la lingua definisca la nostra esperienza e dia forma alla realtà che ci circonda è un assunto abbastanza ovvio. Che ci siano parole che esprimono concetti o sensazioni che non trovano traduzione in un’altra lingua è cosa altrettanto chiara. Posso pensare di descrivere minuziosamente la saudade, l’unheimlichkeit o l’ostranenie ma nessuna descrizione catturerà mai l’essenza di queste parole che esistono appunto come significanti, involucri.

Non si tratta qui solo di intraducibilità, ma del fatto che certi termini nascono in una determinata condizione storica, emotiva o culturale, e poi si trasferiscono in un’altra lingua, a volte riadattandosi (calchi) a volte invadendo la lingua (prestiti). Non si tratta di mera intraducibilità, perchè altrimenti non si spiegherebbe come mai per un russo esistano venti parole per definire la neve e per un saudita altrettante per definire le sabbie del deserto. Si tratta piuttosto di esperienza: per ciò che non ho esperito non esiste parola.

Certo quando ci troviamo a definire condizioni meteorologiche o certi stati dell’animo la cosa può essere in qualche modo accettabile, una sorta di meraviglia di fronte alla vastità dell’esperienza del mondo possibile, purtroppo la questione però è molto più complessa e profondamente politica. Le parole non sono innocenti e tanto meno lo è la loro potenziale (in)esistenza ed uso.

Gli esempi abbondano.

Prendiamo la parola queer. L’esperienza puramente “linguistica” della parola per un anglofono è diversa da quella di un italofono. Innanzi tutto si tratta di una parola che pur avendo mutato uso e significato, pur avendo subito un cambiamento semantico, ha un’origine etimologica interna alla lingua inglese (anzi alle lingue germaniche). In altre parole, queer per un inglese non è necessariamente essenzialmente una parola legata all’identità di genere, quanto un aggettivo che potrebbe identificare anche qualcosa di strano o bizzarro. Che poi le pratiche sociali abbiano fatto prevalere il significato legato all’identità di genere e alla sessualità non toglie che si tratti di una parola che ha fatto la sua apparizione nella lingua all’inizio del XVI secolo.

In italiano queer è entrato come termine alieno negli ultimi decenni, un prestito per dare forma a un’identità che non trova altrimenti espressione nella lingua italiana (e qui sarebbe da notare che anche in inglese al momento c’è un po’ di confusione, dato che la parola si riferisce sia all’identità di genere che alla sessualità). Questo ha fatto sì che la percezione del termine sia spesso legata a un momento di esitazione e confusione che hanno sicuramente prodotto conseguenze importanti sulla percezione delle persone queer nella società italiana. L’”anomalia” linguistica riflette un disorientamento di fronte al concetto di queerness che può talvolta assumere dimensioni mostruose quando arriva ai banchi parlamentari.

Come queer anche le identità non-binarie non trovano facile inclusione nella lingua italiana, dove spesso si cercano soluzioni più o meno intrusive che a volte purtroppo portano a una dolorosa derisione o a infuocati dibattiti il cui risultato è un ancora maggior esclusione di queste persone. Ma qui siamo nel reame della sintassi e non più del vocabolario.

Un esempio diverso, ma ugualmente illuminante, è l’uso di migrant ed expat nella lingua inglese. I due termini identificano ugualmente una persona che ha lasciato un paese per entrare, in questo caso, nel Regno Unito, la differenza sta nella variabili economiche e sociali associate al paese di origine: Italia, Francia, Stati Uniti, Australia, expats.

Albania, Mozambico, Sri Lanka, migrant. Classe operaia: migrant, media-borghesia: expat. Perché è necessaria una distinzione simile per definire lo stesso soggetto? Soggetto che in molti casi ha, o è privato degli stessi diritti nel paese d’arrivo. Qual è l’impatto che l’uso di una o l’altra parola ha sulla percezione dei soggetti migranti? Ovviamente la demonizzazione di uno e la reverenza dell’altro e il protrarsi della colonizzazione dell’immaginario. E ci vuole poco a vedere i risultati di questo immaginario sul referendum del 2016.

La relazione tra lingua e identità non si limita però solamente al vocabolario (come anticipavo sopra). Come ricostruisce il breve e interessante Lingua ed essere di Kübra Gümüsay appena uscito per Fandango Editore, le vie attraverso cui l’uso della lingua determina e dà forma alla nostra identità e al nostro relazionarsi sono infinite e spesso molto subdole.

Partendo dalla sua esperienza personale di donna turca musulmana immigrata in Germania e portando ad esempio varie situazioni private o pubbliche in cui si è confrontata con l’Altro attraverso il linguaggio, Gümüsay dimostra come il modo di porre certe domande, la ripetizione costante di certi topoi associati ad alcune situazioni o identità portano ad una interiorizzazione di certi stereotipi e visioni e contribuiscono al loro rafforzamento e diffusione.

Se una donna musulmana viene costantemente interrogata da soggetti non-musulmani riguardo alla sua religione è possibile che si generi un’identificazione totale con la religione per cui la donna non è più considerata come soggetto “intersezionale” e “plurale”, ma solamente come musulmana. La sua alterità diventa totale identità, spingendo fuori dalla forma che la costituisce tutte le altre variabili che costituiscono la sua identità. Esemplare l’aneddoto per cui all’uscita da una conferenza, di fronte a un Berlinese che le chiede da dove venisse, Gümüsay si sente in dovere di spiegare la sua provenienza turca, quando il giovane invece voleva sapere se venisse dalla conferenza o meno.

Ma l’analisi di Gümüsay non si ferma a questo, si muove in più territori, va dall’analisi del discorso politico dei movimenti di destra a quella dell’hate speech che filtra dai media tedeschi per finire a mostrare come la scelta di cosa includere nel discorso e cosa omottere sia a sua volta veicolo di discriminazione. Sebbene a tratti didascalica nelle sue riflessioni, il punto importante di Gümüsay è quello di mostrare come il linguaggio sia uno strumento di influenza reciproco e che non si possa unicamente puntare il dito contro un soggetto dominante, ma che decolonizzare il pensiero (e dunque il linguaggio che lo esprime) sia un processo condiviso. Non una rivolta del dominato, bensì un comune sforzo di decostruire l’uso della e delle lingue.

Anche i nominati stessi conservano le proprie gabbie. Mentre si oppongono alle rappresentazioni che i nominanti danno di loro, disegnano loro stessi proprie rappresentazioni collettive meno demonizzanti, più positive – ma anche in queste rappresentazioni non compaiono nella loro individualità e umanità. Al collettivo viene dato un nome diverso, ma non si libera dalla denominazione in quanto tale.

E’ importante comprendere come certi vuoti linguistici siano più rumorosi ed escludenti delle parole, come il privilegio sia inscritto nella scelta di un termine piuttosto che di un altro, come le lingue in cui ci esprimiamo portino con sé la complessità e pluralità delle nostre identità, e come esse possano portare con sé una violenza epistemologica.

Emblematica a tal proposito è la bagarre scoppiata in seguito al caso della traduzione della poesia di Amanda Gorman da parte dell’olandese Marieke Lucas Rijneveld (di cui curiosamente Gümüsay sarà proprio una delle traduttrici tedesche).

Senza entrare nel merito di una questione spinosa e totalmente spuria, importante è infatti sottolineare come ha fatto Paul B. Preciado che “contro il parere di chi pensa che queste polemiche alimentino una sterile tensione identitaria (benché in effetti lo facciano) e malgrado la violenza che si abbatte ingiustamente sul/sulla traduttore/traduttrice (è assurdo uccidere il messaggero, soprattutto se è un autore di genere non binario la cui opera è in sé un atto di resistenza politica)” c’è un “carattere potenzialmente produttivo e non distruttivo in questi dibattiti. A condizione, però, di uscire dalla dialettica tra essenzialismo e universalismo e di considerare la questione come un’opportunità di de-patriarcalizzare e decolonizzare le industrie culturali.”

Il problema non è tanto l’identità di chi traduce (sarebbe ridicolo), ma il fatto che la traduzione è un processo di scelta continuo, più precisamente uno di esclusione. Come scrive Tiphaine Samoyault in Traduction et violence, la traduzione è un processo “agonista” (riprendendo la definizione di Chantal Mouffe che definisce agonismo la trasformazione di “una lotta tra nemici” in “confornto tra avversari”) costituito su una negatività di fondo impossibile da sradicare: “ogni ordine si instaura attraverso l’esclusione delle altre possibilità”.

