La vendetta dei sauditi (benedetta da Trump)

La vendetta dei sauditi (benedetta da Trump)
Verso l’occupazione militare del Qatar
di Federico Dezzani
L’Arabia saudita ed i Paesi arabi gravitanti nella sua orbita hanno sorpreso il mondo con la decisione di isolare per terra, aria e mare, l’emirato del Qatar: il blocco totale è il preludio di un’invasione militare o di una deposizione “morbida” dei regnanti.
Si consuma così il primo “colpo di scena” in politica estera dall’insediamento di Donald Trump: alla rivoluzione permanente della coppia Obama-Clinton, fatta di rivoluzioni colorate, ammiccamenti alla Fratellanza Mussulmana e aperture interessate all’Iran, subentra la svolta “reazionaria” della nuova amministrazione. I sauditi prendono la loro vendetta sulla piccola monarchia che cavalcò la Primavera Araba, seminando il caos in Tunisia, Libia, Egitto e Siria con il placet dell’establishment liberal.
Dopo la rivoluzione, la reazione
Lunedì 5 giugno, un fulmine ha attraversato il panorama internazionale: dopo due settimane di crescenti tensioni, l’Arabia Saudita e la variegata galassia di Paesi mussulmani che dipendono dai suoi petrodollari e/o dalla sua influenza politica (Bahrein, Emirati Arabi uniti, Egitto, Yemen, Maldive, Kuwait, Oman e governo laico-nazionalista libico) hanno annunciato un isolamento totale del Qatar, reo di “finanziare il terrorismo nella regione”.
È un blocco a 360 gradi, diplomatico e commerciale: espulsi i diplomatici, chiuse le frontiere terrestri, sospesi i voli aerei, interrotto il traffico marittimo per l’esportazione di gas liquido e l’importazione di beni di prima necessità.
Per il minuscolo, ma opulento, emirato del Qatar (piccola protuberanza della Penisola Arabica, abitata da 2 milioni di persone, di cui il 90% lavoratori stranieri) significa la morte certa: lo strangolamento economico di Doha è il preludio della defenestrazione della famiglia regnante o, nel caso in cui questa opponesse resistenza, di una veloce occupazione militare da parte dei sauditi, sulla falsariga dell’intervento del 2011 in Bahrein.
Le speranze qatariote di un soccorso esterno, da parte di qualcuno di quei Paesi occidentali dove la piccola monarchia ha riversato miliardi di petrodollari nell’ultimo decennio, sono vane: taceranno gli inglesi, gireranno lo sguardo i francesi, si tapperanno le orecchie i tedeschi.
Il soffocamento della monarchia qatariota è, infatti, una manovra saudita, ma ha ricevuto il previo avvallo di una potenza che nessuna cancelleria europea è in grado di contestare su questo campo: gli Stati Uniti d’America. Si avvera così, a distanza di sei mesi scarsi dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, almeno una delle previsioni formulate dopo la vittoria del candidato “populista” (diversamente disattese, purtroppo): la caduta in disgrazia del Qatar che, durante gli otto anni dell’amministrazione Obama, aveva scalato il rango delle potenze mediorientali, quasi come se l’intera politica della regione si decidesse nella microscopica penisola che affaccia sul Golfo Persico.
Si notino le date: il 21 maggio Trump annuncia a Riad, ospite del Consiglio di Cooperazion del Golfo, l’impegno a garantire “la stabilità” della regione, dopo le Primavere Arabe che hanno coinciso con l’amministrazione Obama; tra il 21 maggio ed il 5 giugno, i rapporti tra il Qatar ed i vicini sauditi si deteriorano velocemente e Doha è vittima di un presunto attacco informatico che viola l’agenzia di stampa governativa, pubblicando dichiarazioni pro-Iran e pro-Hezbollah; il 5 giugno, infine, Riad ed i Paesi arabi alleati annunciano il blocco totale della piccola monarchia.
Un simile esito, dopo la sconfitta alle presidenziali di novembre di Hillary Clinton (Segretario di Stato ai tempi della Primavera Araba che sconquassò il Medio Oriente nel 2011), era facilmente prevedibile: durante l’amministrazione democratica, il piccolo, ma ambizioso, Qatar lavora sodo per affermarsi come potenza regionale di primo piano, cavalcando la “rivoluzione permanente” che l’establishment liberal ha in serbo per il Medio Oriente.
Rovesciare i vecchi regimi laici-nazionalisti, sprigionare il demone della Fratellanza Mussulmana, aprire diplomaticamente all’Iran da un lato e fomentare la guerra di religione tra sunniti e sciiti dall’altro: non c’è un singolo dossier caldo in cui non compaia il nome del Qatar, spesso unito alla Turchia di Recep Erdogan.
È il Qatar che invia corpi speciali in Libia per rovesciare Muammur Gheddafi1; è il Qatar che elargisce donazioni milionarie al partito islamista Ennahda che domina la Tunisia post-Ben Ali2; è il Qatar che inietta 8 $mld nell’Egitto della Fratellanza Mussulmana, dove il presidente Mohammed Morsi ha conquistato il potere dopo la rivoluzione colorata che defenestrato Hosni Mubarack3; è il Qatar che, nel’agosto del 2014, sostiene la giunta militare islamista che si installa a Tripoli, obbligando il legittimo governo laico a fuggire a Tobruk; è il Qatar che, all’indomani della vittoria di Trump, conferma il suo sostegno all’insurrezione islamista in Siria anche nel caso in cui venisse meno l’impegno americano4.
Potendo contare sul suo relativo isolamento geografico dalle zone calde del Medio Oriente e su immense risorse finanziarie con cui è facile comprare gli sparuti sudditi, il Qatar asseconda dal 2011 in avanti il piano dell’amministrazione Obama di “ridisegnare” il Medio Oriente, puntando sul cavallo dell’islam politico (la Fratellanza Mussulmana) che nella Turchia di Recep Erdogan ha già dato discreti risultati: è un piano, quello dell’oligarchia atlantica, che incontra ovviamente forti resistenze persino tra gli stessi alleati arabi, in primis quelli più “reazionari”.

L’Arabia Saudita, in particolare, è allergica alla Fratellanza Mussulmana per due motivi: il carattere “universalista” dei partiti islamici è inconciliabile con la sua natura di Stato tribale e le loro pretese di “democraticità” non sono digeribili da una monarchia assoluta. I Saud, già preoccupati dal mantenimento dell’ordine dentro il proprio regno in rapida crescita demografica (31 milioni di abitanti di cui il 27% sotto i 14 anni), amano la stabilità: la caduta di vecchi amici come il tunisino Ben Ali e l’egiziano Hosni Mubarack, abbandonati da un giorno all’altro dagli americani, è per loro un vero e proprio affronto.
Quando l’esercito egiziano, di fronte al precipitare delle situazione interna, organizza il golpe che depone Mohammed Morsi ed incorona il feldmaresciallo Abd Al-Sisi, l’Arabia Saudita è la prima a esultare, iniettando decine di miliardi di dollari nel malconcio Paese arabo5.

Se Riad gioisce, ovviamente Doha piange: “Fall of Egypt’s Mohamed Morsi is blow to Qatari leadership” scrive il Financial Times nel 2013, notando come la repressione della Fratellanza Mussulmana sia un duro colpo per le ambizioni geopolitiche di Doha. Quello che il quotidiano della City non dice è che il termidoro egiziano è anche una debacle per lo stesso establishment atlantico, costretto a subire la reazione delle forze laico-nazionaliste arabe: sin dal 2014 è avviata, infatti, la manovra per minare la presidenza di Al-Sisi.

Insurrezione dell’ISIS nella penisola del Sinai, attentati contro la comunità coopta, isolamento diplomatico sull’onda dell’omicidio Regeni. È difficile che l’oligarchia atlantica, qualora Hillary Clinton avesse conquistato la Casa Bianca, si sarebbe “accontentata” di spodestare Al-Sisi: più facile, invece, che avrebbe giocato fino in fondo la partita, destabilizzando la stessa Arabia Saudita, “retrograda”, “illiberale” e “oppressiva”.

Contro qualsiasi previsione, Donald Trump è però emerso vincente dalla sfida elettorale e, nonostante qualche frecciata lanciata durante la campagna elettorale come la minaccia di bloccare l’import di petrolio saudita, il neo-presidente si è avvicinato rapidamente a Riad, vista come “il campione della reazione”, indispensabile per mantenere la stabilità nella regione: il primo viaggio di Trump all’estero coincide con la visita in Arabia Saudita, dove il presidente ribadisce l’impegno americano nella regione, sigla accordi militari per 110 $mld e vagheggia la nascita di una “NATO araba” per lottare contro il terrorismo e contenere l’Iran.
Se la potenza della reazione, Riad, è sugli scudi, quella della “rivoluzione” cade velocemente in disgrazia: trascorreranno meno di due settimane prima che parta la manovra per “strangolare” definitivamente l’emirato del Qatar.
Annusando l’imminente termidoro egiziano con cui i militari egiziani soppressero la Fratellanza Mussulmana, il Qatar corse allora ai ripari: con una mossa a sorpresa, dieci giorni prima che cadesse Mohammed Morsi, l’emiro Hamad ben Khalifa Al Thani abdicò nel giugno 2013 in favore del figlio 33enne.
Fu una scelta accorta, che permise alla monarchia qatariota di scongiurare la vendetta saudita. Il contesto è però oggi cambiato: l’establishment liberal ha perso la Casa Bianca, le forze della reazione sono alla ribalta e la pazienza di Riad, già alle prese con il proprio Vietnam nel vicino Yemen, è terminata: un simile miracolo non è più possibile e niente può più salvare la monarchia del Qatar. Nel futuro c’è soltanto la deposizione o l’invasione militare.
C’è chi legge lo scontro tra Riad e Doha come un capitolo del più ampio conflitto tra sunniti e sciiti: il piccolo Qatar, secondo quest’interpretazione, pagherebbe a caro prezzo le sue timide (ed interessate) aperture al vicino Iran. In realtà, il braccio di ferro tra le due monarchie è leggibile come un duello tra reazione e rivoluzione, tra assolutismo e islam politico, tra conservazione e destabilizzazione.
Grazie a Trump, la “reazione saudita” ha avuto la meglio sulla “rivoluzione qatariota”: è uno scenario tutto sommato positivo, soprattutto per quei Paesi, come l’Italia, che trarrebbero grandi vantaggi dalla stabilizzazione della regione. Pensiamo in particolare alla Libia dove, come analizzeremo nel prossimo articolo, la caduta della monarchia qatariota faciliterebbe la definitiva riappacificazione dello Stato, grazie alla soppressione degli islamisti e l’avanzata del generale Khalifa Haftar.
Gli ultimi giorni della monarchia qatariota si avvicinano: addio, piccola, infida, Doha!
Ti credevi la regina dello scacchiere mediorientale ed eri, invece, solo uno dei tanti pedoni.
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Note
1 https://www.theguardian.com/world/2011/oct/26/qatar-troops-libya-rebels-support
2 http://www.middle-east-online.com/english/?id=62816
3 https://www.ft.com/content/af5d068a-e3ef-11e2-b35b-00144feabdc0
4 http://www.reuters.com/article/us-mideast-crisis-syria-qatar-idUSKBN13L0X7
5 http://www.reuters.com/article/us-saudi-egypt-finance-idUSKCN0X20Q0

Las izquierdas latinoamericanas y la cuestión de Venezuela

Las izquierdas latinoamericanas y la cuestión de Venezuela
La crisis venezolana ha puesto de manifiesto las distintas posturas existentes en la izquierda de América Latina con respecto al «socialismo del siglo XXI»
Marcelo Pereira -Mayo 2017 -Nueva Sociedad
¿Será que nunca haremos más que confirmar
la incompetencia de la América católica
que siempre necesitará ridículos tiranos?
Caetano Veloso. Podres poderes (1984)
La crisis venezolana es un parteaguas en la izquierda latinoamericana y en el territorio más amplio del «progresismo» regional. Los motivos de esta división y la índole de las posiciones que quedan de uno y otro lado, quizá no sean tan simples como parecen. Considerar de qué modo se dividen los campos en Uruguay puede tener alguna utilidad para comprender mejor el fenómeno.
Es frecuente que se identifique el apoyo al presidente Nicolás Maduro con sectores de «izquierda ortodoxa», y en ese contexto «ortodoxia» significa al igual que el término «sesentismo», el apego a un ideario que se presupone obsoleto. Esta manera de abordar el asunto tiene algunos inconvenientes.
Por un lado, no se sabe bien de qué posiciones supuestamente perimidas se habla, ni a cuáles se considera, en cambio, moderna y razonable. Además, subyace a esa clasificación algo muy parecido a un argumento tautológico: quienes respaldan al gobierno chavista de Venezuela serían exponentes de una izquierda ortodoxa porque ese gobierno también lo es, y el hecho mismo de defenderlo probaría una identidad semejante a la suya. Pero ¿en qué sentido se puede considerar a Hugo Chávez o a sus herederos políticos parte de alguna ortodoxia izquierdista?
Si se detecta esa presunta ortodoxia en que la redistribución de los ingresos petroleros (mientras estos se mantuvieron en altos niveles) atendió mejor que antes algunas necesidades sociales básicas, o en el protagonismo omnipresente del Estado, la comprensión de lo que significa «izquierda» se queda corta.
Si se considera que el izquierdismo anacrónico del chavismo reside en atribuir culpas al imperialismo estadounidense por los males de nuestra América, o en prácticas a las que se puede aplicar la difusa categoría «populismo», estamos en el territorio caricaturesco y frívolo del Manual del perfecto idiota latinoamericano.
El hecho es que, pese al notorio deterioro de los niveles de formación y de reflexión política de la izquierda latinoamericana en las últimas décadas, parece muy difícil que algún dirigente medianamente experimentado haya llegado a ver a Chávez o a sus epígonos como modelos de referencia, o se haya tomado en serio lo del «socialismo del siglo XXI», que nunca pasó de ser un producto ideológico de baja calidad con más componentes cortoplacistas y retóricos que pensamiento estructural y estratégico (el socialismo no era, por cierto, «la electricidad más los soviets», pero mucho menos es el extractivismo más un líder carismático, con bases dependientes en extremo de la providencia estatal).
En Uruguay, la pregunta no es solo por qué algunos sectores de la izquierda apoyan abierta y decididamente al gobierno de Maduro, sino también a qué se debe que otros –a los cuales es difícil catalogar como radicales u ortodoxos– mantengan sus cuestionamientos en un tono muy matizado y comedido.
O sea, por qué, ante la clara deriva antidemocrática de ese gobierno, oscila entre la justificación y algo muy semejante a la «crítica fraterna» una izquierda como la uruguaya, cuya reivindicación de José Artigas se inscribe en una tradición muy diferente de la bolivariana. Esa tradición Artiguista es cultora de una racionalidad y un antimilitarismo que se llevan muy mal con el estilo chavista.
En ella se forjó gran parte de la identidad del Frente Amplio (FA) en la lucha contra la dictadura de 1973-1984, con una fuerte revalorización de la democracia y las libertades. No resulta casual, por ello, que el general Liber Seregni, líder histórico del FA, se negara a reunirse con Chávez cuando este visitó Uruguay en 1994, por la simple razón de que era «un militar golpista».
Hay fuertes indicios de que esa gama de actitudes tiene motivos bastante alejados de la afinidad ideológica. Consideremos brevemente seis de ellos (el orden de exposición no implica atribuirles mayor o menor importancia).
1. Desde un punto de vista geopolítico, la llegada del chavismo al gobierno de Venezuela fue un factor significativo de cambio en las relaciones entre los gobiernos latinoamericanos, y en las de estos con Estados Unidos. La escenificación en 2005, durante la IV Cumbre de las Américas realizada en Mar del Plata, del rechazo a la propuesta de Área de Libre Comercio de las Américas, con fuerte protagonismo de Chávez, tuvo un fuerte impacto simbólico como esbozo de nuevos alineamientos a escala continental, y también de relaciones eventualmente más equilibradas en el campo del «progresismo» latinoamericano, que redujeran o por lo menos contrapesaran en alguna medida el poderío brasileño.
Otro asunto es en qué medida esa escenificación simbólica correspondió a las causas reales de lo que ocurrió en Mar del Plata, y en qué medida –como seis años antes, en la III Conferencia Ministerial en Seattle de la Organización Mundial del Comercio– se impuso un relato épico que no registra el papel de fuerzas contrarias al avance del libre comercio pero muy distantes del «progresismo». Y aún otro asunto es qué suerte tuvo, luego, la Alternativa Bolivariana para las Américas (ALBA).
2. La alianza explícita de Chávez con Fidel Castro, que aseguró un acceso al petróleo venezolano crucial para la supervivencia de Cuba, le otorgó al chavismo una especie de salvoconducto a los ojos de una izquierda uruguaya que, por encima de sus diferencias y salvo raras excepciones, mantiene una actitud ante la cuestión cubana que abarca desde la adhesión incondicional hasta el silencio piadoso (una izquierda, podría decirse, históricamente «fidelizada»).
3. A las izquierdas de este siglo, asediadas por la incertidumbre estratégica y las contradicciones políticas les da vértigo cortar algunas amarras que aún las ligan a buena parte de sus bases tradicionales y de su propia historia. Por eso, una ruptura enfática con el chavismo puede parecerles más riesgosa que indispensable.
4. En su período más exitoso, Chávez pudo representar la ilusión de un atajo para sortear viejos dilemas no resueltos, en la medida en que se presentó como alguien que era al mismo tiempo nacionalista e internacionalista, gran ganador de elecciones y enterrador del sistema partidario tradicional en su país (un bipartidismo que estuvo, junto con el uruguayo, entre los más sólidos de América Latina), con voluntad de permanencia ininterrumpida en el poder pero sostenido por un pueblo dispuesto a movilizarse (como en el fallido golpe de Estado de 2002) y por un ejército politizado. De ilusión también se vive
5. Está, por supuesto, la cuestión del dinero. Una parte de los cuantiosos recursos manejados por el chavismo se destinó a resolver problemas de otros gobiernos del campo progresista latinoamericano (incluyendo a Uruguay), y a apoyar de distintas formas a sectores y dirigentes de ese campo. El modo en que esto se hizo no fue siempre transparente o siquiera confiable, pero así se establecieron vínculos fuertes y se forjaron lealtades.
6. No hacen falta teorías conspirativas para ver el avance de las derechas en las Américas y en el hemisferio norte. Ante esto, los progresistas no parecen demasiado deseosos de facilitarle el camino al gobierno a una oposición venezolana que incluye a notorios golpistas y reaccionarios, claramente alineados con intereses estadounidenses.
Las izquierdas ya deberían haber aprendido, tras numerosas lecciones desde el siglo pasado, que el criterio de defender todo lo que sea atacado por la derecha –o, peor, la idea de que algo debe ser defendido porque la derecha lo ataca– es una pésima brújula para quienes quieren rumbear hacia relaciones sociales más libres y más justas. Pero parece que todavía no lo aprendieron.

El FMLN tiene 3 ases en la mano

El FMLN tiene 3 ases en la mano

El problema de ese modelo y de esa política es que solo favorecen a una pequeña élite económica, y solo golpean a los sectores medios y pobres.
06 DE JUNIO DE 2017 23:32 | por Geovani Galeas

Es verdad que el FMLN está muy lejos de su mejor momento, pero aun así tiene en su mano al menos tres cartas que pueden definir a su favor las dos próximas contiendas electorales. Para explicar esta afirmación es necesario considerar el contexto en que se despliega la actual coyuntura política.