C’è poi la questione di chi può usare le parole: per riprendere un esempio dalla comunità LGBTQ+, frocio è un termine sdoganato, addirittura talvolta ostentato con giocoso affetto, eppure se la stessa parola uscisse in un contesto professionale, da parte di una persona non appartenente alla comunità, difficilmente sarebbe accolto con lo stesso affetto. Codifica e decodifica di un messaggio linguistico dipendono largamente da variabili esterne al linguaggio stesso ed è per questo che benché sia la lingua a dare forma al nostro modo di relazionarci e di situarci nel mondo, è importante prima di tutto comprendere queste variabili.

Variabili che sono in larga parte storiche, culturali, etniche, religiose. Bisogna conoscere l’altro per comprendere il suo messaggio, bisogna smantellare le infrastrutture patriarcali e coloniali dominanti che reiterano la discriminazione e che sono iscritte profondamente nella lingua. Riprendendo ancora Samoyault, “ogni incontro con l’altro è un incontro con la lingua”.

A costo di risultare banale, penso che l’unico modo di decolonizzare la lingua e l’immaginario sia un’educazione capace di stimolare lo spirito critico, che insegni a decostruire i messaggi e a sospettarli, guardando oltre i contorni delle parole che vi sono incluse. Un’educazione che si basi largamente sull’ascolto degli altri e l’esercizio dell’empatia, un’educazione insomma che sia non solo basata su calcoli di profitto, ma che riporti al centro l’umano.

* Giorgia Tolfo (PhD in Letterature Moderne, Comparate e Postcoloniali, Università di Bologna) vive a Londra. Ha lavorato per Bloomsbury Publishing e collaborato con varie case editrici indipendenti italiane e inglesi. Lavora per British Library e Alan Turing Institute a Living with Machines, un progetto in digital humanities tra ricerca storica e intelligenza artificiale. Ha co-fondato e co-dirige il Festival di Letteratura Italiana di Londra (FILL) e collabora a progetti internazionali di promozione culturale.

Organizaciones sociales conforman alianza por la gobernabilidad y justicia. Colatino. Joaquín Salazar. 17 de agosto de 2015

Con el objetivo de garantizar la gobernabilidad y el pleno cumplimiento de la justicia en El Salvador, organizaciones sociales se unieron para conformar una alianza, desde donde representan el poder del soberano, que es el pueblo salvadoreño; que buscan impedir la injerencia de sectores oligarcas.

Con una amplia convocatoria de la población, 33 organizaciones se unieron para conformar la “Alianza Social por la Gobernabilidad y la Justicia”, que tendrá como principal objetivo la defensa de los derechos fundamentales de la población salvadoreña.

Para las organizaciones, desde el año 2009 que el Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional (FMLN) asumió el poder, la oligarquía nacional a través de partidos políticos como ARENA y gremiales empresariales como ANEP, han impulsado una campaña desestabilizadora para que se crea que el país salvadoreño esta derrumbado.

Asimismo, consideran que existe un gran interés por ver un país fracasado por la presunta mala administración, “hacen ver que el país esta mal, que ha caído en la violencia y la desesperación del pueblo, pero las cosas siguen avanzando, el país no se detiene”, expresó Margarita Posada, representante del Foro Nacional de la Salud.

Posada agregó que como organizaciones sociales no van a permitir que exista injerencia en asuntos del país, por parte de países como Estados Unidos, que a través de la Embajador Mari Carmen Aponte “se mete en lo que no le importa”.

Y es que como organizaciones de la sociedad civil ven preocupante la injerencia en asuntos internos, por parte de Estados Unidos, como las presiones a modificaciones de ley, cuestionar las políticas de gobierno y emitiendo opiniones en campañas desestabilizadoras promovidas por la oligarquía salvadoreña.

Juan Carlos Sánchez, del Movimiento 5+ explicó que esta Alianza busca crear un espacio de articulación de la sociedad civil para movilizarse contra la impunidad, injusticia en el país.

“Este es un encuentro para que protestemos, propongamos y defendamos lo que tenemos que defender, a favor del pueblo”, comentó Sánchez.

Razón por la cual, la ahora Alianza Social por la Gobernabilidad exige respeto al clima de gobernabilidad y que si se busca un dialogo debe de ser con el pueblo, como primera instancia, en la que se busque un correcto abordaje de los problemas nacionales una búsqueda de soluciones.

“Se debe de garantizar el respeto y la defensa de los derechos del soberano, no de los intereses oligárquicos”, explicó Posada.

Dentro de las exigencias de la Alianza Social, es la democratización de los medios de comunicación, hecho que busca un real cumplimiento de la Libertad de Expresión.

En cuanto al órgano Judicial, las organizaciones exigen una depuración del sistema judicial “no se debe de seguir albergando jueces cuestionados, irrespetuosos del derecho que continúan siendo amparados impunemente por el sistema”, agregó Posada.

Además, exigen que el órgano  Judicial debe de transparentar su trabajo, donde las salas y las reuniones de corte plena sean debe ser de libre acceso a medios de comunicación, también a unirse a la iniciativa de rendir cuentas ante la población salvadoreña.

La Alianza social se comprometió a mantener una constante lucha contra los poderes hegemónicos y defenderán los proyectos sociales que impulse el gobierno de Salvador Sánchez Cerén, para beneficio del soberano.

La Alianza esta conformada por un total de 33 organizaciones, entre ellas asociaciones de mujeres, como Las Mélidas, AMSATI, AMR, como también organizaciones de otros sectores como UNES, PRODEPAZ, ARPAS, Oveja Negra, ACISAM, SITTOJ, APROCSAL, AELAM El Salvador y otras.

Las (pocas y vagas) propuestas culturales de los partidos políticos. Carlos Lara. Nexos. 6 de junio de 2021

En el actual proceso electoral, los diversos partidos políticos registraron sus plataformas para el periodo 2021-2024 ante el Instituto Nacional Electoral. De estas se desprenden sus propuestas: de ahí saldrán sus programas de gobierno, en el caso de las alcaldías, y sus agendas legislativas, en el caso de los diputados. Tras un análisis de las plataformas de cada partido, puedo afirmar que en materia de cultura tenemos dos propuestas: una muy pobre y otra robusta y coherente. A continuación presento un resumen de las plataformas de los diversos partidos, con la esperanza de que esta información sirva a los electores a la hora de decidir a quién darle su voto.

La alianza oficialista

Para decirlo sin miramientos: Morena no tiene propuesta cultural. La sección de su plataforma que en teoría se trata de la cultura consiste de un copy-paste del evangelio nacionalista de hace tres años. Habla de cultura para la paz y el bienestar; insiste en que somos poseedores y generadores de cultura, en que vivimos en sistemas culturales, en que nadie debe ser excluido de las actividades y circuitos culturales. Su única propuesta concreta es que los recintos consagrados a la difusión del arte dejen de estar centralizados y de monopolizar la actividad cultural.

La cultura, reza la plataforma morenista, “debe poblar los barrios y comunidades, hacerse presente allí en donde es más necesaria, porque [esos] son los entornos sociales más afectados por la pobreza, la desintegración social y familiar, las adicciones y la violencia delictiva”. Esto resulta incongruente, pues debemos recordar que el gobierno morenista ha destinado prácticamente la totalidad de los recursos del sector cultura al Proyecto Chapultepec — justo en el centro del país.

Las plataformas del resto de la coalición oficialista también dejan mucho que desear. El Partido del Trabajo no se molestó en presentar una sola propuesta en materia de cultura. Por su parte, el Partido Verde Ecologista de México planea entregar a los estudiantes universitarios tarjetas de descuento que podrán usarse para actividades culturales, pero también para comprar alimentos.

La alianza opositora

La plataforma de los partidos de la alianza Va Por México, compuesta del Partido Acción Nacional, el Partido Revolucionario Institucional y el Partido de la Revolución Democrática, es un poco más sustancial.

En primer lugar, el PAN propone volver obligatoria la enseñanza de música y artes en la educación básica, así como establecer talleres de formación para el trabajo en las escuelas, propuesta que los partidos de la colación vienen arrastrando sin resultados desde hace tres legislaturas. En segundo lugar, el partido conservador propone destinar una partida del Presupuesto de Egresos de la Federación específicamente al rescate del patrimonio cultural de los estados y municipios que no aparece catalogado en la Ley Federal de Monumentos. En tercer lugar, el PAN propone garantizar, a través de medidas legislativas, el derecho de los mexicanos al acceso a la cultura y a la manifestación de sus expresiones culturales sin la intervención del Estado.