En sus ocho años de gobierno, el FMLN ha fortalecido considerablemente el rol subsidiario del Estado, mediante una serie de programas sociales que benefician de manera directa a la población. Sin embargo, al mismo tiempo, no ha podido cambiar en lo sustantivo el modelo económico y la política fiscal que ARENA impuso al país desde 1989.

El problema de ese modelo y de esa política es que solo favorecen a una pequeña élite económica, y solo golpean a los sectores medios y pobres. Por un lado la famosa y evidentemente fallida teoría del rebalse (concentrar arriba la riqueza para que luego derrame beneficios hacia abajo); y por el otro lado una estructura tributaria regresiva, en la que el que tiene más paga menos y el que tiene menos paga más.

He dicho que el FMLN no ha podido cambiar eso, no que no ha querido cambiarlo, y ese desajuste se debe a que la política real no es el espacio de lo deseable sino de lo posible. En ese plano las buenas intenciones son irrelevantes frente al problema concreto de la correlación de fuerzas. Es decir que un programa de cambio político, en sentido progresista, como el ofertado por el FMLN,solo es viable si se cuenta con el respaldo de una clara mayoría social convertida en mayoría política que, a su vez, se traduzca en una aritmética legislativa favorable.

Y este no ha sido el caso

Las dos administraciones de izquierda han estado en minoría legislativa respecto a la derecha en su conjunto. Por lo tanto, para lograr algún margen siquiera precario de gobernabilidad se han visto obligadas a pactar con parte de esa derecha, y ya se sabe que sin concesiones no hay pacto posible. A esto hay que agregar el agravante de que ahora la llave de la mayoría calificada está en manos de ARENA, cuya única estrategia es el bloqueo de las iniciativas gubernamentales más decisivas.

En todo caso, y por un efecto de acumulación, es esta concreta correlación de fuerza lo que ha determinado que el FMLN aparezca ante la ciudadanía no como el dinamizador del cambio progresista, sino como el simple administrador de una crisis heredada por los gobiernos areneros.

El factor clave de esta circunstancia es el siguiente: ¿quién debe pagar el costo de la crisis? De la respuesta que se le dé a esta interrogante dependerá el desenlace de la actual coyuntura política. Y solo hay dos alternativas: seguir castigando a los sectores medios y pobres por la vía recorte de inversión social y del aumento de los impuestos regresivos, o corregir en sentido progresista las distorsiones estructurales de un modelo económico y de una política fiscal resultantes del proyecto neoliberal.

Si el FMLN no cede en lo primero, y al mismo tiempo da la batalla abierta y transparente por lo segundo, colocará de su lado a la mayoría social al asumir de modo claro la representación de sus intereses. Y si eso fuera así, como se afirma al principio de esta columna, las tres cartas ganadoras que el FMLN tiene en su mano podrían definir efectivamente a su favor las próximas contiendas electorales. Esos tres ases son los siguientes:

Uno. ARENA es un partido disperso dominado por sus dueños, y administrado por los delegados corporativos de esos mismos financistas. En consecuencia, el programa político de ARENA es inviable, por cuanto solo representa los intereses minoritarios y elitistas del gran capital. No es casual que los dos precandidatos presidenciales que ya se perfilan en ese partido, sean al mismo tiempo sus mayores financistas.

Dos. Aunque divorciado coyunturalmente de una parte considerable del movimiento social, el FMLN mantiene intactas la disciplina y la cohesión de su aparato partidario. La autoridad de su jefatura política no está en cuestión. Por otra parte, su programa político está ligado históricamente a los intereses de la mayoría popular y, por lo tanto, puede muy bien restaurar la relación con esa parte desafecta del movimiento social, bajo el sabio principio de que todo problema político tiene una solución política.

Tres. El FMLN tiene entre sus filas al líder político de relevo con más respaldo social y proyección política según lo demuestran de manera reiterada las encuestas sin ninguna excepción: Nayib Bukele. Ya lo hemos dicho, en términos de lenguaje popular esto equivale a que un equipo de futbol tenga en su plantilla a Leo Messi en las vísperas de una final.

La combinación estratégica de estos tres factores, en el contexto general antes descrito, supone sin duda una sinergia extraordinaria. Pero, claro está, en toda partida el éxito depende de la manera en que cada jugador administre las cartas que tiene en su mano.

El nuevo desorden mundial (2015)

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Michael Ignatieff
12 Enero 2015
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Cuando los cuerpos y las pertenencias de 298 personas cayeron del cielo el 17 de julio de 2014 y permanecieron dispersos y sin consagrar en los campos del este de Ucrania, la claridad pareció seguir en el silencio. Recordé los versos de “De inmediato enmendado”, el poema de John Ashbery:

no dejó de sorprendernos que, casi veinticinco años

[más tarde,

la claridad de estas reglas comenzara a revelarse

[por vez primera.

Ellos eran los jugadores, y nosotros, que tanto luchamos

[durante el juego,

éramos simples espectadores

(Versión de Marcelo Uribe y David Huerta.)

Poco importa ya si la acusación contra el presidente Putin es por incitar directamente a quienes derribaron el avión o por la imprudencia temeraria de haberlos abastecido de armamento. Al reafirmar su apoyo a la secesión, Putin ha tomado una decisión, y depende de los líderes de Occidente tomar las suyas. Poco importa ya si Occidente atrajo a esta nueva Rusia al expandir agresivamente a las fuerzas de la otan hasta su frontera. Ahora lo que importa es ser muy claro a fin de que las responsabilidades políticas recaigan adonde deben hacerlo, las acciones tengan consecuencias, los aliados vulnerables que están en la frontera con Rusia reciban garantías de seguridad y estas garantías resulten creíbles.

También importa comprender, sin hacerse ilusiones pero también sin alarmarse, el nuevo mundo al que nos han arrojado la anexión de Crimea y el derribo del vuelo mh17.

El horror en Ucrania no es la única sorpresa que trae claridad a su paso. Con la proclamación de un califato terrorista en las regiones fronterizas de Siria e Iraq, la disolución de la configuración de Estados que establecieron Mark Sykes y François Georges-Picot en su tratado de 1916 se dirige a un feroz desenlace. El autoproclamado Estado Islámico es algo nuevo bajo el sol: terroristas-extremistas con tanques, pozos petroleros, territorios propios y una habilidad escalofriante para dar publicidad a las atrocidades. El poder aéreo es capaz de detener su avance pero no de derrotarlos, y las fuerzas terrestres con que cuenta Estados Unidos –los peshmergas kurdos– van a tener más que suficiente con defender su patria. En Siria, Assad ha entregado las provincias del desierto al Estado Islámico. En cuanto a los iraquíes, los chiíes defenderán sus lugares sagrados en el sur, pero no pueden retomar Mosul, al norte.

Si, como parece probable, el califato resiste, en la región no habrá ningún Estado seguro. Israel puede, una vez más, “cortar el pasto” en Gaza, pero bombardear civiles no le asegura un futuro pacífico. Hasta que palestinos e israelíes reconozcan que hay un enemigo al que deben temer más de lo que se temen entre sí –la absoluta desintegración del orden mismo– no habrá paz en su región.

En el este asiático, las fuerzas navales de China y Japón se vigilan mutuamente, plataformas petroleras chinas perforan en aguas que están en disputa y, entre las capitales asiáticas, vuelan acusaciones beligerantes. China no habla ya el idioma del “ascenso silencioso”. La musculosa política exterior de Xi Jinping causa alarma en Vietnam, Corea del Sur, Japón, Taiwán, Filipinas y Estados Unidos.

Intuimos que todos estos elementos de discordia se relacionan, pero resultaría simplista afirmar que el elemento común es la incapacidad de Barack Obama para dominar la conmoción de la época que vivimos. Eso sería asumir que una administración estadounidense más sabia habría sido capaz de mantener la unidad de las placas tectónicas de un orden mundial que la ascendente presión volcánica del odio y la violencia está separando.

El derribo del vuelo mh17 y el surgimiento del califato nos hacen repensar qué era lo que mantenía unidos esos dos patrones. Hasta que se desvaneció la esperanza de la Primavera Árabe, las clases medias moderadas y globalizadas de la región creían tener el poder para marginar a las fuerzas de la furia sectaria. Debemos haber imaginado que con internet, los viajes aéreos globales, Gucci en Shanghái y bmw en Moscú, el mundo se volvía uno. Caímos víctimas de la ilusión que acarició la generación de 1914: que la economía tendría más fuerza que la política y que el comercio global limaría las rivalidades imperialistas.

Esa impresión se tenía al inicio. En la fase de globalización, que comenzó después de 1989, Rusia abasteció de gas a Alemania; Alemania abasteció a Rusia de bienes manufacturados e industriales medulares; China adquirió la deuda del Tesoro de Estados Unidos y Apple manufacturó sus gadgets en China. Pensamos que, al menos por un tiempo, con la llegada de internet, una herramienta global de información compartida consignaría la arraigada hostilidad ideológica de la Guerra Fría a la historia.

En realidad, la tercera fase de globalización no creó más convergencia política de la que destruyó la primera fase en 1914 o la segunda que llegó a su fin en 1989. Resultó que el capitalismo es promiscuo en lo político. En vez de contraer matrimonio con la libertad, el capitalismo estaba igualmente feliz metiéndose a la cama con el autoritarismo. De hecho la integración económica agudizó el conflicto entre las sociedades abiertas y las cerradas. Desde la frontera de Polonia hasta el Pacífico, desde el Círculo Ártico hasta la frontera con Afganistán, comenzó a formarse un nuevo competidor político de la democracia liberal: autoritario en su forma política, capitalista en su economía y nacionalista en su ideología. Lawrence Summers ha llamado a este nuevo régimen “mercantilismo autoritario”. La expresión sugiere el papel central del Estado y de las empresas estatales en las economías rusa y china, pero resta énfasis al crudo elemento del amiguismo, fundamental para los gobiernos de Pekín y Moscú.

Gracias a la globalización misma, el capitalismo autoritario –permítanme llamarlo así– se ha convertido en la principal competencia de la democracia liberal. Sin acceso a los mercados globales, ni Rusia ni China habrían sido capaces de deshacerse de una economía estilo comunista mientras se aferran a una política que sí lo es.

Las economías rusa y china están abiertas a las presiones competitivas de los sistemas de precios globales, pero la distribución de la recompensa económica –quién se enriquece y quién queda sumido en la pobreza– todavía la determina, en gran medida, el aparato estatal centralizado que está en manos del presidente y sus camaradas. Rusia y China son oligarquías “extractivas”: a excepción de unos cuantos miembros de un grupo, los ciudadanos no tienen acceso a los frutos del poder económico y político. En ambas sociedades, el Estado de derecho y el sistema judicial independiente solo existen en el papel. Tanto los oligarcas como los disidentes saben que si montan cualquier ofensiva política contra el régimen se usará la ley para aplastarlos.

Los expertos occidentales no dejan de insistir en que los chinos y los rusos son aliados, no rivales. Es cierto que, cuando ambos países eran comunistas, llegaron a los golpes en una fecha tan reciente como 1969. Aun hoy, más que una convicción, el suyo es un “eje de conveniencia”. Stephen Kotkin ha señalado que el intercambio comercial entre ellos es mucho menor que el que tienen con Occidente. Pero los dos países han descubierto una verdad que los mantendrá unidos aún con más fuerza en el futuro: han aprendido que la libertad de mercado capitalista es lo que permite a sus oligarquías conservar el control político. Entre más libertades privadas les permitan a sus ciudadanos, menos demandarán libertades públicas. La libertad privada –vender y comprar, heredar, viajar, la posibilidad de quejarse en la intimidad– mantiene el descontento a raya. Más aún, la libertad privada permite crecimiento, algo imposible bajo control del Estado.

Ahora, a la luz de lo ocurrido con el vuelo mh17 y del conflicto en Crimea, los “autoritarios internacionales” enfrentan una disyuntiva: dejar de desafiar a Occidente o arriesgarse a fracturar la globalización misma.

En la espiral descendente de ira y recriminaciones por Ucrania, cada una de las facciones del conflicto busca reducir el grado en que se expone económicamente al otro. Putin ha prohibido las importaciones agrícolas provenientes de los países que le han aplicado sanciones, amenaza con cerrar el espacio aéreo siberiano a las aerolíneas occidentales y quiere reducir la importación de maquinaria alemana y de tecnología de defensa occidental.

De pronto reaparecen en la agenda rusa la sustitución de las importaciones y la autarquía, dos ideas que llevaron al mundo comunista a un callejón sin salida económico. A la vez, los alemanes quieren reducir su dependencia del gas ruso y los chinos su dependencia del petróleo que proviene de la volátil zona del Medio Oriente. En la nueva atmósfera de paranoia mutua, los Estados no quieren comprar hardware o software que provenga del otro lado por miedo a que sus sistemas de defensa y de inteligencia queden expuestos a una filtración. En esta carrera por la seguridad, los aliados solo quieren hacer negocios con aliados. Los estadounidenses y los europeos seguramente tratarán de acelerar un amplio pacto de libre comercio entre ellos para reducir su dependencia de los nuevos autoritarios.

A la vez, ninguna de las partes quiere volver a la Guerra Fría, en especial los rusos y los chinos, que necesitan la globalización para hacer crecer sus economías y para contener el descontento doméstico. Por el momento, el flujo de importaciones y exportaciones que realmente se ven afectadas por las sanciones sigue siendo mínimo, en comparación con los gigantescos volúmenes del comercio global. Sin embargo, tanto para los líderes de Oriente como para los de Occidente, existe la tentación de impulsar a sus economías hacia atrás, hacia la autarquía, en nombre de la autoconfianza, a medida que descubren hasta qué grado su margen de maniobra política está constreñido por su dependencia económica con el otro bando. Ninguno de estos líderes quiere destruir la globalización, pero quizá ninguno de ellos pueda controlar en su totalidad el retroceso hacia un pasado autárquico.

La autarquía ya gobierna el mundo virtual de la información. En una era que supuestamente debía traernos una información global común, basada en un internet sin fronteras, resulta increíble lo autárquicos que se han vuelto los sistemas de información de cada uno de los bandos. Hace mucho tiempo que China impuso un control soberano sobre su internet, y policías espían y patrullan las fronteras de la “Great Firewall” para asegurarse de que los refunfuños del chat jamás se eleven al nivel de una amenaza contra el régimen. El Kremlin ha envuelto a su pueblo en una burbuja propagandística tan efectiva que, como dijo Angela Merkel hace poco, hasta el mismo Vladimir Putin está encerrado “en su propio mundo”.

A medida que Rusia y China reducen su grado de exposición económica con el otro y crean universos paralelos pero cerrados de información, los nuevos autoritarios están recurriendo a los mercados y a las reservas energéticas de uno y otro. En un encuentro reciente, Putin y Xi Jinping firmaron un acuerdo energético y de infraestructura a largo plazo que selló una alianza estratégica de tres décadas. Sus viejas disputas fronterizas han estado suspendidas desde el acuerdo que suscribieron en 2005. Después de haber descuidado su lejano oriente durante mucho tiempo, ahora Rusia acepta la hegemonía de los chinos en la región del Pacífico. Lo que hace que esta alianza autoritaria sea estable –aunque carezca de amor– es que China desempeña el papel de la pareja dominante mientras que Putin se encarga de los gemidos ideológicos.

Lo que Putin deja asentado, con una claridad ponzoñosa, desde luego, es su resentimiento hacia el “Leviatán liberal”, Estados Unidos y su red global de alianzas envolventes. En esto, tiene a un socio dispuesto en China. Mientras que para Occidente Crimea y el vuelo mh17 marcaron el momento en que se desmoronó el orden internacional posterior a 1989, para los rusos y los chinos la fractura ocurrió quince años atrás, cuando los aviones de la otan bombardearon Belgrado y alcanzaron a la embajada china. Ese momento unió a los autoritarismos chino y ruso en el panorama mundial. El precedente de Kosovo –la secesión unilateral de una gran potencia, orquestada sin el consentimiento de Naciones Unidas– dio a Putin el pretexto para actuar en Crimea, con la cautelosa aprobación de Pekín.

En los días por venir, no hay duda de que los autoritarios usarán sus asientos en el Consejo de Seguridad para defender al dictador sirio y obstaculizar la intervención humanitaria multilateral en cualquier sitio donde sus intereses estén directamente involucrados. Ambos países han sido los principales beneficiarios estratégicos de los reveses estadounidenses en Levante y, si con certeza podemos predecir más caos y violencia en Medio Oriente, será porque a ambos les conviene permanecer ahí desempeñando su papel de saboteadores, dejando que Estados Unidos cargue con toda la culpa de que la configuración estatal se haya fragmentado, desde Trípoli hasta Bagdad.

Ahora las preguntas fundamentales son si los nuevos autoritarios tienen estabilidad y si son expansionistas. Las oligarquías autoritarias pueden tomar decisiones rápidamente, en tanto que en las sociedades democráticas es necesario luchar para vencer a la oposición, a la prensa libre y a la opinión pública. También pueden canalizar sin contratiempos emociones nacionalistas a través de aventuras militares en el extranjero. Después de la toma de Crimea, los vecinos de China en Asia deben estar preguntándose en qué momento el régimen de Pekín empezará a usar la “protección” de los chinos como excusa para entrometerse en sus asuntos internos.

Sin embargo, las oligarquías autoritarias también son frágiles. Deben controlarlo todo o pueden perder el control de todo. Bajo los gobiernos de Stalin y de Mao la aspiración cada vez mayor que la gente tenía de ser escuchada fue aplastada mediante la fuerza. Bajo el capitalismo autoritario tiene que permitirse cierto grado de libertad privada. Pero, a medida que crecen sus clases medias, también lo hacen sus demandas por expresar su voz política y ese tipo de exigencias pueden resultar desestabilizadoras. La desestabilización de China llegó en 1989 en la Plaza de Tiananmén. A fines de 2011 y 2012 manifestaciones masivas en Moscú retaron al régimen ruso. Ambos regímenes sobrevivieron reprimiendo severamente el descontento doméstico, proscribiendo la ayuda externa a las organizaciones internas de derechos humanos y llevando a cabo aventuras militares en el extranjero, diseñadas para distraer a la clase media con causas nacionalistas unificadoras.

La nueva agresividad de China en Asia está impulsada por muchos factores, incluida la necesidad de hallar suministros energéticos fuera de sus costas, pero también por un deseo de reanimar a su ascendente clase media en torno a lo que Xi Jinping denomina el “sueño chino”: una visión estratégica en la que China desplaza a los estadounidenses como hegemonía regional en Asia.

La administración del presidente Obama se ha vuelto hacia la región asiática para enfrentar el desafío chino, pero menospreció a los rusos hasta los sucesos de Crimea. Dio por hecho que Putin estaba a la cabeza de una sociedad decrépita, deteriorada demográfica y económicamente. Fue ilusorio pensar así. La abundancia de recursos naturales de Rusia da a Putin una fuente de ingresos estatales, mientras que la libertad privada funciona como una válvula de seguridad que permite al régimen contener el descontento democrático. Los nuevos autoritarios se encuentran estables, y resulta complaciente suponer que se encaminan al colapso bajo el peso de la contradicción que existe entre libertad privada y tiranía pública. Hasta ahora han manejado esta incompatibilidad con suficiente pericia como para brindar poder a sus gobernantes y riqueza a su pueblo.

Los nuevos autoritarios tampoco carecen de “poder suave”. Su modelo es atractivo para las élites corruptas y extractivas de todas partes, incluso en Europa oriental, donde el disidente húngaro convertido en populista autoritario Viktor Orbán eligió la semana posterior al derribo del vuelo mh17 para proclamar su visión de Hungría como una “democracia iliberal”.