(Aquí cabe mencionar que algunos de los gobiernos de este partido han tomado decisiones que contradicen directamente el contenido de su plataforma. Tal fue el caso de Claudia Patricia Santa-Ana Zaldívar, exdirectora del Instituto de Cultura de Aguascalientes, a quien el gobernador panista Martín Orozco Sandoval destituyó hace unos meses por presiones de un grupo católico). Finalmente, el PAN prevé la creación de espacios de preservación y divulgación de las lenguas indígenas, así como la promoción de convenios entre gobiernos y universidades para el mismo propósito.

Por su parte, el PRD —cuya plataforma cultural es quizá la más completa— plantea favorecer la transversalidad de los derechos culturales para la construcción de una cultura para la paz, el fortalecimiento del vínculo educación-cultura y la consolidación de instituciones culturales. Por otro lado, el PRD propone la creación de observatorios ciudadanos que den seguimiento a los programas y proyectos culturales.

La plataforma del partido también recupera la vieja propuesta de asignar el 1 % del PIB a la cultura dentro de la planeación presupuestal. Este dinero se gastaría, entre otras cosas, en estímulos e incentivos para la producción cultural y en canales de cooperación internacional para la difusión de la cultura. Las propuestas del PRD también incluyen democratizar la cultura mediante el acceso gratuito a servicios culturales y mediante la creación de programas de educación artística, ya sea de forma presencial o en colaboración con medios de comunicación.

De forma similar, el partido propone firmar convenios con instituciones privadas para promover el acceso gratuito a la cultura de adultos mayores y personas vulnerables o con discapacidad. El PRD también propone que el Estado forme alianzas con instituciones académicas públicas y privadas para impulsar la investigación científica y favorecer el acceso a las escuelas de artes y oficios culturales.

El partido plantea además fortalecer el Fonca y el Fondo de Apoyo para Pueblos Mágicos. Finalmente, el PRD propone refrendar el compromiso del Estado mexicano como firmante de la Convención sobre la Protección del Patrimonio Mundial, así como elaborar catálogos del patrimonio cultural mexicano, establecer programas que anticipen amenazas y garanticen la salvaguardia de dicho patrimonio y atender el llamado de la UNESCO a proteger a los artistas.

La contribución del PRI a la plataforma cultural de la alianza es bastante limitada. Luego de reconocer que México es una potencia cultural en el mundo, el tricolor se limita a proponer el fortalecimiento de la colaboración cultural con otros países.

Los partidos pequeños

Por su parte, el Movimiento Ciudadano plantea fortalecer los mecanismos de protección de los derechos culturales y ampliar las políticas de fomento y estímulo a la creación artística. MC también propone rescatar los fideicomisos destinados a la cultura que han sido eliminados por el gobierno actual. Adicionalmente, el partido busca impulsar reformas para garantizar los derechos laborales y de seguridad social para los trabajadores del sector cultural. Por otra parte, la plataforma de MC sugiere impulsar el reconocimiento constitucional del derecho a la personalidad jurídica de los pueblos indígenas, propuesta que cumpliría con una de las principales demandas planteadas en los Acuerdos de San Andrés que el gobierno federal firmó con el Ejército Zapatista de Liberación Nacional.

Asimismo, el partido quiere fortalecer el derecho a la consulta, propuesta que ya aparece en una recomendación de la Suprema Corte de Justicia de la Nación al Poder Legislativo. MC también propone fomentar la traducción de obras literarias en lenguas originarias y ofrecer estímulos fiscales a las radios indígenas. En general, el partido propone desarrollar un modelo de protección a las creaciones y al conocimiento de las culturas indígenas, así como la protección de la medicina tradicional.

Por último, las Redes Sociales Progresistas buscan defender el derecho a la cultura como política de Estado a través de fondos públicos y privados que impulsen las diferentes expresiones artísticas, así como ampliar la difusión de las actividades culturales organizadas por las instituciones públicas, colectivos de artistas y organizaciones de la sociedad civil. Suena bien, sin duda, pero no significa mucho.

Las opciones para el votante

Como vemos, hay en lo general dos agendas: la de Morena y sus aliados, que es vacía y contradictoria, y la de la oposición, que tiene un poco más de sustancia. El electorado tendrá que decidir entre ellas este domingo 6 de junio.

Agenda política, económica y social del movimiento sindical y popular por la justicia social. San Salvador. 13 de agosto de 2019

La situación de las personas trabajadoras salvadoreños

El empobrecimiento sostenido de las grandes mayorías del pueblo, es el resultado de la continua y deliberada acción de los grupos económicamente dominantes que ha medrado el poder y orientado las políticas públicas y el rol del Estado a fortalecer sus intereses y negocios, para incrementar su riqueza, en detrimento del pueblo trabajador.

Luego de procesos de neoliberalismo, corrupción, privilegios políticos, alto endeudamiento externo, y baja inversión privada en la economía, la situación nacional es crítica.

Sin una distribución de la riqueza equitativa, la estructura económica del país, no tiene capacidad de absorber la creciente fuerza de trabajo de miles de salvadoreños, hombres y mujeres, que cada año no logran ingresar al mercado laboral. El panorama laboral de las y los salvadoreños es insuficiente; muchos, arriesgando hasta su vida, se ven empujados a dejar el país, a emigrar en busca de oportunidades de empleo en otras tierras. El país cuenta con una población económicamente activa –PEA-de más de 3,033,381*; y sólo hay alrededor de 855,350 personas trabajadoras registradas en el seguro social, este dato, deja fuera de cobertura de salarios mínimos, protección social y servicios de inspección de condiciones laborales a más de dos millones de salvadoreños.

De los trabajadores registrados al ISSS, unos 167,994 son empleados públicos, el 85 por ciento del total ganan menos de 2 salarios mínimos y cerca de 237,000 trabajadores sólo recibe por sus trabajos el salario mínimo de 304.17dólares en la industria y los servicios; y, de 299.30dólares en la maquila textil.

Un dato a tener en cuenta, es que, por la situación de violencia social y falta de políticas efectivas de inserción económica productiva, cada vez menos mujeres en edad productiva se incorporan a la actividad económica o, las que, estando activas, son excluidas de ésta, y se ven obligadas a asumir responsabilidades no remuneradas en la economía de los cuidados.

Es prioritario, para construir un país con justicia social, resolverla enorme desigualdad en el empleo y en el salario, generando mecanismos de distribución y redistribución de la riqueza, mediante mejores salarios, contratación colectiva y una política fiscal progresiva en la que paguen más los que más tienen. Las políticas de crecimiento que tradicionalmente se han implementado en El Salvador han tenido un carácter sectorial y no ha existido una estrategia de crecimiento de largo plazo que integre tanto una visión de crecimiento como de generación de empleo.

El uso ineficiente de los factores productivos, particularmente por la subocupación laboral y la fuerte informalidad, disminuyen la productividad laboral impactando negativamente en las remuneraciones. También, afectan la productividad nacional, el uso abusivo de la tierra por los monocultivos, el acceso privilegiado a los recursos financieros y a la infraestructura productiva. Por todos estos factores, el tema de empleo digno, con salarios justos y protección social, es desde ya, una tarea inmediata para el nuevo Gobierno y su Ministro de Trabajo y Previsión Social.

*Informe de Coyuntura del ISSS, de marzo 2019 (https://www.transparencia.gob.sv/institutions/isss/documents/293038/download)

**Idem

***Idem

Un Estado fortalecido para el desarrollo del país

Una democracia real se construye con sociedades que tienen un respeto sustantivo por los derechos humanos, donde los derechos laborales forman parte integral de los mismos. En esta línea, entendemos que los sindicatos tienen un papel único dentro de la sociedad, pues en ellos reside la capacidad de trabajar a través de su representación y presencia, procesos de sensibilización y defensa laboral en los lugares de trabajo por un ejercicio pleno de los derechos humanos y en contra de los atropellos a la clase trabajadora.

La discusión global, luego de la crisis financiera (2008) y después de implementado el neoliberalismo, ha puesto nuevamente, en el mundo y en nuestro país, el debate sobre la importancia de lo público. Es, por tanto, un punto de inflexión histórico, para reivindicar servicios públicos de calidad, para fortalecer las instituciones del Estado y que sean capaces de brindar a todos los ciudadanos los mejores servicios públicos con calidad, calidez, suficientes, oportunos, inclusivos y sin privilegios.

Abogamos, porque se dé un cambio en la formulación de las políticas públicas, de tal forma que estas respondan a la solución de los principales problemas del país y de la sociedad; y, que se formulen desde la territorialidad, con la gente, con enfoque incluyente y contra toda desigualdad.

Es tiempo, de que la ley no sólo sea letra, sino acción y solución a los problemas de las personas, es tiempo, de dar vida a la ley de desarrollo y protección social, aprobada en 2014, pero que no logra trascender por falta de recursos, por no tenerla como centro en la ejecución presupuestaria, es tiempo, de que se haga realidad una mejora sustancial en la protección social y desarrollo humano de la gente, sobre todo de la que más lo necesita.

El marco de gobernanza de la convivencia ciudadana debe estar fundamentada en un sistema de leyes democráticas que contengan los elementos de justicia social, que se sustente en el consenso de las mayorías y que respete los intereses diversos del conglomerado social.

El Estado y sus instituciones, los funcionarios y las personas trabajadoras del aparato público, deben estar al servicio de la ciudadanía, no de grupos económicos, elites políticas, o intereses corporativos.

El Estado, debe ser el ente rector y coordinador del desarrollo sostenible, es el responsable de las grandes políticas públicas, de educación, salud, vivienda, medio ambiente, trabajo, crecimiento económico, fiscalidad, seguridad, convivencia ciudadana; debiendo integrar en su ejecución a todos los actores y sectores. Que bien, que la nueva gestión gubernativa, pretenda aclarar que no es un partido político el que está al frente del gobierno, y se institucionalice que son los intereses nacionales y no de grupos específicos los que prevalecen en el hacer del Estado, evitando favorecer a personas o grupos como en el pasado.

Ha llegado el momento de un nuevo ciclo de reformas para poner al Estado en función de la gente y evitar que sea instrumento de la codicia corporativa.

Nuestro país necesita del protagonismo serio del gobierno, en función de las grandes mayorías y de quienes poco o nada tienen para sobrevivir, en ese marco, necesitamos que se atiendan y se resuelvan las necesidades, los temas y reivindicaciones demandadas históricamente por la clase trabajadora organizada, representativa y consecuente.

LAS PERSONAS TRABAJADORAS ANTE LOS RETOS DEL TRABAJO FUTURO

Los cambios en el mundo del trabajo, dados a nivel planetario, tienen incidencia en nuestro país, en el diagnóstico de las condiciones de trabajo que indica debilidad y deficiencias de un trabajo decente y una fuerte institucionalidad.

En El Salvador prevalece un alto grado de precarización del trabajo, situación que hace ya 100 años se denunciaba, en el marco de la constitución de la Organización Internacional del Trabajo, OIT, cuando se decía que “Existen condiciones de trabajo que entrañan tal grado de injusticia, miseria y privaciones para gran número de seres humanos, que el descontento causado constituye una amenaza para la paz y armonía universales…además que no es posible alcanzar una paz universal y permanente sin la justicia social.”

En esta discusión, el debate de fondo no sólo es desde el enfoque de los cambios tecnológicos y la inminente homologación de los sistemas productivos que buscan las empresas en los países, sino también, es preciso incluir el debate sobre las relaciones laborales que se deterioran con dichos procesos. La nueva era de la revolución 4.0 y las tecnologías 5G, podrían ser una oportunidad para cambiar nuestro modelo productivo, pasar a la generación de riqueza desde el desarrollo de conocimiento; para lograrlo se debe mejorar el sistema educativo en ese sentido. Estamos convencidos que hay que pasar del extractivismo de los recursos naturales y la usura especulativa, a desarrollar pensamiento, creatividad e innovación.

Debemos cambiar nuestro sistema de relaciones laborales, y especialmente asegurar los mecanismos equilibradores para la convergencia entre producción, plus valor, capital, trabajo, bienestar y un salario que cubra el costo de la vida.

EL NUEVO ORDEN MUNDIAL

Con la aparición de China, como la gran potencia económica, los problemas de productividad y crecimiento de la producción en los Estados Unidos y Europa Occidental, el mundo ha entrado a una nueva era, que se inscribe además en el momento de una nueva revolución tecno científica.

Para las personas salvadoreñas, se presenta una oportunidad de insertarnos en esta nueva era; por tanto, es prioritario identificar nuestra mejor competitividad y apertura de espacios para desarrollar conocimiento y mayor valor agregado en la producción.

En esta era, somos 10 millones de salvadoreños, los 7 de acá y los 3 en Estados Unidos y el resto del mundo, ese es nuestro potencial de inserción. La institucionalidad debe crear esfuerzos conjuntos que permitan aprovechar la salvadoreñidad, su laboriosidad, su inventiva, y desarrollar talento que genere innovación y cree un nuevo entorno para un modelo de desarrollo más humano, más inclusivo y más integrador.

Trabajar en ese nuevo orden, pasa por poner al centro el interés de quienes conformamos la nación.

EL NUEVO GOBIERNO Y LA CLASE TRABAJADORA

A partir del uno de junio de 2019 hasta el uno de junio de 2024, NAYIB ARMANDO BUKELE ORTEZ, presidirá el Gobierno de la República, será responsable de la dirección del aparato del Estado, de rescatar y respaldar lo institucional y las políticas públicas.

El Gobierno debe desarrollar una administración consecuente con los intereses de la gente, eficaz, con sistemas de gestión presupuestaria, costo eficiente y verificación de resultados, con mecanismos de trasparencia, con participación y control ciudadano, con rendición de cuentas exhaustivas y permanentes.

NUESTRAS DEMANDAS

Nuestra posición será en defensa de los intereses de la clase trabajadora, han pasado suficientes años de ajuste estructural y una aplicación de las recomendaciones del Consenso de Washington, sin lograrse los objetivos de crecimiento, empleo, bienestar y prosperidad que habían pregonado.

Entre los factores que determinan la realidad del país y justifican la urgencia de un cambio de modelo de desarrollo tenemos los siguientes: la dependencia de la economía de los Estados Unidos; la falta de inversión del sector productivo en la tecnificación obrera; la debilidad estructural de las finanzas públicas; la exclusión y la marginación social; el problema de inseguridad; la polarización política y social; la vulnerabilidad ambiental, entre otros.

Por tanto, es imperativo que se construya en nuestro país una concepción de desarrollo que, desde nuestra visión social y sindical, se sustente sobre los pilares del Trabajo Decente; la Distribución y Redistribución de la Riqueza; la Democracia Participativa; la Protección e Inclusión de todas y todos, y de grupos excluidos; la Justicia de Género y Ambiental, integrando así las dimensiones económica, social, ambiental y política, en las políticas públicas y en la gestión del Estado.

El Salvador, no puede seguir atendiendo y administrando una agenda dictada desde los organismos financieros internacionales como el BM, FMI, etc., debe seguir su propia agenda en función del interés de la gente y de la mayoría trabajadora.

ANTE ELLO PLANTEAMOS AL NUEVO GOBIERNO Y AL SECTOR PRIVADO

Las organizaciones que suscribimos este manifiesto, asumimos el reto de construir una propuesta organizativa atractiva, objetiva, representativa y progresista, para los miles de trabajadoras y trabajadores informales, cuentapropistas, campesinos, profesionales en libre ejercicio.

En síntesis, reivindicamos el derecho a empleo con criterios de trabajo decente; a una jornada laboral; a la seguridad, salud y previsión social; a salarios justos; a vacaciones remuneradas; aguinaldos y bonificaciones por productividad; a licencias por maternidad y desarrollo formativo; a educación y formación profesional; y, a la representación sindical efectiva.

Los sectores sindicales estamos en el proceso de replanteamientos políticos y reivindicativos, por una acción sindical constructiva y de desarrollo para la clase trabajadora; sin discriminación, ni marginación, abierta, unitaria e inclusiva; en lucha por mayores transformaciones jurídicas, socio laborales y económicas, para erradicar la explotación laboral, la violencia en el mundo del trabajo, para frenar la manera abusiva y arbitraria de organizar el trabajo, para reivindicar a las personas trabajadoras salvadoreñas, presentando la siguiente plataforma:

PLATAFORMA POR EL TRABAJO DECENTE Y LA JUSTICIA SOCIAL

SALARIOS DIGNOS Y PROTECCIÓN SALARIAL

*Las personas trabajadoras, en todos los ámbitos de la economía, deben tener asegurado un ingreso que les permita vivir con dignidad a ellos y su familia.