Los nuevos autoritarios tampoco carecen de una aparente legitimidad. El Partido Comunista chino se vende a sí mismo como una meritocracia, y con cada pacífica renovación de su cúpula dirigente se fortalece este principio de legitimidad. La de Putin es más incierta porque su oligarquía es todo menos meritocrática. Para construir el apoyo popular ha protegido a la Iglesia, ha fomentado una tóxica nostalgia por Stalin e incluso se ha presentado como el heredero del conservadurismo orgánico de la intelligentsia rusa del siglo XIX.

Por ejemplo, ordena a sus gobernadores regionales leer las obras de Ivan Ilyin, pero de seguro no los volúmenes en los que el conservador antibolchevique reivindicaba un país redimido por “la conciencia de la ley”. La camerata ideológica de Putin ha dado nueva vida a Konstantin Leontiev, otro eslavófilo conservador del siglo XIX, pero no al Leontiev que públicamente despreciaba la homofobia. En la China y la Rusia oficiales, la beligerancia contra la igualdad homosexual no es una característica accidental, sino algo imprescindible para la imagen que tienen de sí mismas como baluartes contra el decadente relativismo moral de Occidente.

Sin embargo, en particular los nuevos autoritarios hacen un llamado nacional, no universal, a la legitimidad. Mao pudo haber alentado a los maoístas desde Perú hasta París, pero el actual régimen revolucionario no tiene tales ambiciones y resulta poco probable que Putin proclame, como Stalin, que su país es una inspiración para todos aquellos que buscan emanciparse del yugo capitalista.

El constante reto de tener la casa en orden mantiene a raya las ambiciones globales de los gobernantes chinos. Saben que aún hay varios cientos de millones de campesinos pobres a los que es necesario integrar a la economía moderna. Pasarán décadas antes de que su renta per cápita se acerque a niveles occidentales. Putin sabe también lo miserablemente pobres que todavía son las regiones más alejadas de Rusia después de quince años bajo su gobierno. Como resultado, ni China ni Rusia están en posición de abandonar la integración económica mundial, ni pueden apostar más que a la hegemonía en sus respectivas regiones.

Aun así, todavía no hay respuesta para la pregunta por la manera en que Rusia y China definen sus regiones y sus esferas exclusivas de influencia. En particular, las acciones de Putin han hecho de este un asunto inaplazable. Como exagente de la kgb el momento de más oscuridad de Putin fue la quema de libros de claves soviéticos en la sede de la agencia en Dresde, en noviembre de 1989. Seguramente debe sentir nostalgia por el terror que el Estado soviético era capaz de infundir en sus enemigos, tanto en el interior como en el extranjero. Putin es un sibarita del miedo, pero cualquier auténtico maestro del arte del terror debe saber hasta dónde puede llegar. Aparentemente, Putin comprende los límites de sus capacidades intimidatorias.

A pesar de su discurso de “proteger” a los rusoparlantes en el “extranjero cercano”, parece poco probable que Rusia intervenga en alguno de los Estados bálticos, siempre y cuando el artículo 5 de la otan sobre la garantía de seguridad no pierda credibilidad. Putin estará satisfecho con mantener a los pueblos bálticos en el qui vive, obligándolos a respetar los derechos de las minorías rusas y a gastar en defensa más de lo que les gustaría. Tampoco tocará a Polonia, la República Checa, Rumania, Bulgaria o los Estados balcánicos. Putin acepta que ellos han abandonado su órbita, aunque su servicio secreto hará todo lo posible para desestabilizar la política de esos países.

Sin embargo, Georgia y Ucrania están en la frontera con el mar Negro y esto hace que su posición sea de vital interés nacional para Rusia. Si cualquiera de los dos cediera a la otan el derecho a tener una base en el mar Negro, eso tendría un efecto en el acceso de Rusia hacia el Mediterráneo, a través de los estrechos de Turquía y, por lo tanto, limitaría el papel ruso como potencia en Medio Oriente. Estas preocupaciones estratégicas serían totalmente reconocibles al conde Gorchákov o a cualquier diplomático zarista del siglo XIX. Igualmente tradicional –e igualmente ruso– ha sido que Putin estableciera relaciones privilegiadas con las cleptocracias musulmanas en su frontera sur. Desde tiempos zaristas, los corruptos gobernantes musulmanes han sido sus tributarios.

Puede que los objetivos estratégicos de Putin sean tradicionalmente rusos, pero es justamente esto lo que alarma a los nacionalistas ucranianos. Antes del derribo del vuelo mh17, antes de que redoblara su apoyo a la insurrección del este de Ucrania, era razonable suponer que sus metas estratégicas eran limitadas y creer que quería desestabilizar a Ucrania sin necesidad de hacerse cargo de sus múltiples problemas. También era razonable suponer que se sentía feliz de que Estados Unidos cargara con el peso de corregir la desplomada economía de Ucrania.

Tras el derribo del vuelo mh17, después de que las fuerzas ucranianas cercaran Donetsk y cortaran las líneas de abastecimiento que los insurgentes tenían con la misma Rusia, predecir el camino que tomará Putin se ha vuelto más complicado. ¿Redoblará esfuerzos una vez más para romper el cerco de los separatistas? ¿Intentará estabilizar un enclave ruso y congelarlo en el sitio, tal y como lo ha hecho con territorios-clientes dentro de Moldavia y Georgia? ¿O hará un recuento de sus pérdidas y entregará a los separatistas por el bien de una paz geoestratégica y una mayor integración global? Putin se ha arrinconado a sí mismo y, aunque buscar la paz parece razonable, no lo ha sido en lo que a Ucrania se refiere.

Tampoco está confrontado con fuerzas racionales. Ucrania no es un tablero de ajedrez, y los juegos geoestratégicos que se llevan a cabo allí siempre logran salirse del control de quienes los inician. Justo debajo de la superficie bullen emociones de fuerza volcánica, potenciadas por dos narrativas genocidas que compiten entre sí –una, rusa; la otra, ucraniana–, que se niegan a reconocer la verdad del otro. La narrativa rusa que presenta a los nacionalistas ucranianos como fascistas explora el hecho de que, efectivamente, muchos ucranianos dieron la bienvenida a los nazis durante la invasión de 1941 y algunos se convirtieron en colaboradores de los alemanes en el exterminio de sus vecinos judíos.

Según la narrativa ucraniana con la que compite, Putin busca imponer de nuevo el dominio soviético; el mismo dominio que tuvo como resultado la inanición forzada de millones de campesinos ucranianos entre 1931 y 1938. En las “tierras de sangre” de Ucrania, la memoria de aquella hambruna –llamada el Holodomor– confronta la memoria del Holocausto. No es que los provocadores –quienes explotan este pasado venenoso con el propósito de dividir– estén solo del lado ruso. Hay nacionalistas ucranianos armados y enardecidos a quienes nada les gustaría más que provocar al oso ruso. Se necesitaría apenas una chispa para que Ucrania quedara envuelta en llamas y los rusos intervinieran, esta vez, con toda su fuerza, a fin de “proteger” a las etnias rusas consolidando un Estado en el este, contiguo a la frontera rusa.

Una política occidental inteligente debe mantener este caldero por debajo del punto de ebullición ayudando a Ucrania a vencer la secesión lo antes posible. Una vez lograda la victoria militar, es posible conciliar, y solo entonces Occidente puede usar su influencia para someter a los extremistas ucranianos que buscan imponer una paz cartaginense. Los expertos occidentales en constituciones deberían ayudar a Ucrania a transferir poder a las regiones y a garantizar a los rusoparlantes un lugar de pleno derecho en el futuro político del país. A largo plazo, Europa debería darle a Ucrania un itinerario para acceder a la Unión Europea. Las instituciones financieras internacionales deberían emplear los préstamos condicionados para obligar a la corrupta élite política ucraniana a hacer una limpieza en casa. En 1994, cuando Ucrania entregó sus armas nucleares, Estados Unidos y Gran Bretaña se negaron a garantizar su seguridad. Ahora, tras las amenazas a la soberanía ucraniana, la otan sencillamente tendrá que hacerlo. La finlandización –neutralidad para Ucrania– no es una alternativa con la que se pueda trabajar mientras Crimea permanezca anexionada y continúe el riesgo de un nuevo enclave ruso en Ucrania oriental.

En Europa y en Estados Unidos resultará difícil persuadir al público, atónito y profundamente temeroso de la guerra, de que acepte todo esto. Incorporar a Ucrania a la Unión Europea y protegerla a través de las fuerzas de la otan es decir “más Europa”, algo difícil de vender en una época en que tantos europeos quieren menos Europa. Muchos reformistas ucranianos y muchos líderes europeos consideran prematuro unirse a la otan.

Por reticentes que se muestren los europeos, permitir que Europa se divida en dos, mientras a las puertas de la frontera sureste languidecen naciones como Ucrania, es una receta para que estalle la guerra civil y se dé el expansionismo ruso. Hasta que ocurrió el derribo del vuelo mh17 resultaba imposible convencer al electorado de Europa occidental de que esto es así. A partir de lo sucedido con el vuelo mh17, se ha vuelto más fácil.

El reto más difícil consiste en imponer sanciones a los rusos sin lanzarlos a los brazos de los chinos. Mantener las líneas abiertas para estos dos autoritarios, mientras se obliga a uno a pagar el precio por el derribo del vuelo mh17 y por Crimea, requiere de un criterio sofisticado. Esto es más que un mero ejercicio de compensación de señales a los competidores autoritarios. Lo que está en juego en esta calibración de sanciones es la dirección que tomará la globalización en el futuro, tanto si la economía mundial se inclina hacia una mayor apertura como si lo hace en dirección a la autarquía.

Es necesario diseñar una política para no volver a caer en la autarquía, sobre todo en medio de un clima de furia y recriminación. Una economía internacional abierta –en la que los mercados de capitales no estén politizados, y en la que pueblos libres comercien con los que no lo son– ha sido, en general, algo bueno para todos, aun cuando significa que los regímenes autoritarios son capaces de estabilizar un orden extractivo y predador.

Si la globalización ha sido algo bueno para la democracia liberal y para el capitalismo autoritario, es importante no ahondar la separación que existe entre ellos y orillarlos hacia un abismo infranqueable. Hay quienes sentirán que es refrescante odiar a Putin y gente de su calaña, pero esa es una guía muy pobre para establecer una política. El único orden global que tiene alguna oportunidad de mantener la paz es un orden pluralista que acepte que existen sociedades abiertas y sociedades cerradas; algunas libres y otras autoritarias. Un orden pluralista es aquel en que vivimos con líderes que apenas podemos tolerar y sociedades cuyos principios tenemos buenas razones para despreciar.

Podemos y debemos contener a los nuevos autoritarios, pero hace falta recordar que la doctrina de contención de George Kennan no buscaba derribar los regímenes autoritarios de su tiempo ni tampoco convertirlos a la democracia liberal. Más bien, su doctrina pretendía evitar la guerra en un mundo pluralista y darle a la democracia liberal el tiempo necesario para crecer y prosperar en una competencia pacífica con el otro bando. Quienes hacen un llamado para que exista un frente ideológico unido, un credo liberal combatiente, harían bien en recordar lo que respondió Isaiah Berlin cuando se le pidió un credo entusiasta para los liberales de la Guerra Fría:

En verdad no creo que la respuesta al comunismo sea una fe contraria, de igual fervor y militancia, etcétera, porque hay que luchar contra el demonio con las mismas armas que el demonio. Para empezar, nada es más propenso a la creación de una “fe” que reiterar constantemente que la buscamos, que debemos encontrarla, que estamos perdidos sin ella, etcétera.

Durante la Guerra Fría la autodramatización ideológica llevó a Estados Unidos al macarthismo y al aventurismo militar en el extranjero, desde Vietnam hasta Nicaragua. Además, no es nada convincente involucrarse en una batalla ideológica en el extranjero a favor de la democracia liberal, cuando resulta tan evidente que primero se necesita renovarla en casa.

El poderío estadounidense no ha perdido su arrolladora credibilidad, siempre y cuando se use en pequeñas cantidades, con perspicacia y cuidado. El verdadero problema es la disfunción democrática que existe en casa: el impasse que se ha extendido a lo largo de toda una generación entre el Congreso y el Ejecutivo, lo polarizadora y poco realista que se ha vuelto la discusión política, el estrepitoso fracaso para controlar el denigrante poder que tiene el dinero en la política, mientras que la desigualdad es más flagrante que nunca. El resultado es el debilitamiento de los bienes públicos compartidos y una desilusión cada vez más grande con la democracia misma. Otras democracias enfrentan retos parecidos pero logran contrarrestar la influencia del dinero sobre la política y han podido lograr de nuevo un equilibrio de su sistema político para que el Ejecutivo y el Legislativo funcionen con efectividad. En la guerra de ideas con los nuevos autoritarios es bueno saber que hay una gran variedad de democracias liberales a la vista, una gran variedad de formas posibles de “llegar a Dinamarca”.

Sin embargo, la estadounidense sigue siendo la democracia cuya salud determina la credibilidad misma del modelo liberal capitalista. El medio siglo transcurrido desde la guerra de Vietnam no ha sido una época feliz para Estados Unidos, ni en lo doméstico ni en lo internacional, pero una serie de tenebrosas narrativas acerca del declive secular estadounidense, por mucho ahínco con el que los enemigos de Estados Unidos puedan absorberlas, parece hacer a un lado la histórica capacidad de los estadounidenses para renovarse institucionalmente: en la era progresista, el New Deal, la Nueva Frontera. Tampoco toma en cuenta los datos duros respecto a la posición dominante que tienen las compañías estadounidenses en las tecnologías que están moldeando el siglo XXI.

Si Vladimir Putin y Xi Jinping –e incluso el Estado Islámico– apuestan por el declive de Estados Unidos llevan todas las de perder. A la vez, no cabe duda de que Richard Haass, presidente del Consejo para Relaciones Exteriores, está en lo cierto cuando afirma que una política exterior capaz de enfrentar el doble reto del nuevo autoritarismo y del nuevo extremismo debe comenzar con un esfuerzo sostenido de construcción nacional.

De continuar la disfunción democrática, se corre el riesgo tanto de una parálisis interna como de un horrendo afán de aventuras militares en el exterior, en vista de que las administraciones estadounidenses –igual que sus rivales autoritarios– se vean tentadas a distraer el descontento doméstico con guerras en el extranjero. Después del vuelo mh17, Crimea, el sangriento califato que crece en las riberas del Tigris, y la creciente tensión en el mar de China, no necesitamos violentas aventuras en el extranjero y menos aún palabras que no estén sustentadas en acciones. Necesitamos una Europa y un Estados Unidos cuyos pueblos vuelvan a creer en sus propias instituciones y en sus reformas, y acepten la oportunidad de probar de nuevo que son capaces de sobrevivir a sus adversarios, tanto autoritarios como extremistas. ~