*Para los trabajadores y trabajadoras de la economía formal un salario mínimo ajustable anualmente, conforme a lo dispuesto en el convenio 131 de OIT, sobre la fijación de salarios mínimos, que establece: (a)las necesidades de las personas trabajadoras y de sus familias habida cuenta del nivel general de salarios en el país, del costo de vida, de las prestaciones de seguridad social y del nivel de vida relativo de otros grupos sociales; y, (b)los factores económicos, incluidos los requerimientos del desarrollo económico, los niveles de productividad y la conveniencia de alcanzar y mantener un alto nivel de empleo.

*Para los trabajadores y las trabajadoras en la economía no formal, un salario mínimo por hora trabajada equivalente a los salarios por hora y que se incluya un factor de 0,23 en concepto de prestaciones sociales. ØLos salarios en el sector público no deben ser mayores que el del Presidente de la República.

*IVA cero a los bienes y servicios de la canasta básica, que afecta los salarios mínimos y el ingreso, con la definición de una política de no aumento a los precios de la misma.

FORTALECIMIENTO INSTITUCIONAL

*Combate a la corrupción en todos los niveles

*Dotar del talento humano, recursos tecnológicos y económicos a las instituciones encargadas de la política social

*Política fiscal progresiva

*Combate frontal a la evasión y elusión fiscal

*No al incremento del IVA

*Mejora de la seguridad ciudadana y fortalecimiento de la convivencia comunitaria

*Reforma constitucional para: La no privatización del agua y la aprobación de la ley general de aguas

*Educación básica y superior gratuita

EMPLEO DIGNO

*Desarrollo de política de promoción de empleo digno

*Aseguramiento de condiciones de inserción laboral para desestimular la migración laboral y facilitar el retorno de población migrante deportada, conforme lo estipulado en el Pacto mundial para la migración segura, ordenada y regular de 2018

*Adoptar las medidas de política pública, sugeridas en la recomendación 204,de OIT sobre la transición de la economía informal a la economía formal, para elevar el potencial productivo, mejorar las condiciones de trabajo, y mejorar la inclusión social

*Promoción y fomento de la estabilidad laboral

*Respeto al debido proceso en materia de derechos laborales, que eviten la injusticia social

*Promoción plena de las libertades sindicales.

*Fortalecimiento de la Administración del Trabajo: inspección del trabajo, inspectoría cruzada Ministerio de Trabajo, ISSS, Ministerio de Hacienda; protección contra riesgos profesionales; fomento del diálogo social,

*Potenciación y fortalecimiento de la participación del sector obrero dentro del tripartismo en iguales condiciones que la sumatoria del Estado y Empresa juntos, e inclusión laboral en todas las instancias de gobierno en que sólo está incluida la representación de los empleadores

*Fortalecimiento de la equidad en las relaciones laborales

*Fortalecimiento de la formación profesional

*Ante la tercerización laboral, es necesario la aprobación de una ley que regule la actividad de subcontratación y tercerización de las relaciones laborales, conforme la Recomendación 184 de la OIT, sobre la relación de trabajo

*Poner en práctica el pacto mundial por el empleo

*Aprobación de los Convenios: 102 sobre la seguridad social (norma mínima) 177 sobre la protección de los trabajadores en el trabajo a domicilio, 184 sobre la protección en la agricultura, 189 sobre el trabajo decente para las trabajadoras y trabajadores domésticos, 190 sobre la eliminación de la violencia y el acoso en el mundo del trabajo

*Aprobación de la Ley de Identidad de Género y el cumplimiento al Decreto Ejecutivo 56 sobre la no discriminación por identidad u orientación sexual en los lugares de trabajo.

*En términos de reformas laborales como proyectos o anteproyectos de ley, como la ley del servicio civil y cambios de jornada laboral, nos pronunciamos en oposición a leyes desfavorables a los intereses de las personas trabajadores.

PROTECCIÓN SOCIAL

*Legalización de las tierras para vivienda al sector comunal, acceso a créditos y desarrollo social de las comunidades en cuanto a los servicios públicos.

*Nacionalización del actual sistema privado de pensiones, y adaptación del sistema de protección social a los principios y orientaciones del Convenio 102, de OIT sobre la seguridad social y de la recomendación 202, sobre los pisos de protección social.

*Mejoramiento de la protección social, la salud y seguridad en el trabajo; salud, maternidad, asistencia social; y, suficiencia de las pensiones.

*Cumplimiento estricto de la ley de equidad, proteger legalmente a grupos excluidos y marginados de los derechos como a las personas LGBTI; discapacitadas, adultas mayores; y, pueblos originarios.

*Desarrollar el seguro por la cobertura ante riesgos de cesantía laboral

*No privatización de servicios públicos, como tampoco asocios público-privado, ni concesiones de las instituciones y empresas del Estado

*Fortalecimiento de la red pública de prestación de los servicios básicos con calidad

*Respeto pleno al principio de legalidad, respeto al principio de seguridad jurídica y el respeto al Estado de Derecho.

*Protección, ampliación y profundización de los programas sociales, ampliación de la pensión básica universal-PBU, paquetes escolares, salud gratuita de calidad, subsidio a gas, energía y transporte a personas trabajadoras con ingresos menores a mil dólares.

Confederación Sindical de Trabajadores salvadoreños, CSTS

Federación de Asociaciones o Sindicatos Independientes de El Salvador, FEASIES

Federación de Sindicatos de Trabajadores Azucareros de El Salvador, FEDEAZUCAR

Concertación Popular por un País Sin Hambre y Seguro, CONPHAS

Frente Social y Sindical Salvadoreño, FSS

San Salvador, 13 de agosto de 2019

“Debemos refundar la izquierda en el país”: Fabio Aguilar. Colatino. Gloria Silvia Orellana. 25 de julio de 2019

Fabio Rigoberto Aguilar, miembro de la Asamblea Estudiantil de la Universidad de El Salvador fue enfático al afirmar, que el movimiento de izquierda necesita de manera urgente una refundación, cuyos ideales estén en consonancia con las demandas de la población, así como la producción de pensamiento crítico para analizar las nuevas medidas del gobierno del presidente Nayib Bukele, y otros partidos políticos.

“Hemos evaluado que hay una reconstitución de la burguesía de nuevo en el país, para volver al poder y el otro es el declive de la izquierda, que son dos factores que nos dejan en un momento crucial y como estudiantes consecuentes sabemos que hay que trabajar para unirnos estudiantes, maestros, sindicatos comprometidos con la lucha social y volvamos a la resistencia revolucionaria”, argumentó.

Fue la tarde de un miércoles 30 de julio de 1975 que la población universitaria de la Universidad de El Salvador, decidió marchar por las principales calles de San Salvador, para protestar por el allanamiento del que había sido objeto el Centro Universitario de Occidente, en Santa Ana por miembros del ejército salvadoreño.

La marcha estudiantil fue reprimida alrededor de las cuatro de la tarde, cuando se encontraba en los entornos del hospital del Instituto del Seguro Social y el paso a desnivel de la 25 Avenida Norte, ahora denominada “Mártires del 30 de Julio”, que provocó un centenar de heridos, muertos y arrestos arbitrarios, así como desaparecidos por parte de las autoridades de la extinta Guardia Nacional, Policía Nacional y el ejército cuando fungía como ministro de la defensa, el general Humberto Romero durante la administración presidencial del coronel Arturo Armando Molina.

Aguilar resaltó la importancia de cohesionar las demandas de diversos sectores sociales, que pueden ser la base para luchar por los temas más sensibles como la seguridad, educación, medio ambiente, política y cultura entre otras temáticas. “Esta será una conmemoración alternativa, que se diferencia de la tradicional, porque vamos a rescatar el valor político que significó en ese momento histórico, esa marcha de estudiantes. Utilizaremos ese día histórico de conmemoración de nuestros caídos, pero las vamos honrar desde nuestras demandas actuales y los que nos compete hoy en día, que es contraponernos frente a todas esas políticas del nuevo gobierno de Nayib Bukele, que es la construcción de una nueva hegemonía de la burguesía nuevamente”, sostuvo.

Virginia Estefanía Roque del Movimiento Tacushcalco, Nahuilingo, Sonsonate dijo, que es importante que la población eleve su voz para evitar que los bienes naturales pasen a manos privadas para ser depredadas o comercializadas, que solo vendrá a imponer altos niveles de pobreza en la población más vulnerable en el área rural y suburbana.

“Debemos parar definitivamente esas aperturas a estos proyectos (urbanísticos) que contaminan ríos, que violan los derechos humanos de la población y los derechos patrimoniales haciendo pozos para sus residenciales. Aquí importa más lo comercial, que la herencia cultural, sin importarles que Tacushcalco fue designado bien cultural desde 1997, reconocido por la UNESCO. Es por esto que hacemos un llamado al nuevo gobierno, a respetar la ley y protocolos de protección al medio ambiente”, manifestó.