El análisis político de coyuntura

El análisis político de coyuntura En tomo a El dieciocho brumario de Luis Bonaparte
Miguel González Madrid
Presentación
En la primavera de 1992, la primera edición de El dieciocho brumario de Luis Bonaparte de Karl Marx habrá cumplido su CXL aniversario. Marx se había interesado por estudiar la coyuntura política francesa de 1848 a 1851, que tuvo como resultado el golpe de Estado de Luis Bonaparte, sobrino de Napoleón Bonaparte. Al aplicar en forma magistral su concepción materialista de la historia, que había esbozado en escritos como La ideología alemana, demuestra “cómo la lucha de clases creó en Francia las circunstancias y las condiciones que permitieron a un personaje mediocre y grotesco representar el papel de héroe”.
Sobre esa misma coyuntura, pero de 1848 a 1850, Marx había escrito una serie de artículos bajo el título común de De 1848 a 1849, para su publicación en la revista por él editada, La Nueva Gaceta Renana, en sus números 1,2 y 3. Un artículo más, que extendía el análisis a los acontecimientos de 1850, se publicó posteriormente en la revista. F. Engels se encargará, en 1895, de publicar en un solo folleto esa serie de artículos bajo el título de Las luchas de clases en Francia de 1848 a 1850.
Los artículos publicados en La Nueva Gaceta Renana seguramente sirvieron como borrador a Marx para escribir El dieciocho brumario de Luis Bonaparte, agregando otros materiales por él producidos en 1851.
El interés de Marx por estudiar esa coyuntura estaba asociado al curso que por entonces estaban tomando las revoluciones burguesas en Europa. Aunque entre 1843 y 1848 Marx había insistido en su propuesta de colocar al proletariado como la única clase verdaderamente “revolucionaria”, capaz de romper las cadenas de la dominación burguesa, en realidad las condiciones materiales de existencia del proletariado no habían madurado, solamente en Francia esta clase mostraba un grado más elevado de desarrollo político.
En condiciones materiales, políticas, históricas y nacionales, Marx encontraría poco a poco limitaciones a su concepción filosófica sobre la revolución proletaria. Por ello, Marx comprendió que este proyecto no podía erigirse sobre un acto de voluntarismo político, y que entonces hacía falta explicar y entender los fundamentos materiales de la dominación burguesa (cfr. El Capital).
Por muchos motivos El dieciocho brumario de Luis Bonaparte puede ser releído (o leído, por quienes no lo conocen) hoy en día, a la luz de acontecimientos mundiales que han hecho estremecer y derrumbarse estructuras de poder, formatos de representación, movimientos políticos, etc., tanto del lado del capitalismo como del socialismo “real”. No es nuestro objetivo presentar enseguida un estudio sobre estas cuestiones, sino abordar un aspecto de esa obra que, en cierto modo hasta ahora, no ha sido reconocido suficientemente en las ciencias sociales: el análisis político de coyuntura. Muy lejos está esa obra de pasar como un escrito más del marxismo. Y precisamente en esta etapa crucial, y no sólo por el CXL aniversario, es que El dieciocho brumario de Luis Bonaparte debe ser revalorado como una obra con una aportación específica a las ciencias sociales de nuestro tiempo.
Además de constituir una aportación teórica sobre la explicación de algunos de los elementos específicos del Estado capitalista, El dieciocho brumario de Luis Bonaparte (DB, en adelante), que Marx escribiera en 1852 siguiendo previamente los acontecimientos histórico-políticos de Francia, en la coyuntura de 1848 a 1851,(1) también es considerada como una obra que contribuye de manera implícita a la configuración del esquema de análisis político de coyuntura. Más particularmente, se encontraría ahí esbozado, a grandes rasgos, el método marxista de análisis político de coyuntura.
Marxistas como Lenin, Gramsci, Mao Tsetung y Poulantzas, posteriormente hicieron aportaciones relevantes en la definición de un método de análisis político, sin circunscribirse al solo ámbito de la explicación de coyuntura. Lenin, por ejemplo, en varios de sus escritos busca explicar el contexto histórico y político de la Rusia de su tiempo, apuntando por otra parte, hacia la búsqueda de las condiciones necesarias para efectuar la revolución proletaria.(2)
Gramsci, a su vez, llega a proponer algunos elementos para el “análisis de las situaciones, correlaciones de fuerza”, proporcionando además análisis políticos de coyuntura sobre el fascismo, de gran valor sobre todo por la percepción de la relación compleja y desigual del Estado con los intereses de las diversas fracciones de la burguesía fascista. y por la determinación de pautas en la lucha contra el fascismo.(3)
De Mao Tse tung se cuenta con algunos escritos que simplifican la idea de la multiplicidad de aspectos de la que él llama “ley de la contradicción”, como “ley fundamental de la dialéctica materialista”, aplicándola en su comprensión de los problemas del pueblo chino (los problemas de la cooperación agrícola, de los intelectuales, de la industrialización, de las minorías nacionales, etc.),(4) y admitiendo la particularidad nacional e histórica de éste.
Finalmente, Poulantzas elabora, en 1968, una serie de propuestas teóricas sobre el Estado capitalista, cuyo círculo lógico cierra con la diferenciación y relación “de las estructuras con el campo de las prácticas de clase, […y] la relación particular del Estado y de la coyuntura, que a su vez constituye el lugar donde se descifra [aquélla]”.(5) En 1975, Poulantzas publica una muestra de análisis coyuntural en torno de las dictaduras militares en España, Portugal y Grecia, concentrándose en el balance de la correlación de fuerzas que, en un primer momento, sustentaron esas dictaduras y, en un segundo momento, provocaron su crisis.(6)
El análisis de coyuntura y la construcción de la historia
Enrique de la Garza (7) sostiene que en el DB Marx presenta “el estudio de una coyuntura específica”, la de 1848-1851 en Francia, cuyo punto de partida lo constituye un acontecimiento histórico relevante (la caída de la monarquía de Luis Felipe, en febrero de 1848) y cuyo objetivo es la explicación del golpe de Estado del 2 de diciembre de 1851, efectuado por Luis Bonaparte de acuerdo con la lógica de los acontecimientos políticos significativos ocurridos y de la correlación de fuerzas manifestada en lo que Marx llama la “escena política”.
En el DB, Marx elabora una explicación “reconstructiva” de la realidad histórico-política francesa en una coyuntura determinada y “a partir del análisis de las correlaciones de fuerzas de la lucha de clases”,(8) que, si bien se manifiestan en el nivel propiamente político, constituyen en realidad una síntesis entre lo político y lo económico, entre la superestructura y la base económica.(9)
Al registrar la secuencia de los acontecimientos y determinar las transformaciones políticas, Marx establece una periodización histórica que le permite distinguir, para explicar estas transformaciones, los cambios en la correlación de fuerzas, la especificidad orgánica y los intereses de cada una de éstas, hasta arribar al cambio culminante: el golpe de Estado.
Aparte de la apreciación subjetiva que tenía acerca de Luis Bonaparte (“un personaje mediocre y grotesco”), Marx demuestra, en contraste con los puntos de vista de Víctor Hugo y de J. Proudhon sobre el mismo acontecimiento, “cómo la lucha de clases creó en Francia las circunstancias” para que el sobrino de Napoleón procediera a efectuar ese golpe de Estado.(10)
En el mismo sentido, Engels, en el prólogo a la tercera edición del DB, reconoce que Marx fue “el primero que descubrió la gran ley que rige la marcha de la historia”, “según la cual todas las luchas históricas [políticas, religiosas, filosóficas] no son, en realidad, más que la expresión más o menos clara de luchas entre clases sociales”, condicionados, “a su vez, por el grado de desarrollo de su situación económica”.
Como muestra de esta concepción de la historia, el propio Marx, en el segundo párrafo de su obra, adelanta la tesis que en 1845 había esgrimido contra Feuerbach y Hegel, acerca de que “los hombres hacen su propia historia, pero no la hacen a su libre arbitrio, bajo circunstancias elegidas por ellos mismos, sino bajo aquellas circunstancias con que se encuentran directamente, que existen y transmiten el pasado”: “He aquí -dice Engels en su prólogo-por qué Marx no sólo estudiaba con especial predilección la historia pasada de Francia, sino que seguía también en todos sus detalles la historia contemporánea”.
No obstante que Marx parece ocuparse fundamentalmente de un acontecimiento político, siguiendo los cambios en la correlación de fuerzas y la diversa y desigual presencia de éstas en la escena política y, en consecuencia, en la esfera del Estado, algunos estudiosos del DB coinciden en afirmar que en realidad la categoría de totalidad llega a constituirse en un concepto-guía, en un concepto-ordenador de la unidad de la multiplicidad histórica.
Aunque Nicos Poulantzas sustituye este concepto por el de “Todo social”,(12) proporciona una idea precisa del tipo de análisis político presente en el DB, al sostener que la coyuntura no sería sino la condensación de las contradicciones del todo social en un momento determinado de la historia con predominio de lo político.
La totalidad o el “todo social”, entonces, no sería el todo caótico, el concreto real a simple vista, sino más bien la condensación de las contradicciones del todo en un momento histórico determinado, pero cuya percepción sólo puede efectuarse como concreto de pensamiento en un proceso simultáneo al de la distinción de los sujetos-actores y de las circunstancias que, necesariamente, resulta de una concepción teórica y epistemológica de la realidad y, en consecuencia, de un cierto modo de devenir de los acontecimientos.
En este orden, el análisis político de coyuntura, como el que encontramos en el DB, constituiría un esfuerzo por explicar la realidad, al reconstruir su particularidad espacio-temporal, percibiéndola a partir de una determinada construcción teórica y epistemológica y descubriendo su lógica de funcionamiento y de transformación. Llevado hasta este punto, el análisis de coyuntura abre un abanico de posibilidades sucesivas de tránsito de la explicación fundada en la identificación de fuerzas relevantes, de contradicciones principales, de resultantes de un conjunto de fuerzas, etc., a la presentación de escenarios de la realidad ulterior inmediata, derivados del manejo de esquemas hipotéticos construidos con numerosas variables; lo mismo a la preferencia por un posible curso ulterior del presente, pero cuya configuración ideal no se asimilan a la imaginación utópica, aun considerando al extremo el papel de las clases subalternas como subversivo.
Desde ese punto de vista, por ejemplo, una vez efectuado el análisis del golpe de Estado, Marx se plantea (capítulo VII) algunas interrogantes: “¿por qué el proletariado de París no se levantó después del 2 de diciembre?”; y también algunas respuestas de tipo hipotético: “cualquier alzamiento serio del proletariado habría dado a [la burguesía] nuevos bríos”; o de tipo propositivo-mesiánico: el “proletariado urbano” “tiene por misión derrocar el orden burgués”.(13)
En consecuencia, Marx no parece culminar ese análisis en la indicación y explicación de “lo dado” (qué, cómo y por qué sucedió), sino que además propone el curso necesario de la correlación general histórica de la lucha de clases,”(14) lo que en otros enfoques teóricos y metodológicos aparece como la “posibilidad fundamental” del cambio de la realidad histórica.
Está implícita en la obra de Marx, incluyendo El Capital, una intencionalidad histórica de cambio, de transformación, un cierto proyecto de “trabajar por la humanidad”, como habría sugerido en su declaración de “fe de profesión”, o de hacer la revolución tal como llega a planteárselo con convicción desde la introducción (en 1844) a su Crítica de la filosofía del Estado de Hegel.
No obstante el nexo lógico en el análisis de coyuntura de Marx, entre la explicación reconstructiva y la explicación propositiva, entre la comprensión de una coyuntura específica y las posibilidades del curso ulterior de la historia, el primer aspecto no queda subordinado necesariamente al segundo. Es decir, que aun aceptando las premisas teóricas y epistemológicas, que sirven de soporte a ese tipo de análisis marxista, las conclusiones pueden variar de un investigador a otro dependiendo no sólo de la especificidad de su propia intencionalidad ético-política y del contexto histórico-político en que discurra, sino también de su propia individualidad teórica, situación que le orillará a elegir entre el arribar al terreno de los simples supuestos de comportamiento de la realidad (cómo pudo ser, en un extremo, o cómo podría ser, en otro extremo, esta realidad) o proseguir hacia el terreno del deber ser (lo deseable, lo utópico, etc.), pasando por escalonamientos intermedios representados, por un lado, en la delimitación de escenarios posibles tipificados, por igual, por la identificación de una tendencia histórico general ya en curso, y por el otro, en la ilustración de un cierto curso lógico de los acontecimientos históricos como expresión única de la necesidad de su propio devenir en un sentido típico (por ejemplo: al feudalismo sucede el capitalismo; y al capitalismo, el comunismo, con sus correspondientes etapas de transición).
La explicación propositiva de Marx se ubica en esos puntos intermedios. En sus escritos políticos y filosóficos se encuentra la idea recurrente del tránsito necesario de una etapa a otra de la historia, del acontecer necesario, etc., pero siempre en asociación con la incidencia de las luchas de un sujeto histórico colectivo: una clase, ya en un modo social de producción, ya en otro, que absorbe, que involucra a las otras a tener que actuar con un cierto sentido e intención política.
Aunque recientemente muchos intelectuales críticos del marxismo han sostenido que las proposiciones de Marx son utópicas, como lo podría “demostrar” el derrumbe de las sociedades que experimentaron el “socialismo real” en Europa del Este, en realidad ellos estarían otorgando poderes de demiurgo a la obra de Marx, como si éste, en una palabra, fuese el autor del curso ulterior de la historia, con un gran poder teleológico.
Marx, ciertamente, sostuvo una serie de proposiciones derivadas de sus análisis del capitalismo, en donde puso al descubierto ciertas leyes del movimiento lógico e histórico del mismo. La necesidad del devenir lógico de la historia se convirtió, sin embargo, en una obsesión atada a la potencialidad del trabajador asalariado como sujeto de rebelión-negación del capital, como supremo factor de subversión admitido por la propia burguesía en su afán por revolucionar sus propias condiciones de dominación. “En los periodos en que la lucha de clases se acerca a su desenlace dice Marx en el Manifiesto del Partido Comunista,”(15) a propósito del carácter “negativo” progresista de la clase asalariada, relevante más en algunas coyunturas que en otras, el proceso de desintegración de la clase dominante, de toda la vieja sociedad, adquiere un carácter tan violento y tan agudo que una pequeña fracción de esa clase reniega de ella y se adhiere a la clase revolucionaria, a la clase en cuyas manos está el porvenir”.
Ya desde la introducción a la Crítica de la filosofía del Estado de Hegel,(16) Marx concibe al proletariado como el corazón de la emancipación de Alemania (su cabeza: la filosofía)(17) y, en sus escritos posteriores, como la única fuerza capaz de revolucionar las relaciones sociales existentes. Sin embargo, como en el estudio de la coyuntura política francesa de 1848-1851, Marx va descubriendo que el proceso de subversión-revolución, para transformar el capitalismo, no es lineal por el contrario; la contrarrevolución siempre está más o menos presente, desde la exclusión de los representantes políticos del proletariado de las alianzas políticas hasta el golpe de Estado. En consecuencia, las revoluciones proletarias siempre habrían estado frenadas, debilitadas, o modificadas por factores contrarrestantes propios de las circunstancias del momento, por factores de acotamiento, expresados en última instancia en la fuerza de las armas.(18)
El curso necesario de la historia se vería así modificado por dos tipos de factores: uno de carácter subjetivo, por la “acción libre” del proletariado; y otro de carácter objetivo, por la acción de resistencia del Estado y de la burguesía al avance de aquella clase. Para el caso del DB, John F. Maguire, en su libro Marx y su teoría de la política,(19) señala “la duda de que Marx considere fatalmente predeterminado el resultado de los hechos políticos de 1848-1851 o, en caso contrario, en qué sentido lo considera necesario e inevitable”; e indica que en sus análisis Marx sostiene “que las cosas podrían desarrollarse de un modo o de otro de acuerdo con la elección, la determinación y el valor de las diversas partes involucradas”. (20) Este tipo de aseveraciones “implican que los individuos podrían actuar de diversas maneras posibles”, pero además que los individuos “debieran” actuar en una forma y no en otra.
Maguire percibe que Marx siempre tiende a utilizar un “lenguaje exhortador” antes y después del desenlace de los acontecimientos, que más bien lo coloca en el papel del observador frente a la exhibición de una serie de imágenes de celuloide. También sostiene que Marx llega a reconocer la inevitabilidad de los acontecimientos cuyo desenlace, en esta perspectiva, siempre tiene una explicación, pero que no excluye el que los individuos hubieran podido elegir y tomar decisiones diferentes. Más aún, agrega Maguire, se trata de una “inevitabilidad creada”, propiciada por la puesta en juego de intereses diversos de los individuos y de las clases.(21)
La inevitabilidad en cuestión “no es un proceso absolutamente insensible y unilineal”, sino que siempre es resultado del juego de pesos y contrapesos; “no es una necesidad totalmente flexible [sino sujeta a un cierto juego de luchas tendenciales], pero sí exige que demostremos cómo podrían haber actuado los grupos en forma significativamente diferente dada la situación precisa”,(22) concluye Maguire.
El determinismo de Marx estaría, así, atenuado por una serie de posibilidades de elección y de forma de decisiones para arribar a un punto previo. Como en el caso de la proposición engelsiana, en relación con las condiciones de lucha política en la Alemania de finales del siglo XIX,(23) la opción y la decisión de luchar por la vía legal, aprovechando el derecho de sufragio, no estaría fundada, según el propio Engels, sino en el cambio sustancial de las condiciones de lucha, pero sin excluir otras opciones de lucha.
En suma, la historia quedaría así, desde esta problemática, asimilada a una colina cuya cima estaría precedida por múltiples puntos de ascenso, cuya ubicación y pertinencia siempre dependerían de las circunstancias del momento (volveremos sobre esta cuestión precisa de las implicaciones de la relación entre la concepción global de la historia y la explicación de coyuntura).
La periodización histórica
Desde el punto de vista de la intencionalidad política, el análisis político de Marx arriba a una serie de conclusiones cuyo núcleo es la proposición de revolucionar las relaciones y las instituciones capitalistas. Desde el punto de vista teórico y metodológico, sin embargo, Marx no llega a esta proposición central de un modo genérico o idealista, sino según un fundamento histórico que él mismo se encarga de explicar, a partir de la percepción de las contradicciones y de las relaciones dominantes en la sociedad burguesa. Traza así un sentido lógico del despliegue de esta sociedad que, habiendo tenido como punto de partida un proceso de descomposición, de ruptura y de transformaciones del orden social preexistente, culminaría en la manifestación de bruscas luchas sociales, de cambios cíclicos o de rupturas revolucionarias.(24)
El cambio drástico ilustrado por el golpe de Estado del 2 de diciembre de 1851,(25) por ejemplo, no constituye sino la culminación de un despliegue histórico específico de la sociedad burguesa francesa entre 1848 y 1851. Pero se trata ahí de un despliegue de fuerzas caracterizado, en un primer momento, por la alianza de las clases significativas de esa sociedad o, mejor dicho, de sus representaciones políticas (”la oposición dinástica, la burguesía republicana, la pequeña burguesía democrático-republicana, el proletariado socialdemocrático”),(26) en contra de la monarquía de Luis Felipe, de la “dominación exclusiva de la aristocracia financiera”, de una “parte reducida de la burguesía”, es decir, en contra de una forma de Estado y de un régimen político monárquico de carácter excluyente, que no expresa ni las aspiraciones del proletariado ni las de la “totalidad” de la burguesía.
En un segundo momento, caracterizado por el desplazamiento de unas fuerzas por otras, del proletariado y de la pequeña burguesía por la burguesía dinástica (27) y por la burguesía republicana.(28) En un tercer momento, por la derrota política de la burguesía republicana y de la pequeña burguesía democrático-republicano.(29) Finalmente, en un cuarto momento, por la escisión interna del Partido del Orden de (la burguesía dinástica) y por el ascenso golpista de Luis Bonaparte.
Marx elabora una periodización singular de ese despliegue de fuerzas en la escena política y en el Estado. De la Garza dice correctamente que en el DB los periodos que Marx distingue en el proceso de correlación de fuerzas corresponden “a un cambio” en ésta y “a virajes en la dirección de los procesos”.(30) Aunque Marx no explica ahí su método de análisis, de la lectura se comprende que los criterios de periodización parten de esa distinción de cambios y virajes en la correlación de fuerzas. Así, en los tres grandes periodos, en las fases y en las subfases que se establecen en el DB, se hace referencia a esos cambios.
En el primer periodo (24 febrero-4 mayo 1848), el derrocamiento de la monarquía trae aparejado un “espejismo de confraternización general” y “la fundación fugaz de la República Social“, con la consecuente formación de un gobierno provisional en el que, con excepción del proletariado, se encuentran representadas todas las clases sociales. Aquí el criterio de la periodización está dado por ese cambio drástico, por el derrocamiento de la monarquía, que a su vez crea las condiciones de un formato de compromisos políticos entre las fuerzas prorrepublicanas.
En el segundo periodo (4 mayo 1848-28 mayo 1849), aquella confraternización se disuelve, y cada una de las fuerzas políticas luchan entre sí por imponer sus propios intereses, por imprimir su propio sello a la revolución de febrero, dejando fuera de la escena política -es decir, siendo derrotados en las luchas político-públicas a los republicanos puros y a los socialistas proletarios.
En el tercer periodo, desaparece de la escena política la representación pequeñoburguesa (La Montaña), debilitada en el periodo anterior, y la que Marx considera la única defensora de la República “frente a [la] conspiración monárquica”, mientras el Partido del Orden (PO) se descompone y sucumbe con el Parlamento ante las aspiraciones imperiales de Luis Bonaparte.
En los cortes por periodos Marx parece distinguir el curso que adquiere la escisión de la burguesía parlamentaria en grandes fracciones, y la transformación que sufre la República en relación con el predominio parlamentario, que alternativamente imponen cada una de esas fracciones. De ese modo, entonces, se observa que en el primer periodo se coaliga toda la burguesía parlamentaria, con la consecuente unidad política de la clase, y se funda la República Social, en tanto que el partido “del socialismo, del comunismo”, con Augusto Blanqui a la cabeza, es “alejado de la escena pública”.

El segundo periodo es la “historia de la Asamblea Nacional Constituyente“, “es la historia de la dominación y de la disgregación de la fracción burguesa republicana” (32). Bonaparte entra en escena como protagonista central y en alianza con el PO retira de la escena política a la fracción republicana que dominó la ANC, después de haber provocado la derrota pública y parlamentaria de los socialdemócratas.(33)
Finalmente, el tercer periodo es el de la República Constitucional bajo el predominio y la pérdida de cohesión del PO. Este partido y Bonaparte se enfrentan sin más mediaciones, en una situación en la que las otras fuerzas políticas están debilitadas, incluso literalmente disueltas, perdiendo el PO posiciones ministeriales y en los altos mandos militares.

Se observa, entonces, que el criterio básico para determinar los cortes y la unidad de cada uno de los periodos se funda en los procesos de escisión y de restablecimiento de las alianzas entre las fuerzas políticas, de tal modo que en cada uno alguna fracción (para el caso de la representación parlamentaria de la burguesía) aparece como predominante en la escena política.

Al recurrir a la expresión “fuera de la escena política”, Marx se está refiriendo no a simples desplazamientos del foco de atención pública de la lucha política, ni a una simple retirada táctica voluntaria de las representaciones parlamentarias,(34) sino a verdaderas derrotas políticas traducidas ya en la pérdida de peso político en el proceso de toma de decisiones parlamentarias o incluso en la persecución política y judicial de los principales dirigentes (como en el caso de Blanqui) y de sus medios de expresión literaria (como lo ejemplifica la nueva ley de prensa que suprimió la publicación de varios periódicos considerados “revolucionarios”) o bien en la desintegración del grupo parlamentario.
En el caso de los subperiodos (correspondientes a los periodos segundo y tercero), el criterio para establecerlos se funda en el modo específico del predominio de cada fuerza política. Así, en el primer subperiodo (periodo II.1) los republicanos promueven la represión contra el proletariado.(35) En el segundo subperiodo (periodo II.2), los republicanos determinan el contenido del proyecto de Constitución.
Y en el tercer subperiodo (II.3), desde la ANC los republicanos se enfrascan en una lucha abierta contra Bonaparte y el PO, que, finalmente, pierde en las elecciones del 10 de diciembre de 1848 y de las que Bonaparte resulta presidente de la República. Los otros subperiodos (periodo III.1, III.2 y III.3) se establecen con el mismo criterio, pero teniendo como protagonista al PO, que finalmente se enfrasca en una lucha a muerte con Bonaparte.
La determinación de las fases para el caso único del subperiodo III.3 se fundamenta en la forma singular como el PO se ve disminuido, progresivamente debilitado en su lucha frente a Bonaparte. De ese modo, en la fase a (III.3.a) el PO aparece como la fuerza política predominante en el parlamento, pero pierde el alto mando sobre el ejército; en la fase b, pierde su mayoría parlamentaria; en la fase c, pierde representatividad ante la burguesía financiera y, en general, ante la totalidad de la burguesía que progresivamente se inclinaba, en consecuencia, por el gobierno de Bonaparte; y en la fase d, ocurre “el ocaso del régimen parlamentario y de la dominación burguesa”, coronado por la disolución del parlamento mediante el golpe de Estado.
Los criterios generales de la periodización, en una palabra, están definidos por las variaciones en la correlación de fuerzas. Pero hemos visto que esas variaciones se registran con diferentes ritmos bajo la égida de una fuerza política específica, por lo demás en circunstancias concretas. Es precisamente esta variación específica y singular de la correlación de fuerzas en una coyuntura histórica de un país determinado, la que va marcando la pauta para establecer cortes más finos en el proceso explicativo-reconstructivo de los acontecimientos políticos.
Los puntos de partida y de llegada (dimensión político-temporal) y la identificación de las fuerzas y de los acontecimientos políticos significativos (dimensión político-espacial), son importantes en el análisis de coyuntura, en tanto que se traducen en los acotamientos de la unicidad de la coyuntura como una totalidad histórica, que condensa las principales contradicciones y que en sí tiene un sentido específico de progresión.
Así, entonces, volviendo al DB, la caída de la monarquía de Luis Felipe y el golpe de Estado de Bonaparte, son acotamientos de la unicidad de la coyuntura en un orden principalmente horizontal, pero que indican en sí, de un lado, el sentido de progresión de los acontecimientos y el tipo de juego político de las principales fuerzas en la escena política, y de otro lado, los límites histórico-políticos de esa progresión y de ese juego.
La identificación de fuerzas y de acontecimientos significativos son también acotamientos pero de orden vertical, en la medida en que políticamente permiten percibir la relevancia y la magnitud histórica de la coyuntura. Por lo tanto, los acotamientos aquí señalados no se refieren a una simple determinación de hechos (cuándo empieza y termina la coyuntura) aunque ciertamente no se pueda prescindir de esta circunstancia ni a una pura catalogación (causal, ideal, a priori, etc.) de los sujetos-actores y de los acontecimientos.
Basta decir, después de todo, dos cosas:
a) Con De la Garza, que el derrocamiento de la monarquía de Luis Felipe se constituye en el punto de partida porque “contenía gérmenes de las contradicciones que se desarrollarían”(36) durante la coyuntura, así como el golpe de Estado se constituye en punto de llegada porque, a fin de cuentas, resuelve no propiamente la aspiración imperial de Luis Bonaparte, sino el problema de la búsqueda de condiciones para propiciar la dominación política conjunta de la burguesía; y
b) que aun con la idea de un Luis Bonaparte “mediocre y grotesco”, Marx nunca lo elimina de su percepción de los sujetos-actores, puesto que finalmente personifica la resolución de las aspiraciones burguesas de dominación conjunta.
El Estado y la clase dominante
Por lo demás, queda claro que la intensidad de las luchas de clases y el sentido inmediato y mediato que éstas previenen, siempre bajo un esquema de variaciones y desplazamientos en la escena política, van dibujando los intersticios de una coyuntura que, por ello, se hace relevante y única. No obstante, por lo menos en la perspectiva del análisis marxiano, esas luchas y las transformaciones que de ellas van derivando llegan a trascender la temporalidad y el espacio coyuntural, al indicar tendencias históricas de largo plazo del tipo siguiente: la instauración de proyectos hegemónicos asociados a cierta fracción de clase dominante, el predominio del poder ejecutivo, la capacidad de ejercicio de la autonomía relativa estatal, etc., cuya racionalidad se explica en la necesidad lógica e histórica de ejercer la dominación burguesa y de representar a esta clase, haciendo aparecer su interés particular como el interés general de la nación.
Desde luego, la relación entre el Estado y la burguesía, sobre todo en la actualidad, no se reduce en una especie de realización instrumental, funcional de aquella necesidad. La aportación teórica implícita de Marx en el DB va más allá de una idea simplificada y unilateral sobre el Estado.
Es pertinente agregar aquí, entonces, algunas afirmaciones en torno a esta cuestión:
a) El Estado constituye la condensación de la correlación de fuerzas, cuyo desciframiento puede efectuarse a través del análisis coyuntural. No se trata, por lo tanto, de una condensación “en general”, de carácter abstracto, sino de una “específica”, en un país y en un momento histórico determinados, que sin embargo presupone necesariamente las transformaciones históricas del pasado.
b) El Estado no constituye un espacio homogéneo ni monolítico, sino que está atravesado por las contradicciones de las luchas de clases, y su unidad interna es siempre heterogénea y fluctuante. Esta particularidad lo hace aparecer ya por encima de las luchas de clases o ya en función de los intereses de una sola clase o fracción de clase.
c) La unidad del Estado depende, así, de la variación de la correlación de fuerzas y de su propia capacidad para “organizar” de acuerdo con una expresión poulantziana los intereses de las diversas clases y fracciones de clases.
d) La “dominación conjunta” de la burguesía, que señala Marx, no significaría otra cosa que la configuración de la dominación contradictoria de las diversas fracciones de esa clase, en un proceso inclusivo pero desigual: inclusivo porque la dominación presupone la subordinación de otras clases y fracciones de clase, bajo premisas que la reproducen, que la hacen “soportable”; y desigual porque los intereses de las fracciones de la burguesía son heterogéneos. En relación con el Estado, el proceso de dominación es inclusivo porque aquél busca representar la diversidad de intereses, y desigual en la medida en que la mediación estatal presupone la diferenciación de intereses.
Conclusiones
Aunque en nuestro país se han publicado numerosos estudios con pretensiones de análisis de coyuntura (del “momento actual”, del “presente”), muchos de ellos de inspiración marxista, en realidad la mayoría de ellos hacen una referencia fragmentada, selectiva o incluso anecdótica de la realidad histórica significativa en cuestión, con características del análisis temático, periodístico o del ensayo.
De acuerdo con los investigadores del Programa de Seguimiento de la Realidad Mexicana ( PSRMA) (37), el análisis de coyuntura estaría integrado por tres aspectos básicos: el “seguimiento de proceso” (en el que a veces se queda el trabajo de análisis periodístico), el “estudio de coyuntura”, propiamente dicho y el “análisis de periodo”.
En este formato de análisis de coyuntura “se ‘sigue’ un proceso histórico, pero no en general, sino durante un periodo determinado, y se concibe la coyuntura no como cualquier ‘momento actual’, ni como ‘un mero detalle en el tiempo’, sino como ‘un punto privilegiado de la historia’, en que el ‘desarrollo político y económico’ muestra claramente la naturaleza de la lucha de clases y presenta vías de ‘solución’ para sus contradicciones internas”.(38)
Nicos Poulantzas había definido ya, en 1968, la coyuntura como “el lugar donde se descifra la relación de las estructuras con el campo de las prácticas”, es decir, de la imbricación de la economía, de las ideologías y del Estado con la sociedad (las luchas de clases), y cuyo estudio permite “descifrar la individualidad histórica del conjunto de una formación (social-nacional)”.(39)
De acuerdo con este autor, y según el tipo de análisis de coyuntura elaborado por el marxismo en general, la idea del Estado capitalista como “resultado”, “expresión” o “condensación” de la lucha de clases, tiende a ser el núcleo del análisis. La comprensión de las luchas de clases, o para decirlo mis elegantemente, de la correlación de fuerzas necesariamente conduce a entender la especificidad nacional e histórica del Estado; este acto de pensamiento culmina en su explicación considerándolo en dos vertientes: como Estado en sí (como estructura) y como Estado en relación con la correlación de fuerzas, según una diferenciación utilizada por Marx al final de su famosa Introducción General de 1857.
Sobre todo cuando se trata de coyunturas “contemporáneas”, respecto a las que se logra hacer un seguimiento inédito, y que reflejan además zonas de conflicto, de ruptura”(40) o de crisis, que tengan que ver con el Estado, el estudio o la interpretación histórica del periodo histórico en el que aparecen circunscritas puede llevar a sostener afirmaciones más amplias sobre las posibilidades del “cambio”, sobre factores que lo impulsan o, por el contrario, que lo restringen, que le imprimen cierto sentido, etc. Desde este punto de vista, que parece ser el caso de Marx, en el DB, el análisis de coyuntura propiciaría avanzar hacia otro tipo de estudios de la realidad histórica, por ejemplo las reinterpretaciones del pasado (tan frecuentes, aunque no exclusivas, entre los historiadores), el diseño de escenarios o la elaboración de modelos de simulación.
En la medida en que el análisis de coyuntura tiene eminentemente un carácter explicativo-reconstructivo (el caso típico es el de Marx), queda deslindado de ese otro tipo de estudios, cuya utilidad por lo general llega a coincidir con diversos círculos de poder político en su interés por la toma de decisiones.(41) Esto significa que por sí solo el análisis de coyuntura es insuficiente en esos niveles para proporcionar alternativas para la definición de modelos de elección política, de estrategias políticas. No obstante, no por ello la calidad o la excelencia de los resultados del análisis de coyuntura podrían catalogarse como muestra de “neutralidad ideológica”, tampoco tomarse como garantía de acertadas decisiones políticas, e inversamente, cuando se trata de resultados de escasa calidad explicativa-reconstructiva, éstos no necesariamente podrían ser asociados con una “excesiva” carga ideológica, ni con decisiones erráticas.
Lo inadmisible, sin embargo, desde la posición que privilegia ese carácter explicativo-reconstructivo, precisamente porque éste propicia una concepción más amplia y diversa de la realidad histórica, sigue siendo el falso “análisis de coyuntura” que, promovido y difundido desde algunos círculos de poder político, busca justificar el curso de los acontecimientos o la toma de decisiones para el futuro inmediato.
Debe subrayarse que, al contrario de la particularidad explicativa-reconstructiva del análisis de coyuntura, y aun del tipo de proposiciones complementarias de cómo pudo ser o de cómo podrá ser la realidad histórica, según la definición delimitada de una matriz “x” de supuesto,(42) los modelos de simulación, como caso extremo, se encuentran más vinculados a los procesos de toma de decisiones, y por lo tanto, a esquemas de definición “abierta” de matrices de supuestos y a un uso instrumental-operativo de la información previamente conseguida y clasificada. No obstante, no hay un abismo entre el análisis de coyuntura y los instrumentos de toma de decisiones para “influir” en el curso de la historia, sino solamente umbrales más o menos prolongados por los que el analista político puede ser inducido a transitar.(43)
A final de cuentas, resulta bastante difícil objetar la capacidad que se logra con el análisis de coyuntura para vincular, en el presente, la comprensión del pasado inmediato con la necesidad de hacer menos azaroso, previsible el futuro inmediato. Sin embargo, la realidad histórica no ha podido ser, hasta ahora, contenida en una especie de recipiente ordenador.
NOTAS
1. El lector podrá encontrar referencias recientes acerca de la preparación y publicación de El dieciocho brumario de Luis Bonaparte, en la sección de notas proporcionadas sobre todo en las Ediciones en Lenguas Extranjeras o en la edición de Progreso. En el prólogo a la segunda edición Marx dice que su amigo José Weydemeyer “proponíase editar en Nueva York, a partir del 1 de enero de 1852, un semanario político [y] me invitó a mandarle para dicho semanario la historia del coup d’etat”. Marx escribió, en efecto, un artículo cada semana, ‘hasta mediados de febrero”, bajo el título ‘El dieciocho brumario de Luis Bonaparte”, pero que no fueron publicados en ese semanario, pues nunca apareció, sino en la revista Die Revolution cuyo primer número estuvo formado por ese trabajo.
2. En el ¿Qué hacer?, Lenin explora la necesidad de establecer la organización y dirección de las masas a partir de la fundación de un partido político, para hacer la revolución proletaria en condiciones adversas de restricción política impuestas por el régimen político. Luego, en El desarrollo del capitalismo en Rusia analiza más a fondo las condiciones de formación económica del proletariado que, de acuerdo con su interpretación teórica de la obra de Marx, debía construir el sustrato social de la revolución y de la actividad de partido. En cierto modo, Lenin limitaba su análisis político por una concepción determinista de la historia, que le impedía, por ende, ponderar el verdadero grado de maduración social y política de la clase obrera rusa. Es de suponer que, por el impulso político de las luchas de clases, Lenin estaba convencido de hacer avanzar el proyecto de revolución proletaria, dando por cumplida la etapa de pleno desarrollo capitalista y de revolución burguesa.
3. De Gramsci pueden ser citados diferentes ediciones de sus escritos (principalmente de la cárcel); pero en especial citamos aquí la edición que ERA (México) hizo de sus notas sobre el fascismo en 1979 (traducción a su vez de la edición italiana en 1974).
4. Mao TseTung, Cinco tesis filosóficas, Beijing. Ediciones en Lenguas Extranjeras, 1975
5. Poder político y clases sociales en el Estado capitalista, México, Siglo XXI, pp. 44-45
6. Cfr. La crisis de las dictaduras, México, Siglo XXI
7. El método del concreto-abstracto-concreto, México, Universidad Autónoma Metropolitana-Iztapalapa, 1983. pp. 61-79.
8. Op. cit., en la misma línea de interpretación puede verse también el trabajo de Leonardo Valdés Zurita, publicado en la revista Iztapalapa, núm. 2,1980 (UAM- Iztapalapa), sobre ‘La explicación en el análisis de Karl Marx”, pp. 280-295.
9. La dicotomía base-superestructura no es lo importante en este artículo; pero en la medida en que no se reduce a una simple diferenciación y separación de niveles de una formación social, sino que remite a la concepción de totalidad contradictoria sobre ésta, en sí. si tiene relevancia en el enfoque de análisis de coyuntura marxista.
10. El dieciocho brumario de Luis Bonaparte (DB), prólogo de Marx a la segunda edición (1869), p.2
11. Remitirnos, por ejemplo, a los ya citados en las notas 7 y 8
12. En Poder político y clases sociales en el Estado capitalista, Poulantzas afirma que “sólo existe, de hecho, una formación social históricamente determinada, es decir, un todo social –en el sentido más amplio- en un momento de su existencia histórica: la Francia de Luis Bonaparte [por ejemplo…]”. Véase además las pág. 39-40
13. DB, pp. 125 y 135.
14. Véase la carta de Marx a Joseph Weydemeyer (Londres, 5 de marzo de 1852). en donde dice que entre lo que él ha aportado de nuevo acerca de las clases y luchas de clases ha sido demostrar, entre otras cosas, “que la lucha de clases conduce, necesariamente, a la dictadura del proletariado”.
15. C. Marx y F. Engels, Obras escogidas, t. I, México, Ediciones Quinto Sol, 1985, p. 119
16. La introducción a la CFEH fue publicada posteriormente a esta crítica, en los Anales Franco-Alemanes, febrero de 1884, único número editado por Arnold Ruge y Carlos Marx.
17. Lenin también llegó a considerar, en su escrito sobre la vida de Marx (Carlos C. Marx) incluido en el Diccionario enciclopédico Granat (séptima edición, tomo XXVIII, 1915), que en la CFEH y en su introducción “vemos ya al revolucionario que proclama la necesidad de una [crítica implacable contra todo lo existente] y, en particular, de una [critica de las armas] que apele a las masas y al proletariado” (cfr. p. 3 de la edición en Lenguas Extranjeras).
18. En El Capital, tercer tomo, en la sección sobre la crisis, Marx dedica un buen espacio a la explicación de los “factores contrarrestantes” de la tendencia a la caída de la tasa media de ganancia. Desde 1852, consideró en sus análisis ese tipo de factores en los procesos económicos y políticos del capitalismo. También Engels, en su introducción a Las luchas de clases en Francia de 1848 a1 850, concentra la repercusión del derecho de sufragio en la Alemania de finales del siglo XIX, al cambiar las formas de organización y de lucha de la clase obren.
“Y así se dio el caso dice Engels de que la burguesía y el gobierno llegasen a temer mucho más la actuación legal que la actuación ilegal del partido obrero [Alemán], más los éxitos electorales que los éxitos insurreccionales […] Pues también en ese terreno habían cambiado sustancialmente las condiciones de la lucha. Desde 1849 han cambiado muchísimas cosas y todas a favor de las tropas […] En cambio, del lado de los insurrectos todas las condiciones han empeorado […] También en los países latinos [europeos] se va viendo cada vez más que hay que revisar la vieja táctica. En todas partes se ha imitado el ejemplo alemán del empleo del sufragio”. Pero Engels, a fin de cuentas, no descarta, aun en esas condiciones, “el derecho a la revolución”.
19. pp. 135-147, edición del F.C.E., “La acción libre y la necesidad”
20. Op. cit., p. 135
21 Op. cit., pp. 144-145
22. Op. cit., p. 145
23. Remito a la nota 18 y, en el mejor de los casos, a la Introducción de Las luchas de clases en Francia de 1848 a1 850, Beijing. Ediciones en Lenguas Extranjeras, 1980
24. “Philippe Adair, en “Un concepto precario: la acumulación primitiva” (Les temps modernes, núm. 434, sept., 1982), refiriéndose a la génesis del capitalismo, coincide con Maurice Godelier en que todo sistema social “comprende en sí su propia estructura originaria sobre la cual se funda y se reproduce a cada instante …”
25. Golpe de Estado que “como un rayo en cielo sereno”, según Marx, sorprendió a los franceses e hizo que éstos, por ende, sin ver lar circunstancias históricas objetivas que lo produjeron, magnificaran la figura del sobrino de Napoléon.
26. DB, p. 16 p. 16. Cabe precisar aquí que cuando Marx se refiere a la “escena política” está remitiendo al mismo tiempo a las luchas políticas relevantes de las representaciones políticas de las diferentes clases y fracciones de clase.
27. La burguesía dinástica era el grupo de representantes del conjunto de la clase burguesa, y la formaban, por un lado, los legitimistas, partidarios de la rama mayor de la dinastía monárquica de los Borbones y de los intereses de los grandes propietarios territoriales y, por otro, los orleonistas, partidarios de la rama menor de esta dinastía y de los intereses de la aristocracia Financiera y de la gran burguesía”. (“Los banqueros, los reyes de la bolsa, los reyes de los ferrocarriles, los propietarios de minas de carbón y de hierro y de explotaciones forestales y una parte de los propietarios de tierra aliados a ellos”. p. 32. Las luchas de clases en Francia de 1848 a 1850.)
La burguesía dinástica, orleanistas y legitimistas, forman luego el Partido del Orden. Como se indicará también en la siguiente nota, una parte de la burguesía comercial, “la que se había llevado la parte del león en el gobierno de Luis Felipe”(p. 106. op. cit.), formaba también parte de la aristocracia financiera.
28. La burguesía republicana, o los “republicanos burgueses puros”. estaba formada por los representantes de la burguesía industrial y comercial (aunque no toda la burguesía comercial estaba ahí representada) Y constituyeron lo que Marx denominó la “oposición oficial” minoritaria en el poder legislativo durante la monarquía de Luis Felipe (1830-1848). Le National fue durante 1830-1851 el periódico de la tendencia moderada de los republicanos
29. Los pequeño burgueses democrático-republicanos eran los representantes de la pequeña burguesía; a ellos se aliaron “los socialistas pequeñoburgueses”. Entre ambas corrientes editaron el periódico LaReforme, durante 1843-1850; incluso Engels publicó algunos artículos en este periódico, entre 1847 y 1848. Los representantes políticos de la pequeña burguesía, es decir de una clase que no pretende abolir el capital ni el trabajo asalariado, sino “atenuar su antítesis y convertirla en armonía”, según Marx, formaron el partido de La Montaña.
30. El método del concreto-abstracto-concreto, op. cit., p. 77
31. DB, p. 122
32. Op. cit., p. 22
33. La derrota de los socialdemócratas, es decir, del partido de La Montaña, dice Marx, “era una victoria directa para Bonaparte. […] El partido del orden había conseguido la victoria y Bonaparte no tenía que hacer más que embolsársela”.
34. Representaciones parlamentarias, fundamentalmente pero no en un sentido restrictivo, porque las características históricas de conformación del poder político en Francia entre 1789 y 1851, se reducían en una auténtica presencia de los intereses de las clases representadas en la conformación del poder ejecutivo. Justamente, cuando Marx indica la variación de la correlación de fuerzas en la “escena política”, no hace referencia necesaria o exclusivamente a las alianzas y desplazamientos entre los partidos políticos sino en un sentido más amplio a las relaciones entre las Representaciones políticas parlamentarias de las clases y fracciones de clases sociales y el poder ejecutivo,un predominio de aquéllas sobre éste al que sólo pudo poner fin el golpe de Estado.
35. Dice Marx en el DB, sin embargo, que la represión promovida contra el proletariado, entre mayo y junio de 1848, fue el enfrentamiento de la república burguesa contra esa clase: de “La aristocracia financiera, la burguesía industrial, la clase media, los pequeños burgueses, el ejército, el lumpemproletariado organizado como guardia móvil, los intelectuales. los curas y la población del campo”, en contra de 18 mil insurrectos proletarios, tres mil de los cuales “fueron pasados a cuchillo [y] 15 mil reportados sin juicio” (DB. pp. 18-19).
36. El método del concreto-abstracto-concreto, op. cit., p. 72
37. Grupo de investigadores asociados a la revista El Cotidiano. En el suplemento del nº 42 este grupo explica detalladamente una buena parte de su concepción acerca del análisis de coyuntura.
38. Op. cit., pp. XII y XIV
39. Véase Poder político y clases sociales en el Estado capitalista, op. cit. pp. 44-45 y 113.
40. El Cotidiano, nº 42, suplemento, p. XIII
41. Según la interpretación que hacen los investigadores del PSRMA del trabajo de Jaime Osorio (El análisis de coyuntura, México, CIDAMO, 1987), éste privilegia el análisis de coyuntura en función de la necesidad de “hacer política” (El Cotidiano, nº 42, suplemento, p. IX).
42. K. Marx lleva a esos límites sus análisis teóricos e históricos, tratando de fundamentar su explicación en torno del curso histórico-tendencial del capitalismo. Al respecto, dos obras ilustran bastante bien, en ese orden, lo anterior: El Capital (cfr. los apartados sobre la determinación de la tasa de ganancia y sobre los esquemas de reproducción del capital) y el Dieciocho brumario…
43. Norberto Bobbio señala (en el Diccionario de política, México. Siglo XXI, 1981, pp. 259-260) que la ciencia política, en la actualidad, se caracteriza por la difusión de nuevas técnicas de análisis (ej. el análisis multivariado) y por fórmulas de explicación-previsión.