“Pasemos de la indignación que manifestamos en las redes de todos los problemas sociales, a la acción”, sugirió Julio Ernesto Grande, de la Asamblea General Estudiantil quien invitó a otras actividades culturales para este jueves y viernes, por la tarde en la Universidad de El Salvador (UES) previo a la conmemoración el martes 30 de julio. “Hacemos una invitación abierta a los estudiantes de secundaria, maestros y directores de centros educativos y aprovechemos esta fecha, para exigir al nuevo gobierno que garantice el libre acceso a la educación superior. No podemos aceptar que se invierta en armas y soldados, pero no invertir en un sistema educativo con una política de puertas abiertas, para todo un pueblo que históricamente no ha tenido acceso a la educación”, puntualizó Grande.

Dilemas y desafíos en tercer año de gobierno Bukele. Roberto Pineda. 2 de junio de 2021

Introducción

En el tercer año de gobierno de Nayib Bukele, iniciado este 1 de junio, la sociedad salvadoreña experimenta profundas transformaciones derivadas de la voluntad mayoritaria expresada en las urnas el pasado 28 de febrero, que se decantó por otorgar al partido Nuevas Ideas, la mayoría en la Asamblea Legislativa y la administración municipal de las  principales ciudades del país.

A partir de esta mayoría se impuso el 1 de mayo una nueva Sala de lo Constitucional de la Corte Suprema de Justicia y un nuevo Fiscal. Estas decisiones políticas, que modifican sustancialmente la correlación institucional de fuerzas,  han conducido a una nueva escalada del enfrentamiento principal entre el orden oligárquico y el orden burgués emergente.

La crisis en el orden oligárquico, provocada por la irrupción en la presidencia en 2019 de un nuevo proyecto político, de naturaleza burguesa, populista y autoritaria, -que de manera enérgica está construyendo un nuevo modelo político- incluso con sesgos antiimperialistas, ha provocado diversos desplazamientos tanto de orden político como ideológicos.

Presenciamos un gran enfrentamiento social, político, mediático, ideológico y diplomático, de dos grandes bloques y sectores de clase dominante. Por una parte, un sector emergente de la burguesía comercial, representado por el partido Nuevas Ideas y su caudillo, el presidente Nayib Bukele.

El gobierno Bukele, además de un amplio respaldo popular, ha logrado atraer o neutralizar a una parte de la oligarquía y del capital transnacional y por la otra parte, presenciamos a un sector de la vieja oligarquía, que se defiende con uñas y dientes frente a este asedio burgués.

Y ante el vacío dejado por la izquierda representada en el FMLN, este orden oligárquico logra incluir en su proyecto a una importante fuerza interna  de naturaleza democrática, y asimismo, el cambio de gobierno este año en Estados Unidos,  le permite contar con un nuevo y poderoso aliado internacional, el gobierno Biden, que puede alinear contra Bukele a la Unión Europea y a diversos gobiernos latinoamericanos, así como presionar mediante el FMI.

A continuación exploramos la situación del bloque burgués hegemónico, del bloque oligárquico desplazado y su estrategia de restauración, y la situación marginal de la izquierda política y el movimiento popular y social.

I.Los dilemas del proyecto Bukele: políticos, sociales, económicos y de política exterior

El régimen Bukele surge como respuesta a dos situaciones: por una parte el rechazo popular al modelo neoliberal que aumentó la brecha existente entre pobres y ricos, y por otra parte, el rechazo al sistema político,  y a los partidos que lo implementaron y consolidaron por 30 años (20 años de ARENA  y 10 del FMLN).

En términos políticos, al iniciar el tercer año ya de su mandato, el presidente Bukele  necesita transformar el respaldo  electoral, en mecanismos que le permitan establecer y legitimar en el Estado,  un nuevo sistema político que se base más en el consenso que en el disenso, más en la cooperación que en la competencia, más en la integración que en la división. Y el partido Nuevas Ideas es el motor para esta transformación, que definitivamente necesitara de un nuevo orden constitucional.

En relación a lo social y con base a lo que observamos en políticas públicas con respecto al empleo,  educación, salud y  lucha contra la delincuencia, la dinámica está orientada hacia un fortalecimiento del Estado  y desde este impulsar un proyecto de Estado de Bienestar, de naturaleza neodesarrolista.

Por lo que corresponde el desmontaje del Estado neoliberal, aunque no da señales claras de los ritmos de esta transformación.  En esta vía, es significativo el tratamiento de la pandemia del covid-19, en el que se rechazó la participación privada para “vender” la vacuna.

Con respecto a lo económico, además de las remesas, existe una apuesta a reactivar la agricultura como eje de acumulación, así como el turismo. Pero ambas actividades se verán afectadas por los altos índices de endeudamiento público existente y por las condiciones que imponga el FMI para avalar su respaldo financiero. El presidente Bukele enfrentara en los próximos tres años el desafío mortal de combinar crecimiento económico con equidad social.

En política exterior, el enfrentamiento con el gobierno Biden va marcar fuertemente estos próximos meses. La lista Engels pende como espada de Damocles sobre la cabeza de la clase política regional, y puede indudablemente salpicar a funcionarios del equipo Bukele. Lo veremos pronto.

II. Los dilemas del bloque oligárquico desplazado y su estrategia de restauración. Crisis y ampliación del proyecto oligárquico

Entre los desplazamientos de naturaleza política sobresale la emergencia de ANEP/FUSADES sobre ARENA,  como la vanguardia del esfuerzo estratégico por revertir este proceso histórico de cambios, mediante una estrategia basada en cuatro elementos:

a) una permanente y sistemática campaña mediática de desprestigio del actual régimen, a través de TCS y los principales medios escritos (EDH,LPG,DEM), acusándolo de corrupción, autoritarismo  e incapacidad.

b) la promoción desde ANEP/FUSADES de una gran alianza o  frente amplio anti-gubernamental que incluye ONGs, centros de pensamiento, universidades, iglesias,  “analistas”  y particularmente al movimiento popular y social.

c) la coordinación con el gobierno de Biden para impulsar una campaña de amenazas y aislamiento internacional vía OEA, y

d)  la promoción de la  agenda política de la “oposición”  legislativa (ARENA (14), FMLN (4), Vamos (1), Nuestro Tiempo (1).

El orden oligárquico impulsa desde sus trincheras mediáticas la construcción de una matriz conservadora, a través de  una  guerra cultural en la cual se auto identifica como adalid de las libertades públicas y el estado de derecho, y acusa a su “enemigo” como incapaz, inmaduro, caótico y corrupto.

El discurso central de la oligarquía es que el gobierno Bukele el 1 de mayo ha roto el orden constitucional mediante un golpe de estado ( destitución de integrantes de Sala de lo Constitucional y Fiscal General) y por lo tanto merece ser duramente castigado, nacional e internacionalmente ( en la OEA, ONU, etc.)

III. la situación marginal de la izquierda política y el movimiento popular y social. Los desafíos de la izquierda y movimiento popular y social salvadoreño

Observamos como en los sectores democráticos, se establece y ojala que esto no se repita en los sectores revolucionarios,  una actitud muy complaciente, muy sumisa,  tanto en la defensa del orden oligárquico como en la defensa del orden imperial, del supuesto “derecho” de la administración Biden de  intervenir abiertamente en este conflicto a favor de la restauración del  orden oligárquico, abogando abiertamente porque se regrese a la situación anterior al 1 de mayo. 

Una poderosa corriente reformista, dentro dela izquierda, formada políticamente en una visión electoralista y domesticada por tres décadas en la administración del estado,  justifica que se debe defender este sistema capitalista y sus relaciones de opresión y explotación, así como su estado de democracia representativa liberal, la “sagrada” separación de poderes, para evitar la llegada del “caos y la anarquía” que luego lamentaremos y garantizar  así el orden y el progreso, representados por la restauración oligárquica.

Esta izquierda reformista en su discurso y práctica, es rehén de tres niveles de pensamiento: a) impacto de la derrota del 28 de febrero  b) impacto 30 años de cultura neoliberal y electorera y c) impacto de la caída del socialismo en 1989…

El FMLN: un cusuco de tres cabezas

Desde su nacimiento, el FMLN como una gran alianza político-militar de izquierda, experimentó la necesidad de crecer y desarrollarse con cinco partidos, cinco ejércitos, cinco frentes de masas, cinco direcciones y cinco estrategias diferentes pero complementarias.

De una forma u otra estos cinco orígenes diferentes (popularmente los llaman ombligos) han marcado una historia que ya rebasa los cuarenta años, y que comprende  doce años de guerra y veintiocho años de lucha electoral, y que ha sido heredada a las nuevas generaciones de militantes.  

La pretensión de unidad ideológica nunca fue lograda y siempre coexistieron diversas agrupaciones de intereses políticos e ideológicos, los cuales hoy se expresan en tres grandes agrupaciones, las cuales parecen aferradas a coexistir indefinidamente en un mismo techo, pero sin garantizar los acuerdos mínimos que les permitirían  una práctica pública adecuada, frente a la oligarquía, frente al imperialismo, en su manejo legislativo  y frente al proyecto de Nuevas Ideas.

La otra izquierda antibukelista

Existen otras agrupaciones de izquierda en El Salvador que inciden en el desarrollo del movimiento popular y social, incluyendo a tres fuerzas políticas de orientación trotskista, PCT, PSOCA y BPJ, con un claro planteamiento anti-bukelista.  

Existen además pensadores de izquierda como es el caso de Dagoberto Gutiérrez, que asume una posición de apertura frente al proyecto de Nuevas Ideas, señalando que es una oportunidad única para transformar la sociedad salvadoreña.

El movimiento popular y social

La decisión de no fortalecer y abandonar a su suerte el movimiento popular durante los gobiernos del FMLN (2009-2019) pasa su factura en este nuevo momento. Es un movimiento popular y social débil y muy disperso.

En el horizonte actual, aparecen dos grandes agrupaciones con un planteamiento anti-bukelista,  el Frente Nacional  de Resistencia y Rebeldía, FNRR  y la Coordinadora Salvadoreña de Movimientos Populares, CSMP.

El FNRR, aglutina a 35 organizaciones, y convocó a la multitudinaria movilización realizada para el 1 de mayo, que salió del Salvador del Mundo, y desde entonces ha realizado distintas acciones, incluyendo, el 5 de mayo frente a la CSJ y el 28 de mayo frente al Palacio Nacional.

Por su parte, la CSMP, la cual aglutina a diversas redes y alianzas de ONGs, también  ha realizado últimamente acciones con  presencia ciudadana, incluyendo la realizada el 2 de mayo en la Plaza Constitución. No obstante esto, es evidente que todavía la oposición desde el movimiento  popular y social al proyecto Bukele está en sus fases iniciales.

Y es importante para avanzar definir niveles de reflexión, de consenso  y de coordinación que permitan impulsar acciones tanto de movilización como de denuncia, mucho más contundentes.  La dispersión actual únicamente beneficia sea al proyecto hegemónico de Bukele o a la pretensión oligárquica (ANEP, FUSADES) y seguramente muy pronto también de la Embajada/AID  y de la recién llegada Jean Manes , de disputar mediante recursos, la conducción política y programática del movimiento popular y social. 

Conclusiones

Todo parece indicar que la confrontación social y política entre el viejo bloque oligárquico y el nuevo bloque burgués tendera a agudizarse. Y esta tendencia provocará mayores niveles de crisis política, lo cual abrirá ventanas de oportunidad  para que un movimiento popular y social, unido y combativo pueda insertarse decisivamente en esta disputa,  en la que está en juego el futuro de El Salvador.

Derechos de las mujeres en retroceso, en los últimos dos años. CFPA. 1 de junio de 2021

La Concertación Feminista Prudencia Ayala manifestamos nuestra profunda preocupación ante hechos, acciones y resultados de los dos años de gestión de este gobierno en cuanto al avance y retroceso de derechos de las mujeres salvadoreñas. Por lo cual ante la población salvadoreña y comunidad internacional expresamos:
Que durante este periodo presidencial han ocurrido hechos que atentan contra el Estado Constitucional y democrático de derechos, poniendo en cuestionamiento principios y garantías constitucionales como la igualdad, el debido proceso y la seguridad jurídica.
Que a dos años de gestión continuamos sin conocer planes de acción nacional pese a la espiral de endeudamiento externo que ata inexorablemente a las generaciones actuales y futuras sin que medie una política de empleo y seguridad ciudadana real y armónica con el respeto de derechos humanos de las mujeres
La institucionalidad de igualdad como el ISDEMU, Ciudad Mujer y otros mecanismos de la igualdad sustantiva por la que luchamos colectivamente por años está siendo debilitada en su accionar para la defensa de los derechos de las mujeres, las iniciativas ciudadanas presentadas por las organizaciones civiles ante la Asamblea Legislativa para ser discutidas y consensadas fueron enviadas sin mayor estudio por la mayoría calificada de las y los diputados al archivo, calificándolas de obsoletas lo cual nos causa preocupación sobre si existe voluntad política de las y los actuales diputados de seguir legislando a favor de los derechos de las mujeres, pese a la publicidad mediática de integración de una nueva dirección de la unidad de género de la Asamblea Legislativa.
Además, durante la pandemia un contexto que ha dejado en evidencia las debilidades del sistema sanitario, no solo en El Salvador, situación que es recurrente en el mundo. Una de las medidas controversiales de los Estados para el freno del virus COVID-19 era la cuarentena que implicaba, frenar la mayor parte de la actividad comercial, industrial y otros sectores de la economía nacional, y se visibilizaron otros aspectos que requerían atención inmediata, pues organizaciones de sociedad civil fueron recolectando datos de ciudadanos que denunciaban detenciones ilegales. Hasta el 9 de mayo de 2020, dentro del período de aislamiento o cuarentena más restrictiva, registraron al menos 2,424 personas1 detenidas y frente al habeas corpus 148-2020 ante la Sala de lo Constitucional, cuya admisión posicionaba que se habían dado casos de detenciones sin fundamento legal.
Así mismo, el aislamiento expuso a las mujeres que enfrentaban violencia en sus hogares a permanecer encerradas con sus agresores, lo cual requería una mayor respuesta de la PNC, quienes durante ese período estaban dedicados completamente a los esfuerzos para contener el virus mediante la vigilancia de las personas para no violar la cuarentena.
1 Escalante, Manuel. La situación de los derechos humanos en el marco de la emergencia por covid-19. Para consulta: https://noticias.uca.edu.sv/articulos/la-situacion-de-los-derechos-humanos-en-el-marco-de-la-emergencia-por-covid-19
Ante los despidos realizados en diferentes instituciones recordamos que, son muchos hogares sostenidos por mujeres como únicas responsables de hogar que no contaran con el presupuesto mínimo para mantener las exigencias que amerita la reproducción familiar y el aparato económico del país, así mismo si son hogares en que un integrante ha sido despedido arbitrariamente.
Así mismo, observamos un retroceso en el respeto de derechos económicos, sociales, civiles y políticos todos partes de los derechos humanos de las mujeres y protegidos por pactos, convenciones, tratados y régimen constitucional, pues cada vez hay más mujeres desempleadas, acosadas, perseguidas, asesinadas, desaparecidas, pese a que las estadísticas oficiales mantiene discurso de opacidad frente al número de asesinadas y números de desaparecidas, realidad que debería de ser parte de la intervención y eficacia del Estado.
Hacemos énfasis en que la situación de inseguridad ciudadana es cada vez es mucho más grave, desde el 2019, FESPAD en una entrevista de CNN registra un estimado de 2,311 desapariciones entre jóvenes y mujeres en su mayoría, y al comparar cifras estimadas en el año 2020 las organizaciones sociales dedicadas a la relatoría señalan entre 2,251 desaparecidos hasta la fecha, además entre enero a marzo de este año hay un estimado de 257 personas.2
En el caso de las denuncias de desapariciones los funcionarios con atribuciones claras en la investigación y prevención del delito, no asumen sus responsabilidades en la investigación, muchas veces dando información a las familiares sobre procesos de investigación que realmente no realizan y en algunos casos se burlan de las personas que denuncia las desapariciones, argumentando que estas obedecen a cambios de domicilio de quienes se presumen desaparecidas.
Que las estimaciones en datos estadísticos sobre homicidios, femicidios, desaparecidos y acoso sexual son alarmantes sobre todo si van acompañadas de discursos que manifiestan que no son hechos tan importantes, y por lo tanto no se prioriza. Lo cual da como resultado de un alto grado de impunidad, ya que la dilatación de la investigación representa pérdidas de vidas humanas, por lo que consideramos que si ha reducido el número de homicidios se observa que han aumentado aceleradamente las estadísticas sobre desapariciones y cementerios clandestinos, lo cual debería ser una prioridad dentro de las políticas de persecución del delito.
Que las funciones de investigación, sanción, prevención del delito y violencia han sido cada vez más deficientes ante la necesidad de acciones urgentes ante la violencia principalmente contra las mujeres. Estos crímenes y feminicidios son una muestra de la disfuncionalidad del aparato de Estado con responsabilidad institucional en la investigación, sanción y prevención del delito, pese a que el movimiento social y feminista ha exigido atención y gestión de estos casos a fin de que no desaparezca ni una mujer más.
Lamentamos que este marco de irrespeto al Estado constitucional y democrático de derechos y las acciones políticas como parte del ejecutivo en la que no se respeta la legalidad y el debido proceso está ocasionando pérdida acelerada de derechos humanos de la población de mujeres y sus familias.
Que ante el clima de inseguridad jurídica en que los funcionarios públicos colocan al país y sociedad en general y principalmente a las mujeres de escasos recursos el restablecimiento de derechos como el
2 Baños, Saúl. FESPAD. 2021. Entrevista de FESPAD para CNN sobre el caso #Chalchuapa y el fenómeno de personas desaparecidas en El Salvador. Puede ser consultado en: https://www.facebook.com/watch/?v=479800699962307
reinstalo o indemnización se verá seriamente afectado por la falta de independencia de los órganos de Estado.
Reafirmarnos que las decisiones políticas de La presidencia de la República, que irrespetan nuestro marco jurídico son las formas de expresión de abusos de poder que fortalecen la impunidad y el irrespeto de la legalidad, lo que provoca que se incremente el clima de inseguridad de las mujeres y a su vez, en el deterioro de la salud mental en las ciudadanas y trabajadoras que se les están violando sus derechos y no encuentran mecanismos institucionales que puedan darles protección.
Por lo tanto, como mujeres en el territorio salvadoreño exigimos a todos los órganos del Estado:
El respeto al orden constitucional y el sometimiento a todas las leyes del país, que han prometido en su aceptación del cargo.
Respeto a la libertad de expresión y libertad de prensa.
Respeto a las personas defensoras de derechos, que en un país democrático tienen que actuar de forma autónoma y ser críticas a las decisiones que afectan los interese estratégicos de la población.
Fortalecimiento al ISDEMU y los mecanismos de implementación creados por la Ley de igualdad, equidad y erradicación de la discriminación contra las mujeres y la Ley especial integral para una vida libre de violencia para las mujeres.
Respeto a los organismos de mujeres y feministas por su labor y aporte en la construcción de una democracia real.
Respeto a la Legislación laboral tanto de los empleados públicos como privados, ya que se denuncia que el Ministerio de Trabajo no está cumpliendo su función de garante de los derechos de las personas trabajadoras.
Planes de seguridad con enfoque de género que contribuyan a erradicar la de violencia contra las mujeres, en todas sus manifestaciones.
Implementación del Plan de Acción Nacional de la resolución del Consejo de Seguridad de Naciones Unidas 1325 sobre Mujeres, Paz y Seguridad.
Concertación Feminista Prudencia Ayala
San Salvador, 1 de junio del 2021