Modernidad y posmodernidad en el Manifiesto Comunista

MODERNIDAD Y POSMODERNIDAD EN EL MANIFIESTO COMUNISTA
Sergio de Zubiría Samper
Quiero para iniciar esta reflexión, manifestar mi emoción y felicitar a la Universidad Nacional de Colombia y al Comité Organizador “Marx Vive”, porque nos permite en estas horas tan difíciles del pensamiento crítico, darle un espacio a uno de los pensadores emblemáticos de la tradición occidental de la crítica.
El título de la presente ponencia está colmado de malentendidos, tan lleno de lugares comunes y diría que hasta de prejuicios, que relacionar Modernidad y Posmodernidad en el Manifiesto Comunista para muchos sería casi una herejía. Lo que me hace ineludible hacer referencia a algunas reglas del juego, para que podamos crear un escenario adecuado de comprensión y comunicación.
Limitaciones trágicas
El debate Modernidad/Posmodernidad, considero, ha adolecido de dos trágicas limitaciones. La primera, el prefijo “post” ha sido el término más desafortunado, porque insinúa a cualquier oyente, remite a cualquier lector, a una idea evolucionista y lineal, como si la posmodernidad viniera necesariamente después de finalizada la modernidad.
Y hoy podemos postular que los teóricos más rigurosos de la posmodernidad nunca la han entendido así, como una etapa siguiente o una etapa post a la experiencia vital de la modernidad. La segunda gran limitación es nuestro todavía persistente maniqueísmo; siempre tendemos a caricaturizar la perspectiva distinta a la nuestra.
Y en ese sentido, en las caricaturizaciones se dan ejemplos tan disímiles, como para algunos creer que la posmodernidad simplemente es “todo vale”, o un relativismo escéptico o simplemente una nueva ideología de consumo. Una alumna mía, con ese pensamiento casi imagen que caracteriza actualmente a muchos jóvenes, un día me decía: “Eso que usted está hablando me suena es como a importaculismo”.
Pero, desde la otra orilla, el maniqueísmo caricaturizador posmoderno también ha visto la modernidad como la responsable de los campos de concentración, de la destrucción de la naturaleza, etc., como la filosofía de la identidad totalitaria realizada, y esa es otra caricatura.
Creo que luego de más de 15 años de debate filosófico, podemos tener una mente y un lenguaje decantado para comprender que no es posible seguir en ese maniqueísmo. Creo que hay dos textos emblemáticos y reveladores que nacen el mismo año de 1985: El discurso filosófico de la modernidad, de J. Habermas, y El fin de la modernidad, de G. Vattimo. Ambos textos muestran la altura e importancia teórica de esta discusión para comprender nuestra época. Considero que, decantando el lenguaje y luchando contra nuestro perseverante maniqueísmo, podríamos llegar a tres acuerdos provisionales.
El primero, tanto la noción de Modernidad como de Posmodernidad es muy plural y bastante polisémica. Hay modernidad neoliberal, hay modernidad rawlsiana, existe modernidad comunitarista, también modernidad habermasiana y otras alternativas. Podríamos postular hasta que, en el seno de cada una de las anteriores, existen modernidades y no sólo modernidad. García Canclini en su texto Culturas híbridas (1989), llega a plantear que en América Latina coexisten contradictoria y desigualmente varias modernidades.
El segundo, que hay ciertos “rasgos de familia”, utilizando un pertinente término de Wittgenstein, que no excluye que existan miembros de familia muy distintos. Estos “rasgos de familia”, considero, son los ejes donde gira el debate entre modernos y posmodernos, aunque las perspectivas en el seno de cada grupo son demasiado desiguales. Estos posibles cuatros ejes son: 1. Los modernos propugnan tendencialmente por el universalismo; Habermas ha aportado una frase bellísima que sintetiza el debate: “Ser resueltamente moderno es considerar que en el hablar, en el pensar y en el actuar hay principios universales”.
En cambio los posmodernos en su mayoría no están de acuerdo: ni en el pensar, ni en el hablar, ni en el actuar hay principios universales. Habrá principios contextuales, más o menos generales o comunitaristas, pero no absolutamente universales;
2. En general los modernos creen que el sentido de la historia va hacia la modernidad, y es lo deseable. En ese sentido poseen un sentido unitario de la historia: ojalá todos vayamos hacia la modernidad. Los posmodernos, en general no.
Por eso Vattimo ha expuesto reiteradamente que hoy vivimos la experiencia del fin del sentido unitario de la historia. No de la historia, como finalizada o terminada, porque ella es interminable (M. Ende), sino que hay unos que van para la modernidad, pero no necesariamente todos. Hay comunidades culturales concretas que yuxtaponen modernidad, tradición y posmodernidad, otras que desean no ir hacia la modernidad, y hay que respetarlo;
3. La experiencia del tiempo que propugnan los modernos siempre valora el futuro, el cambio, la innovación, y en ese sentido hay una cierta relación de valoración mayor hacia lo nuevo y hacia el futuro que hacia otros tiempos. En cambio, los posmodernos creen que la experiencia del tiempo puede ser diversa y por eso adoran la frase de Nietzsche “el eterno retorno de lo mismo”, o pueden comprender la frase de muchas comunidades indígenas de América Latina que dicen “el futuro está atrás, el pasado está adelante”; 4.
En general, los modernos creen en una teoría y práctica del progreso. Aunque sean muy diversos los criterios para evaluarlo, se imaginan y narran la historia como un progreso moral, un progreso cultural, un progreso técnico, mientras los posmodernos, por lo menos, tienen la duda o desconfianza ante el concepto. Será que no es posible retrocesos, será que no es posible estancamientos, no avances o de carácter contradictorio, o un “eterno retorno” sin pasado ni futuro u otras posibilidades.
Y el tercero de nuestros acuerdos provisionales: abrirnos, aunque sea por unos momentos, a la posibilidad de esa frase y giro bastante difícil, que planteara J. F. Lyotard en La posmodernidad (explicada a los niños) (1986), una apertura como homenaje a su muerte reciente: “Una obra no puede convertirse en moderna si, en principio, no es ya posmoderna. El posmodernismo así entendido no es el fin del modernismo sino su estado naciente, y este estado es constante”, aceptando que para todos nosotros, formados en la historia evolucionista es un giro bastante difícil e inaccesible.
Desde que nació la modernidad aparecieron pensadores posmodernos y, en sentido histórico, en el siglo que emergió la modernidad nacieron también componentes posmodernos. Tal tesis no podría compartirla G. Vattimo, porque este autor ubica aproximadamente el nacimiento de la posmodernidad filosófica en la segunda etapa de F. Nietzsche, luego de El origen de la tragedia (1871). De todas maneras, la propuesta de Lyotard es una posibilidad de impedir que el prefijo “post” se nutra de rasgos unilineales, evolucionistas y maniqueos.
Lecturas modernas
El Manifiesto Comunista (1848) ha sido en los últimos años tema y preocupación de lecturas modernas y posmodernas. Es notorio un renacimiento y revitalización de sus posibles lecturas gracias a esas dos perspectivas. Tal vez las propuestas más emblemáticas de una lectura moderna son las insinuadas por Marshall Berman, Todo lo sólido se desvanece en el aire (1982) y Jacques Derrida Espectros de Marx (1995), de una lectura posmoderna, esta última con un subtítulo verdaderamente atractivo: El estado de la deuda, el trabajo del duelo y la nueva internacional.
Tanto Berman como Derrida, confiesan avergonzados que hace mucho tiempo no leían el Manifiesto, como tenemos que confesarlo también algunos de nosotros, pero gracias, de alguna manera, a toda esta importante discusión moderna/posmoderna que ocupa bastante a distintos intelectuales desde los años 80, releen el Manifiesto. Derrida desde fisuras y giros posmodernos; Berman desde una propuesta de lectura moderna.
Las interpretaciones dominantes tanto del Manifiesto Comunista como del marxismo, en los años 80 y 90, consideran, y estoy de acuerdo con ello, que el texto es una pieza clave, una de las más importantes del siglo XIX para reflexionar sobre qué es eso de la modernidad.
Berman incluso narra una circunstancia bastante trágica: que cuando él tenía seis años todo el mundo le decía “usted vive en un barrio moderno, usted vive en un edificio moderno, usted vive en una ciudad moderna”, y poco después de terminar su libro, su hijo Marc de cinco años, le fue arrebatado en un accidente automovilístico y a él le dedica su obra, porque “su vida y su muerte acercan al hogar muchos de los temas e ideas del libro: la idea de que los que están más felices en el hogar, como él lo estaba, en el mundo moderno pueden ser los más vulnerables a los demonios que los rondan”.
En muy pocos casos se ha señalado que el Manifiesto Comunista pueda contener rasgos posmodernos, y considero que, en general, es plausible estar de acuerdo en que lo dominante en el texto es su carácter de pieza clave para entender esa enigmática, compleja palabra, y hoy impresionantemente polisémica: modernidad, modernización, modernismo. Pero, de todas maneras, nos arriesgaremos, con muchos grandes lectores contemporáneos de Marx y Engels, al afirmar que se pueden develar algunas fisuras, pequeños entretejidos de espectros posmodernos.
Hoy creo que el Manifiesto Comunista se podría leer, por lo menos, desde cuatro perspectivas. Propuestas de interpretación, todas ellas, que enriquecen la vitalidad de la tradición marxista. La primera: es uno de los más pertinentes textos del pensamiento occidental para apropiar qué es la modernidad en general. La segunda: en el Manifiesto nace la modernidad crítica y, en ese sentido, Marx no es tanto la apropiación de la modernidad en general, sino de un tipo de modernidad crítica.
Tercera: Marx es un crítico de la modernidad en su forma capitalista, uno de los más profundos críticos, pero postula una modernidad diferente: comunista, socialista, siempre anticapitalista. Y cuarta, que es la más difícil y arriesgada y, por momentos, no la más pertinente: el Manifiesto es una crítica de la modernidad en general, tanto en sus formas capitalistas como no-capitalistas y, en algún sentido, hay en él atisbos, pequeñas claves posmodernas.
En un recorrido sucinto por las lecturas modernas dominantes del Manifiesto Comunista, podríamos recurrir a algunas de sus tesis y acentos en el seno del interesante debate del marxismo actual.
J. Habermas sostiene que en el marco del discurso filosófico de la modernidad, el Manifiesto es el texto que denunció precozmente algunos de los elementos patógenos de la modernidad. La gran crítica contenida en el Manifiesto es al hombre y al sujeto abstracto que instauran las revoluciones burguesas modernas. Ese sujeto que vuelve la igualdad y la libertad derecho a la disociación, al egoísmo. En este sentido, el Manifiesto y el marxismo son una crítica radical a la subjetividad abstracta de la modernidad capitalista.
Irving Fetscher formula que el marxismo es una especie de aceptación crítica del desarrollo moderno capitalista, que Marx y Engels saludan en el Manifiesto la importante dinámica del crecimiento capitalista, pero al mismo tiempo critican lúcidamente los enormes destrozos, costos humanos y naturales que tiene esa forma de modernidad capitalista.
Callinicos, uno de los más recurrentes críticos de la posmodernidad, plantea que Marx, Nietzsche y Saint-Simon pueden ser considerados como los fundadores de las tres formas más influyentes de modernidad. Cada uno de ellos inaugura una tradición para entender las características centrales de la modernidad. Llama la atención que tanto para Berman como para Callinicos, Nietzsche sea situado como un típico representante de la modernidad.
Pero, quisiera detenerme un poco en el texto emblemático de Marshall Berman, que es de cierta forma el que anticipa la polémica sobre el papel del Manifiesto en el contexto de una interpretación moderna de su contenido. Berman confesando algo sobre el Manifiesto Comunista dice: “Hace más de 30 años cuando yo era joven me enseñaron que el Manifiesto Comunista era un trabajo obsoleto y que aun cuando pudiera ayudarnos a entender el mundo de 1860, lo cierto es que no tenía ninguna relación con el mundo de 1960, el mundo de la guerra fría y el Estado de bienestar. Es irónico, pero a medida que me hago viejo, el Manifiesto parece rejuvenecer y hasta podía resultar que tenga más relevancia a finales del siglo XX que a mediados del XIX”.
Cada día se convierte en una especie de guía que nos indicará cómo es en verdad la vida en el capitalismo contemporáneo; la fuerza del Manifiesto reside en la luz que hoy nos arroja para comprender la vida espiritual de fines del milenio.
Pero, además, Berman logra una definición de la modernidad de una de las maneras más literarias y vitales que pueda hacerse:
Hay una forma de experiencia vital, la experiencia del tiempo y del espacio de uno mismo y de los demás, de las posibilidades y los peligros de la vida que comparten hoy los hombres y mujeres de todo el mundo de hoy. Llamaré a este conjunto de experiencia vital, la modernidad. Ser modernos es encontrarnos en un entorno que nos promete aventuras, poder, alegría, crecimiento, transformación de nosotros y del mundo, y que al mismo tiempo amenaza con destruir todo lo que tenemos, todo lo que sabemos, todo lo que somos. En una palabra, ser modernos es formar parte de ese universo en que, como dijera Marx: todo lo sólido se desvanece en el aire.
Tuvimos la mala fortuna de que la hermosísima traducción de esa última frase, que Berman escoge como título de su libro, casi ninguno de nosotros la conoció en nuestra juventud. Berman sostiene cuatro grandes tesis del Manifiesto Comunista en su visión de la modernidad:
En primer lugar, Marx concibe la modernidad en el Manifiesto como una totalidad; totalidad cultural, totalidad económica, totalidad religiosa, y esa es una virtud, estableciendo siempre relaciones entre el todo y la parte, y viceversa. Es de los pocos pensadores que hace un esfuerzo reflexivo de comprender la interrelación y la masilla de todas las expresiones de la modernidad.
En segundo lugar, no bifurca modernidad, modernismo y modernización, como lo hacen aproximaciones como el neoliberalismo. La modernidad desde su acta de nacimiento establece las distinciones y relaciones entre estos tres momentos constitutivos del proyecto; en cambio el neoliberalismo reduce la realización del programa moderno a una modernización sin modernidad. Marx nunca le hizo el juego a esa modernización tecnológica que renuncia a la autonomía, la subjetividad, la crítica, etc.
En tercer lugar, clarifica integralmente el nexo entre cultura moderna, economía y sociedad burguesa moderna, que no lo hacen otras teorías de la modernidad. No cae en concepciones reduccionistas de tipo “culturalista” o “economicista”, sino encuentra los nexos dialécticos entre estas esferas de la vida social.

Y en cuarto lugar, logra percibir la profundas ambigüedades y contradicciones de la modernidad capitalista, así como las percibe Fausto, como las percibe Nietzsche, como las percibe Benjamin y muchos otros, pero con una gran capacidad anticipatoria. En su cuidadosa lectura del Manifiesto, ilustra estas contradiciones con cinco metáforas implícitas a lo largo de las profundas palabras de este texto: lo efímero y evanescente de la experiencia moderna; la autodestrucción innovadora; el hombre desguarnecido; la metamorfosis de todos los valores; la pérdida de aureola.

El momento más dramático de esta interpretación de la modernidad evanescente, productiva/destructiva, solipsista, incierta en los valores y que todo lo mercantiliza, es la conclusión con que cierra su lectura de Marx: ¿Cómo asumir hoy el Manifiesto Comunista y su fuerza, en una situación en que no se puede desconocer la tensión existente entre la percepción crítica de Marx y sus esperanzas radicales?

Y responde con una posición, que considero muy valiente y exigente para su cumplimiento, la cual recuerda la fértil tradición del marxismo desesperanzado de Walter Benjamin. Recordando a A. Gramsci, remite Berman a este gran marxista que entendió la esencia de una lectura contemporánea del Manifiesto, con estas bellísimas y enigmáticas frases: “Pesimismo del intelecto, optimismo de la voluntad”, próxima a aquella consigna colmada de imaginación de los jóvenes en mayo del 68: “Seamos realistas, exijamos lo imposible”.

Fisuras posmodernas

Al lado de estas propuestas modernas, encontramos por lo menos cuatro autores, que empiezan a sugerir perspectivas de leer el Manifiesto Comunista de otra manera. Que sugieren giros, matices, fisuras de carácter posmoderno. Su precursor, nos parece, es M. Blanchot, en uno de los más breves trabajos que se ha escrito sobre Marx (dos páginas), bastante desconocido por los lectores hispanoparlantes e intitulado “Los tres lenguajes de Marx”.

Blanchot, en ese trabajo de dos páginas, con inmensa agudeza, nos dice: “Siempre venideros de Marx, vemos tomar fuerza y forma a tres clases de lenguajes, los cuales son los tres necesarios, pero separados y más que opuestos, como yuxtapuestos. El contraste que los mantiene juntos designa una pluralidad de exigencias a la que desde Marx, cada uno al hablar, al escribir, no deja de sentirse sometido…”; algo muy valioso del Manifiesto, nos lo recuerda Blanchot, es que es un lenguaje, y ser comunista no es sólo aceptar un sistema o una teoría filosófica: es también un constante desafío en nuestra manera de hablar y la ineluctable necesidad del asedio de la justicia, la dignidad y la igualdad humana.

Ser comunista es una forma de hablar, una forma de hablar que está en Marx y Engels. El lenguaje comunista es siempre a la vez tácito y fuerte, político y sabio, directo e indirecto, total y fragmentario, lento y casi instantáneo. En Marx hay por lo menos tres lenguajes visibles, y en el Manifiesto se puede percibir que coexisten en forma incómoda y heterogénea.

El primero es el lenguaje filosófico, que es directo, pero lento. Marx aparece como el escritor de pensamiento, en el sentido de que ha salido de la gran tradición del logos filosófico (“lo que concebís para la propiedad antigua, no os atrevéis a admitirlo para la propiedad burguesa”). Pero, al mismo tiempo hay un lenguaje político, que es momentáneo, más que directo y más que breve, cortocircuita todo lenguaje (“el primer paso de la revolución obrera es la elevación del proletariado a clase dominante, la conquista de la democracia”). Además, hay un tercer lenguaje: es el lenguaje indirecto, el más lento de los tres, el del discurso científico (“todas las relaciones de propiedad han sufrido constantes cambios históricos, continuas transformaciones históricas”).

Uno de los problemas del marxismo posterior a Marx y Engels es que predominó uno solo de estos lenguajes. Stalin y gran parte del marxismo soviético creyeron que Marx sólo era científico. Se cortó la fuerza de su “pluralidad de exigencias”, se pasteurizó la noción de “ciencias”, y se pretendió que un mundo tan complejo fuera entregado a la custodia de un único agente.

Inspirado por momentos en M. Blanchot, Jacques Derrida empieza con una micrología, la frase inicial del Manifiesto Comunista, y dedica su texto al gran luchador comunista contra el apartheid: Chris Hani. Los Espectros de Marx: el estado de la deuda, el trabajo del duelo y la nueva internacional (1995) es una obra muy sugerente hacia una propuesta posmoderna de comprensión del Manifiesto y, en general, del pensamiento de Marx.
Como M. Berman, pero con intenciones muy diferentes, inicia su trabajo confesando sus muchos años de ausencia de lectura de este emblemático trabajo: “Hace más de un año tenía decidido llamar a los espectros por su nombre desde el título de esta conferencia de apertura ‘Espectros de Marx’; el nombre común y el nombre propio estaban ya impresos, estaban ya en el programa cuando muy recientemente releí el Manifiesto del Partido Comunista. Lo reconozco avergonzado: no lo había hecho desde hacía decenios –y eso debe revelar algo–. Bien sabía yo que allí esperaba un fantasma, y desde el comienzo, desde que se levanta el telón”.
Y unas páginas más adelante nos asevera Derrida en forma categórica: “Será siempre un fallo no leer y releer y discutir a Marx. Es decir, también a algunos otros, y más allá de la ‘lectura’ o de la ‘discusión’ de escuela. Será cada vez más un fallo, una falta contra la responsabilidad teórica, filosófica, política… No habrá porvenir sin ello. No sin Marx. No hay porvenir sin Marx. Sin la memoria y sin la herencia de Marx: en todo caso de un cierto Marx: de su genio, de al menos uno de sus espíritus. Pues ésta será nuestra hipótesis o más bien nuestra toma de partido: hay más de uno, debe haber más de uno”.
Cuando Marx afirmaba sinceramente “Yo no soy marxista”, es porque sabía que su teoría no debería ser ni unívoca ni homogénea, sino que abría la posibilidad de marxismos; y él mismo era contradictorio, porque un pensar vigoroso así tiene que ser. La vitalidad de su legado implica reconocer que existe más de un Marx, pero también menos de uno; de otra manera lo petrificamos, lo esterilizamos. No se necesita ser marxista o comunista para rendirse ante la evidencia de que “habitamos todos un mundo” que conserva de forma directa o no, visible o no, con una gran profundidad, la marca de la herencia de Marx. De al menos alguno de sus espíritus.
¿Pero cuál es el espectro que nos asedia? ¿Qué contiene el espectro que interpela al Marx del Manifiesto y a Hamlet? “¡Ah, el amor de Marx por Shakespeare!”. Nos asedia la justicia. El problema más difícil es que el derecho moderno se ha sustentado en la venganza no en la justicia, como lo saben Hamlet, Marx, Nietzsche, Benjamin, entre otros. La justicia ha tendido a reducirse en reglas, normas, representaciones jurídicas-morales o deber cumplido. Una justicia reducida a compensación o retribución. La justicia de Marx es otra justicia, como la de Shakespeare. El padre de Hamlet se le aparece como el espectro que exige el asedio y la justicia.
El espectro del Manifiesto es el asedio de una justicia distinta a una justicia solamente jurídica. Marx lo dice en sus Reflexiones de un joven para elegir profesión. Lukács hablará del jacobinismo plebeyo del joven Marx; aquel individuo que escoge el derecho por dos razones, dos ideales que aunque parezcan ser incompatibles son compatibles por el asedio de la justicia. En una profesión uno puede ennoblecer su espíritu y al mismo tiempo servirle a toda la humanidad.
La justicia tiene que ver con el donar. Quien no esté en el estado de ánimo de regalar, de donar, de tener sentimientos morales ante el dolor ajeno, nunca será justo. En ese sentido tenemos que deconstruir el espectro de Marx; necesitamos que por fin el derecho se sustraiga a la fatalidad de la venganza. Nuestra deuda con el legado del marxismo tiene que ver con una justicia que tenga que ver con el asedio, el espectro, la conjunción con el otro.
Otro pensador que, consideramos, también inaugura una posibilidad de comprensión y lectura posmoderna del pensamiento de Marx es Antonio Negri. En su ya divulgada obra El poder constituyente: ensayo sobre las alternativas de la modernidad (1994 en castellano), y en otros ensayos en colaboración con F. Guattari como Las verdades nómadas: por nuevos espacios de libertad (1989), desarrolla sugestivas propuestas de lectura del marxismo en este fin de siglo. La complejidad y lucidez de sus sugerencias nos exigirían algunas referencias más detalladas, que rebasan las intenciones de este escrito; por tanto, nos limitaremos a esbozar puntual y brevemente algunas de sus tesis.
Tanto Negri como M. Foucault perciben que las maneras para pensar el poder han sido muy estrechas. Dos modelos han predominado: los jurídicos, que sólo interrogan por lo que lo legitima, y los institucionales, que reducen el problema al Estado. Se hace necesario ampliar las dimensiones de una definición del poder con premisas tales como: el poder no es sólo una cuestión teórica sino algo constitutivo de nuestra experiencia; la relación entre racionalización y abusos del poder es evidente; no se trata de un proceso abstracto a la razón (“aburrido papel de racionalista o irracionalista” ), sino de análisis de racionalidades específicas, como la locura, la muerte, el derecho, la enfermedad, la sexualidad, etc..; analizar las formas de resistencia a los diferentes tipos de poder; promover nuevas formas de subjetividad distantes al tipo de individualismo que ha dominado los últimos siglos.
La tradición democrática del sujeto y del poder es urgente buscarla en Maquiavelo, Spinoza, Marx y Foucault, y la categoría central de esa herencia es la noción de “poder constituyente”. Por esto Negri sostiene: “El paradigma del poder constituyente es el de una fuerza que irrumpe, quebranta, interrumpe, desquicia todo equilibrio preexistente y toda posible continuidad. El poder constituyente está ligado a la idea de democracia como poder absoluto”. Y han sido muchos los intentos para su “domesticación” (“poder constituido”) en la historia moderna: constitucionalismo, la idea de soberanía, el sujeto adecuado como “nación”, “pueblo”, “derechos”, entre otras de las estrategias posibles.
Marx representa, para Negri, un punto crucial al lograr la intersección entre la crítica del poder y la crítica del trabajo. En su largo recorrido de la crítica, Marx logra en forma lenta y difícil llegar a construir en la noción y práctica del “comunismo”, la categoría de “poder constituyente”. En la noción de comunismo llega a sintetizar la tradición materialista, como definición de la democracia como expresión de la potencia y el poder.
Sin embargo, Negri complementa su teoría del poder constituyente exigiendo ir “más allá” de los límites de lo moderno. Y lo moderno posee como primer límite su temor a que la multitud pueda expresarse como subjetividad y como segundo límite, la neutralización de la multitud en lo político, a través de su separación de lo social.
Por eso necesitamos un socialismo –dice Negri– que vaya más allá de lo moderno, porque lo moderno es miedo a la multiplicidad y escisión de lo político y lo social. Y esa necesidad de ir “más allá” de lo moderno lo sustenta en el párrafo final de su conocida obra, así: “La constitución de la potencia es la experiencia misma de la liberación de la multitud. Es indiscutible que, de esta forma y con esta fuerza, el poder constituyente no pueda dejar de reaparecer; y que no pueda sino imponerse como hegemonía en el mundo de la vida es necesario. A nosotros nos toca acelerar esta potencia y, en el amor del tiempo, interpretar su necesidad”.
Quisiéramos terminar rindiéndole un homenaje a A. Sánchez Vásquez, quien ha sido para muchos de nosotros, importante orientador e inspirador en la historia del marxismo latinoamericano. Es de esos marxistas que saben que el vigor crítico de un pensamiento es saber dialogar con los objetores, y dialoga en los últimos años con la posmodernidad. Notas de ese diálogo han sido publicadas en un breve, pero insinuante ensayo, “Posmodernidad, posmodernismo y socialismo” (1993). En una conversación crítica y sincera con la posmodernidad, Sánchez Vásquez postula una interesante ubicación del pensamiento de Marx.
Marx de alguna manera es un pensador moderno, pero es un pensador moderno que tiene algunos atisbos radicalmente críticos de la modernidad, al proponer superar algunos elementos de una modernidad patógena. Un Marx mucho más radical que Habermas en esa crítica. “La visión marxiana de la modernidad es inseparable de la crítica a fondo de su forma burguesa”.
Hablaríamos de cuatro elementos: el universalismo, la idea de progreso, la historia teleológica hacia un único fin, y el productivismo. Y los acentos del profesor Sánchez Vásquez son los siguientes: Marx sigue siendo universalista. Es hijo de Kant, heredero de Hegel. Marx sigue siendo alguien que cree desesperanzada o esperanzadamente en el progreso, pero no en una cualquiera concepción del progreso, porque existen muy diversas vertientes de la idea de progreso: la versión escatológica cristiana del progreso, aquella que se origina en las ciencias naturales y en la tecnociencia, también la versión que se origina en la economía y la calidad de vida, pero existe otra alternativa que convierte en criterio la autonomía y autogestión de los ciudadanos libres. A esa es la que se arriesga el radicalismo de Marx.
“Marx no se desprende totalmente del lastre racionalista universal, progresista, teleológico y eurocéntrico del pensamiento burgués ilustrado”.
Marx nunca creyó en un socialismo o en el capitalismo productivista, en la producción que destruye o en la tecnociencia como único criterio de desarrollo social; nunca le apostó a una modernización sin modernidad. No podría conciliar con una visión neoliberal de la modernidad.
Consideramos, para terminar, y Sánchez Vásquez lo solicita al concluir su ensayo, que en Marx no hay una concepción teleológica unilineal de la historia. Contribuir a fundar, esclarecer y guiar la realización de ese proyecto de emancipación que, en las condiciones posmodernas, sigue siendo el socialismo –un socialismo si se quiere posmoderno– sólo puede hacerse en la medida en que la teoría de la realidad que hay que transformar y de las posibilidades y medios para transformarla, esté atenta a los latidos de esa realidad y se libere de las concepciones teleológicas, progresistas, productivas y eurocéntricas de la modernidad, que llegaron incluso a impregnar al pensamiento de Marx y que se han prolongado en nuestro tiempo.
Acompañado de dos afirmaciones de Marx en el Manifiesto Comunista, sería inútil persistir en esa unilinealidad teleológica. Dos breves alusiones en la última parte del capítulo II y la primera del capítulo I escriben Marx y Engels: “Surgirá una asociación en que el libre desenvolvimiento de cada uno será la condición del libre desenvolvimiento de toda la sociedad. Las comunidades, de alguna manera, y los individuos decidirán su destino histórico”; nada más ajeno a una posible interpretación determinista o teleológica de la historia.
Y aquella frase que ya casi todos conocemos de memoria: “La historia de toda la sociedad hasta nuestros días es la historia de la lucha de clases”. Advirtiéndose que el “hasta nuestros días” es necesariamente una frase condicional, podrá haber y existirán historias y destinos distintos. Y recordando la famosa nota de pie de página que le añade Engels a la nueva edición del Manifiesto Comunista, esa frase que también de alguna manera relativizada, es una parte de la historia, no toda la historia. Engels añade: “La historia escrita”. Por eso quien le añadió al marxismo una idea teleológica unilateral de la historia, no creo que haya sido Marx.
Bibliografía
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Blanchot, M., La risa de los dioses, Edit. Taurus, Madrid, 1976.
Derrida, J., Espectros de Marx, Edit. Trotta, España, 1995.
García Canclini, N., Culturas híbridas, Edit. Grijalbo, México, 1990.
Habermas, J., El discurso filosófico de la modernidad, Edit. Taurus, Madrid, 1995.
Lyotard, J. F., La posmodernidad (explicada a los niños), Edit. Gedisa, España, 1996.
Negri, A., El poder constituyente, Edic. Libertarias, España, 1994.
Negri, A. y F. Guattari, Las verdades nómadas, Edit. Iralka, Bilbao, 1996.
Sánchez Vázquez, A., “Posmodernidad, posmodernismo y socialismo”, en Revista Plural, No. 3, Año 1.
Vattimo, G., El fin de la modernidad, Edit. Gedisa, España, 1996.
Vega, R. (editor), Marx y el siglo XXI, Edic. Pensamiento Crítico, Bogotá, 1998.

The rise of Trump and the global right and other loose ends

The rise of Trump and the global right and other loose ends
May 31, 2017
1. In the last two decades of the 20th century, two seismic events occurred. First was the rise of the right in the U.S. and the ascendancy of neoliberalism across the capitalist world, which became the grease for the retreat, transformation, and taming of social democratic and liberal politics. The other was the sudden and unexpected collapse of the Soviet Union, which had been the mainstay of the communist movement and world socialism from its inception.
Looked at another way, the two main political currents of the working class movement – communism and social democracy – that challenged capitalist power to one degree or another in much of the world in the last century took a drubbing. It was a setback of the first order. Neither was down for the count, but historical initiative passed from their hands.
The winner in this contest was their common adversary — capitalism. And its cheerleaders took every opportunity to crow about its success. But its victory was short lived. Capitalism in its neoliberal form, resting on a turn to finance and unchecked financial and capital flows, the explosion of debt among investors and consumers alike, a punishing austerity and inequality, the dramatic expansion and spatial redistribution of global labor, and the atomization of the working class and other oppositional social constituencies, grew for sure.
But at the same time, its performance was sullied by its inability to recapture its old economic dynamism of earlier decades and spread its bounty to broad sections of wage and salary workers and other social constituencies – especially people of color and women.
This lackluster performance, however, turned into a catastrophic condition when a world-wide economic crisis struck in 2008 and shook the foundations of capitalism, while spreading hard times to people everywhere.
Not surprisingly, this massive implosion triggered a surge of mass anger and popular resistance, and undercut capitalism’s legitimacy worldwide. And into this breech stepped progressive and left people and organizations — old and new. But the right, already a dominant actor in U.S. politics and a growing presence elsewhere in the world, seized this moment as well, and actually with greater vigor than a left that was the fractured and less politically coherent.
Presenting itself as an outsider and defender of the nation and its “culture,” zealously employing xenophobic, racist, nationalistic, and even anti-capitalist rhetoric, and enjoying the financial and institutional support of a bevy of deep pocketed moneybags in finance, industry, and real estate, the right captured the imagination and shaped the thinking of millions, including sections of white workers.
Meanwhile, U.S. imperialism, free of its Soviet foe after a half century, paradoxically had a hard time exploiting its new advantage in the international arena. The overnight erasure of its global rival and the establishment of a military network that encircled the globe gave U.S. imperialism new latitude to maneuver. But that was quickly squandered in endless wars, beginning in Yugoslavia and then moving to Afghanistan, Iraq and elsewhere in the Middle East and horn of Africa.
In each bloodland, the projection of asymmetrical military power came with massive unintended consequences that even now show no sign of easing. If anything this display of force revealed the limits of the use of U.S. military power to shape the world according to U.S. interests in the 21st century.

Indeed, U.S, global power brokers still confront an at times (and now increasingly so) reluctant Europe, formidable regional competitors (Russia and Iran especially), and as it gazes across the Pacific, it sees a potential global peer and competitor in a rising China.

U.S. imperialism isn’t yet in a terminal crisis, to use the term of the great social theorist Giovanni Arrighi, but its hegemonic status on a global level, projecting out into the 21st century, is far less secure than some suggest. Moreover. It is in this significantly reconfigured national and global context that Trump’s candidacy and Electoral College victory — not to mention the rise of the right in Europe and elsewhere –is best understood.