Organizaciones sociales rechazamos las acciones de la Asamblea Legislativa, pues ponen en riesgo la paz y el bienestar de los salvadoreños y salvadoreñas. 3 de mayo de 2021

Nosotros y nosotras, representantes de organizaciones sociales que aglutinamos a miles de compatriotas condenamos la destitución de los magistrados y magistrada de la Sala de lo Constitucional y del Fiscal General de la República por parte de la nueva Asamblea Legislativa, porque es un acto ilegal e inconstitucional que tiene la peligrosa intencionalidad de acumular poder en una persona y un partido político en contra del bien común. Sabemos, por experiencia propia, que la concentración de poder solo genera dolor y sufrimiento para la gente, y es algo que no queremos que se repita.    En estos momentos no se trata de defender personas concretas; se trata de defender el Estado de derecho que garantiza los derechos humanos de toda la población. La acción de los diputados y diputadas que avalaron con su voto la remoción de autoridades elegidas constitucionalmente genera  inestabilidad y conflictividad en el país, reduce las posibilidades de desarrollo humano y económico, y aumenta el riesgo de que ocurran violaciones a derechos humanos. El Salvador no necesita esto.    La población salvadoreña quiere un cambio en el proceder de los políticos. Por ello dio su voto a un partido que ofreció nuevas ideas, pero lo que sucedió el 1 de mayo no responde a esas expectativas. Actuar sin respeto a la ley es un retroceso en el avance que el país había logrado en la construcción de su democracia.   Por lo anterior:  

  • Demandamos a la Asamblea Legislativa y al presidente Nayib Bukele que restauren el orden democrático del país y que se abstengan de continuar con estas acciones equivocadas que solo ponen en peligro el bienestar y la paz que con tanta dificultad ha costado ir alcanzando.
  • Solicitamos a las organizaciones y pueblos hermanos de otros países que nos acompañen en este grave momento y presionen a sus Estados a pronunciarse en favor del Estado de derecho y el respeto a los derechos humanos en El Salvador. 
  • Solicitamos a organismos internacionales y países amigos que observen lo que está ocurriendo en nuestro país y llamen al Gobierno y la Asamblea Legislativa a respetar los mecanismos y principios de la democracia.
  • En el país, muchos piensan que lo que está sucediendo no les afecta directamente, pero se equivocan; la destrucción de la democracia nos perjudicará a todos tarde o temprano. No hay excusa para la pasividad. Quedarnos callados en estos momentos nos hará cómplices de lo que pase después. Por ello, invitamos a la población salvadoreña a no reconocer como legítimos a los funcionarios que fueron elegidos para sustituir a los magistrados de la Sala de lo Constitucional y al Fiscal General. El pueblo quiere cambios que profundicen la democracia y lleven a la justicia social; no eligió a otra cúpula para que se aproveche del poder para sus intereses.

San Salvador, 3 de mayo de 2021  

Acción Ciudadana Aliados por la Democracia Alianza Américas Alianza Ciudadana contra la privatización de la Salud Alianza Nacional contra la Privatización del Agua Articulación Nacional de Comunidades Eclesiales de Base en El Salvador Asociación Ameyalli Asociación Agrupación Ciudadana por la Despenalización del Aborto Asociación Azúl Originario Asociación de Capacitación e Investigación para la Salud, Acisam Asociación Nuevo Amanecer de El Salvador, Anades Asociación Creciendo Juntas Asociación de Estudiantes de Derecho de la UCA, Aseduca Asociación de Periodistas de El Salvador, APES Asociación de Radios y Programas Participativos de El Salvador, Arpas Asociación Transparencia, Contraloría Social y Datos Abiertos, Tracoda Cámara de Comercio e Industria de El Salvador Círculo Académico de Análisis Político, CAAP Colectiva Amorales Colectiva Feminista Colectivo La Comuna Colectivo Herberth Anaya Sanabria Consejo de Educación Popular de América Latina y El Caribe Comité de Ex-Presos y Presas Políticos de El Salvador, Coppes Comunidades de Fe Organizadas para la Acción, Cofoa Coordinadora Salvadoreña de Movimientos Populares Cristosal Democracia, Transparencia y Justicia, DTJ Escuelas de Formación Política y Ciudadana (EFPC) de Centroamérica Foro del Agua de El Salvador Foro Nacional de Salud Fundación para el Debido Proceso, DPLF Fundación para el Desarrollo de Centroamérica, Fudecen Fundación para el Desarrollo de las Ciencias Sociales, Fudecso Fundación de Estudios para la Aplicación del Derecho, Fespad Fundación Hermano Mercedes Ruiz, Fundahmer Fundación Nacional para el Desarrollo, Funde Fundación Share Internacional Futuro Abierto Generación Romero Iglesia Episcopal Anglicana Iglesia Luterana Salvadoreña Instituto Centroamericano de Estudios Fiscales, Icefi Instituto Holandés por la Democracia Multipartidaria, NIMD El Salvador Líderes Solidarios Mesa de las Iglesias Históricas de El Salvador Mesa por la Soberanía Alimentaria Movimiento de ONGD para el Desarrollo Solidario de El Salvador, Modes Movimiento “Todo por la República” Ni una menos El Salvador Oficina de Justicia, Paz e Integridad de la Creación, JPIC El Salvador Panorama Económico Red de Defensoras de Derechos Humanos Salvadoreñxs construyendo memoria Servicio de Comunidades de Base, Sercoba Servicio Social Pasionista, SSPAS Tutela Legal Dra. María Julia Hernández Universidad Centroamericana José Simeón Cañas