2. Any accounting of successes in restraining Trump has to go beyond the seemingly obligatory invocation of the “Resistance Movement.” Give it its due for sure and find ways to expand its reach and depth too.
But an analysis should also include the positive role of the Democratic Party and the mass media, the rifts, even if small, in the GOP, and the discontent with Trump that is growing in elite circles in the state, courts, and economy — not to mention Trump’s breath-taking incompetence, indiscipline, out of control ego, and habit of putting his foot squarely in his mouth. In some ways, he is his worst enemy.
Which goes to prove once again that the process of social change is complicated, contradictory, and full of surprises and paradoxes. It doesn’t come, as much as we might wish, in pure and neat forms. Not one class — the working class — here and another class — the capitalist class — there. Not the people at one pole and the elites (and “establishment”) at the other. Not actors with impeccable credentials and unimpeachable aims on one side, while nothing but bad actors with scant possibility of a change of mind on the other.
In other words, if we are looking for simple and cut-and-dried explanations and schemes, we aren’t going to find any. And if we do, we would probably do ourselves (and others) a favor by digging a little deeper.
3. In an interesting article, Nate Silver writes that Trump’s high floor of support — thought by many to be set in stone — is eroding. According to Silver, his strongly approve numbers have fallen significantly, while those who strongly disapprove of Trump have tracked upward. This, Silver says, could turn into an “enthusiasm” advantage for the Democrats in next year’s elections.
“Trump,” Silver adds,” has always had his share of reluctant supporters, and their ranks have been growing as the number of strong supporters has decreased. If those reluctant Trump supporters shift to being reluctant opponents instead, he’ll be in a lot of trouble,3 with consequences ranging from a midterm wave against Republicans to an increased likelihood of impeachment.”
“So while there’s risk to Democrats in underestimating Trump’s resiliency, there’s an equal or perhaps greater risk,” Silver concludes, “to Republicans in thinking Trump’s immune from political gravity … If you look beneath the surface of Trump’s approval ratings, you find not hidden strength but greater weakness than the topline numbers imply.”
All this is music to my ears. Yours too, I’m sure. And I also hope that it will give new momentum to the far flung and varied coalition that opposes Trump.

Las ideas socialistas en Costa Rica, 1880-1930

Las ideas socialistas en Costa Rica, 1880-1930
Mario Oliva Medina*

Mario Oliva Medina
Las ideas socialistas en Costa Rica, 1880-1930
Revista iZQUIERDAS
Año 1, Número 2
ISSN 0718-5049

I
Creo no equivocarme al afirmar que en Costa Rica, al igual que en otros países de América Latina, han existido tres actitudes respecto a la historia del socialismo: desconocimiento, olvido y desprecio. No ha habido interés por esta problemática, y el silencio y el ocultamiento de estas ideas son normales en los libros oficiales de historia del país.

Promediando los años 60 del siglo XX, el filósofo Constantino Lascaris realizó algunos acercamientos al desarrollo de las ideas en Costa Rica. De ellas, abordó las del anarquismo y el marxismo (Lascaris 1965: 191-203-267-271). Más tarde (años 70), Luis Barahona, en su estudio sobre las ideas políticas en Costa Rica, analizó el anarquismo y el socialismo presentes en varios pensadores costarricenses. Dando impulso al género biográfico a la luz de esta preocupación, su tarea incluyó figuras intelectuales tales como Joaquín García Monge, Omar Dengo, Robert Brenes Mesen, José María Zeledón, Carme Lira, Carlos Luis Fallas, entre otros.

Sin embargo, más allá de estas iniciativas, en general los estudiosos nunca han dado importancia al impacto del socialismo en la historia del país, en especial para su historia cultural, de las mentalidades o de las ideas. Algo se ha avanzado, pero su estudio se retarda, sea desde una visión de conjunto, como desde ángulos específicos.

Ciertamente, no hay tampoco adelantos en aspectos teóricos y metodológicos; en fin, la historia del socialismo no es una materia que en Costa Rica tenga credenciales académicas. El vacío no se debe sólo a la falta de un ámbito universitario donde, lógicamente, debiera producirse reflexión histórica, sociológica, lingüística, filosófica, etc.; uno de los mayores obstáculos corresponde a la complejidad y vaivenes de una disciplina aún frágil en sus métodos y objetivos, de suerte tal que su construcción necesita de un cuerpo y un alma colectivos.

La reflexión acerca de las ideas socialistas en Costa Rica debe poner atención a su producción, circulación y apropiación; debe también analizar si las ideas socialistas calaron y arraigaron en ciertos sectores sociales, expresando, como apunta Jean Ehrard, sus propios matices, ambigüedades o contradicciones (Ehrard, 1977:184), pues toda idea en movimiento es siempre un problema.

Por su parte, Franco Ventura nos indica que no se trata sólo de describir matices o sensibilidades, sino problemas reales que existían en una sociedad dada, y ver en qué medida una idea ha sido utilizada para abordar esos problemas (Ventura, 1977:188).

II

A modo de propuesta entremos a analizar la relación que hubo entre ideas socialistas y clases trabajadoras en el período 1880-1930. Una primera distorsión que debe ser corregida es la de crear, sin fundamento empírico o por mero arte de magia, pretendidas corrientes socialistas abstraídas de su contexto. Es también necesario renunciar a las etiquetas que buscan obviar la complejidad de lo que cubren, pretendiendo sustituir el análisis histórico con afirmaciones sumarias. Un acercamiento al socialismo de los años 1880-1930 exige, sobre todo, estudiar el arraigo de esas ideas en las realidades colectivas costarricenses o, más concretamente, en la mentalidad colectiva del pueblo trabajador.

En una sociedad no existe un único receptor o público medio, sino un abanico de públicos, a los que el historiador y estudioso de las ideas deben poner atención. Las vías de penetración y circulación del socialismo en Costa Rica tomaron variados rumbos. A finales de los años ochenta del siglo XIX, marca el momento de expansión de las organizaciones de trabajadores en su forma de sociedades mutualistas, cooperativas, sociedades de artesanos y clubes políticos.

Uno de los medios de trasmisión de las ideas asociacionistas fue la prensa, instancia donde llegaron a publicarse libros enteros y variados artículos sobre al tema. Otro elemento multiplicador de las ideas socialistas fue el aporte hecho por intelectuales extranjeros: Juan Fernández Ferraz, Dr. Rafael Machado, Eloy Truque. Ellos conocían el movimiento obrero de sus países y de otras latitudes, circunstancia que les permitió realizar campañas de divulgación de las experiencias y de las ideas organizativas internacionales entre los trabajadores urbanos costarricenses. Además, por medio de la prensa y de numerosas conferencias, ayudaron a redactar estatutos de no pocas organizaciones de trabajadores, llegando incluso a participar en varias de ellas.

La formación de clubes políticos con una amplia participación de artesanos y obreros serviría de apoyo a los candidatos oficialistas, o a cualquiera que
pretendiera llegar al poder. A su vez, estos se constituyeron en centros donde los trabajadores se informaron de las ideas democráticas, republicanas, socialistas utópicas, etc., llegando a adquirir nociones sobre sus derechos políticos.

Otra forma de difusión e instrucción de estas ideas, fue la iniciada por los monteristas (seguidores de Félix Arcadio Montero) en la década de los noventa en el siglo citado. Visitando continuamente los talleres de trabajo, discutían y propagaban sus ideas.

En esas prédicas, ha señalado De la Cruz, llamaban a los “chaquetas” a organizarse contra el “Olimpo”, forma despreciativa con que referían a los de arriba, es decir, a los gobernantes o ricos oligarcas.

A fines de 1901, la Liga de Obreros se propuso realizar la lectura en voz alta de periódicos nacionales y extranjeros. Así, por ejemplo, una invitación publicada en La Aurora, en Diciembre de 1904, apuntaba que “esta noche, de 7 a 8 p.m. se realizará la lectura en común entre los socios del club de instrucción y recreo de desamparados. La obra que se ha escogido para iniciar esta lectura en voz alta y comentada es La Guerra y Paz, de León Tolstoi”. La invitación se hacía al público de ambos sexos que “desearan oír la lectura”.

La lectura en voz alta fue una práctica común no solo en los clubes políticos o lugares de reunión de trabajadores. Entrado el siglo veinte, también lo fue en los talleres. Esta peculiar institución cultural pareció tener una larga y fructífera vida.

Carlos Luis Fallas (Calufa) rememora en su narrativa la práctica de la lectura de periódicos, folletos y libros entre trabajadores: primero, entre los trabajadores urbanos; luego, en los años treinta, esta práctica fue extendida a las zonas agrícolas de amplia concentración obrera, como las plantaciones bananeras, donde, luego de la jornada laboral, se reunían trabajadores a escuchar la lectura del Manifiesto Comunista y del periódico Trabajo, órgano del Partido Comunista. Indudablemente, así se sorteaba el obstáculo del analfabetismo entre el pueblo trabajador.

En todo este período (1880-1930), el movimiento obrero enfatizó la preparación intelectual de los trabajadores; fomentó la creación de escuelas nocturnas, de centros de tertulia y bibliotecas. Transitando el siglo XX, esta red educativa estaba extendida por toda la geografía nacional, completándose en la segunda mitad de la década del veinte con la fundación de la Universidad Popular y Obrera. En ella, prestigiosos intelectuales, conferencistas y propagandistas –humanistas y socialistas- dedicaron parte de su tiempo a la formación de los trabajadores.

En 1889 habían aparecido las primeras bibliotecas populares formadas por los trabajadores, más concretamente, por la Sociedad de Artesanos de San José, y por la Sociedad de Artes y oficios. Estas bibliotecas ofrecían revistas y periódicos nacionales y extranjeros, así con una selecta colección de libros. La biblioteca fundada por la Sociedad de Artesanos logró acumular más de cuatrocientos títulos, además de periódicos y revistas. Una particularidad de las bibliotecas fue la casi total ausencia de obras socialistas, anarquistas o marxistas (véase cuadro No.1).

Del total de libros, sólo seis obras eran de temas socialistas; entre ellas puede destacarse la obra de Fernando Garrido Historia de las asociaciones obreras en Europa, que describe el nacimiento, infancia y madurez del movimiento obrero en el viejo continente. Su influencia fue muy importante para la difusión del socialismo de Cabet, Fourier y Owen. Probablemente, la limitada bibliografía socialista de la mencionada biblioteca no fue algo casual y restringido a ese centro.

Dos hechos aclaran mejor el sentido de nuestra afirmación: al revisar la existencia de libros de la biblioteca de la Universidad de San Tomás (1880), puede constatarse un panorama desolador en cuanto a obras socialistas; el único título que registra el catálogo es Ideas de la revolución en el siglo XIX, de Proudhon y Pelletan. En segundo lugar, es sintomática la pobreza que se desprende del estudio de los catálogos de la Librería Española (o Librería Lines) que, con toda seguridad, fue la más importante de Costa Rica en el siglo XIX.

Los antecedentes señalan que dispuso de escasos títulos socialistas y que,
después de 1896, no incorporó ningún título nuevo debido, en parte, a la situación cambiaría que se presentó al comenzar el nuevo siglo. Únicamente es posible detectar la importación de algunas obras de anarquistas importantes, como Kropotkin y Bakunin.

Ciertamente, la circulación de literatura socialista fue escasa en el siglo XIX
costarricense; pero tampoco podemos perder de vista que los artesanos y obreros podía tener contacto con ella por medio de la lectura de obras como las mencionadas. Por medios orales, pero también a través de la prensa exterior, pudieron conocer ideas socialistas que reprodujeron en sus propios periódicos, entrando en contacto con movimientos obreros más avanzados de Europa y América. Otra manera por la que se propagaron ideas socialistas, fue por medio de las novelas de Víctor Hugo, Eugenio Sué, Honorato de Balzac o Walter Scott, a las cuales se les unió la novela clásica rusa de Máximo Gorki, Dostoyevski o León Tolstoi, autores que atrajeron por décadas a los lectores, entre ellos, a los trabajadores urbanos.

En pleno apogeo del movimiento obrero-artesanal, un colaborador del periódico de los trabajadores La Aurora Social, quién había leído algunas novelas de Eugenio Sué, gracias a lo cual –exponía en abril de 1913- pudo tener mejor percepción de la escena social costarricense, escribió:
“Se nota con verdadero asombro la prostitución casi infantil que existe en esta capital (…) Ver a un imberbe, a un joven colegial chupar un cigarrillo con todo deleite, apurar una copa de licor o echárselas de bohemio en sus distracciones nocturnas, no es cosa de los famosos trasnochadores de París que nos pinta Eugenio Sué, sino que se nos presenta en la actualidad con funestos caracteres de una realidad palpable”.

Y es que esta novela se caracterizó por tratar los temas más variados convirtiéndose en una forma de enseñar historia, sociología, filosofía y moral. Muchos temas, como el derecho de asociación de los obreros, el trabajado de los niños, la pauperización provocada por la industrialización, la rehabilitación de delincuentes y tantos otros, fueron conocidos por medio de la novela.

Otro modo de extender la literatura de denuncia social, se dio por medio del encuadre en la parte superior de los periódicos obreros -Hoja Obrera, 1909-1914; La Aurora Social 1911-1914; La Unión, 1916- de algunas máximas de los escritores preferidos, entre ellos, Víctor Hugo, Eugenio Sué, Máximo Gorki y León Tolstoi, además de la reproducción de fragmentos de sus creaciones.

Otro multiplicador de relevancia en la expansión de esta literatura fue el cine. Novelas en su versión cinematográfica eran vistas por miles de personas. Una crónica de La información, de diciembre de 1916, señalaba: “El sábado 30 se estrena en el teatro Peralta de Grecia, la grandiosa obra de Víctor Hugo Los Miserables”. La película había batido récord en San José, donde varios teatros la presentaron por 32 noches seguidas. Parecida aceptación podían tener obras consideradas en aquellos años como inmortales, como por ejemplo, Germinal, de Emilio Zolá.

Las organizaciones de trabajadores no perdían la oportunidad de presentar entre sus asociados y allegados esas obras. En 1920, con ocasión del Primero de Mayo, se organizaron tres actos y en dos de ellos se incluyó la presentación de la película Germinal. El 30 de abril de ese año, la Sociedad de Ebanistas y Carpinteros (y, por lo menos, diez organizaciones más) proyectaron a las 9 p.m. en el Parque Morazán, la cinta mencionada. Por su parte, la Sociedad de Panaderos y la Confederación General de Trabajadores, en local de esta última, lo hicieron el día 1 de mayo por la noche.

Otro punto importante, es el de la peligrosidad de las ideas socialistas para ciertos sectores de la sociedad, lo que llevaba a ejercer vigilancia y censura. Los mecanismos de control constituyen un hecho de primera magnitud y su conocimiento resulta esencial para el entendimiento del pasado cultural. Esto lleva a plantearse hasta qué punto fue eficaz el control y si logró cohibir la difusión del ideario socialista, pues variadísimas fueron las vías que desarrollaron los trabajadores para que estas ideas pudiesen circular.

Uno de los opositores más frontales del socialismo fue la Iglesia Católica. Lo que puede considerarse como la opinión oficial sobre el tema, apareció en La Unión Católica del 9 de noviembre de 1890. Allí se enjuiciaron como obras calumniosas, mentirosas e inmorales las producciones literarias de Alejandro Dumas, Eugenio Sué, Flammarión y algunas obras de Víctor Hugo, entre otras. También la Iglesia buscó que los libreros no vendieran libros de estos autores, como una forma de prohibir su difusión.

A fines de los años 20 del siglo pasado, grupos católicos protagonizaron actos violentos en contra de la literatura socialista. El Correo Nacional, de orientación católica, informaba, en mayo de 1927, sobre una pesquisa de “libros malos” por parte de la Liga de Acción Social integrada por damas católicas, quienes habían desplegado, entre abril y mayo de ese año, una amplia actividad que incluía el boicot a ciertas librerías. La señora Rosa Quiroz, secretaria del citado club, manifestaba con orgullo “…grande ha sido la cosecha de libros malos (…) van marchando camino al
fuego”.

Entre las obras decomisadas por la Liga de Señoras, destacaban Los Miserables de Víctor Hugo, novela que según el Informe presentado por el caso, falsea el principio de autoridad y era una epopeya del socialismo. Otra novela de Hugo prohibida fue, Nuestra Señora de Paris. Honorato de Balzac también fue objeto de la censura, sobre todo La Piel de Zapa; Memorias de dos jóvenes recién casados y otras de ese estilo. Eugenio Sué aumentaba la lista de los proscritos: el Informe estimó sus obras como “perversas”, sobre todo Los Misterios de París, El Judío Errante, Los hijos del pueblo, Los siete pecados capitales y Martín el Expósito.

Ya en 1901 se había prohibido la literatura anarquista. En los años treinta, por orden del Ministro de Gobernación, se decomisaron libros, revistas y periódicos catalogados de comunistas. Sin embargo, ninguno, de estos ejercicios de controles ideológicos evitó la multiplicación del ideario socialista.

La relevancia de estos autores no solo puede apreciarse en el decomiso de sus obras, sino, como se ha señalado, porque ayudó a cierto sector de opinión, formado por intelectuales, artesanos y obreros cultos, a elaborar la crítica de las instituciones. No en vano sus obras tenían el conocimiento de las ideas reformadas y de avanzada de Europa. Fue tanto el prestigio de estos autores que existieron organizaciones que llevaron sus nombres, como el Club Cultural Víctor Hugo, de San José, en los años veinte.

A esta veta de novelas europeas se unieron, como ya lo mencionáramos, escritores rusos como Fedor Dostoyoevski, León Tolstoi y Máximo Gorki, los que atrajeron a decenas de lectores. Carlos Jinesta, en su brillante opúsculo relativo a Omar Dengo, al referirse a los primeros años del siglo veinte escribe: “se divulgaban los libros de León Tolstoi; se difundían las prosas de Ernesto Renán, y una juventud ansiosa de cultura, ofició bajo las tiendas tolstianas y renianas”.

La propagación de estas obras a principios del siglo XX fue ayudada por la aparición de varias librerías como la Lehmann o Falcó la Borrasé que, junto a la librería Española, nutrieron la demanda de los lectores.

En relación con las librerías y al tipo de libros sujetos a censura, El Orden Social de 1 de septiembre de 1901, se pronunciaba:
“en primer lugar, las señoritas librerías se han encargado de inundarnos con obras, novelas, escritos anarquistas o con sabor a esa conserva. De Máximo Gorki, Tolstoi, son obritas que abundan y cuestan poquita plata para que estén al alcance de todos y a ciencia y paciencia de las autoridades y de la policía que, así se preparan, cariñosamente, la soga para su pescuezo…”.

Las obras y artículos periodísticos de los autores rusos permitieron no solo conocer las condiciones de vida de ese pueblo, sino también sus luchas. Además, sus novelas tenían otra cosa que decir a nuestros intelectuales: daban cuenta del compromiso con la suerte de su gente, con sus tragedias y esperanzas.

La influencia de estos autores fue significativa en el movimiento obrero-artesanal costarricense: de ellos se desprendieron corrientes antiautoritarias, pacifistas y anticlericales, entre otras. Junto a los primeros escritores, estos últimos favorecieron y ayudaron a la crítica de las instituciones y de la injusticia social. En 1910 un obrero se refirió al acaparamiento de predios por parte de compañías y de particulares, y como solución planteó una justa distribución de las tierras, idea que, según él, sustentaba Tolstoi.

A comienzos del siglo XX ya fueron frecuentes las manifestaciones de descontento provocadas, en gran parte, por el rápido deterioro de los salarios y de las condiciones de vida de los trabajadores. Así, por ejemplo, la vivienda fue uno de los más serios problemas que afrontaban los artesanos y los nuevos trabajadores de la ciudad. En Hoja Obrera encontramos un artículo de un observador perspicaz en tono y lenguaje –quien, parece, había leído a uno de los grandes novelistas aquí citados- que nos dice:
“Nadie ignora que los tales chinchorros (lugar donde se amontonaba el proletariado) son verdaderos incubadores de los gérmenes de las enfermedades que afligen y diezman a la pobrería; da tristeza visitar esos antros en donde se presentan a los ojos del visitante, niños famélicos y con harapos de vestidos; mujeres flacas que abren los ojos con espanto, y
jóvenes anémicos que llevan en su rostro retratado el dolor; el desaliento de los desgraciados de Máximo Gorki”.
Hemos hecho esta larga cita, en gran parte, por su estilo vivaz y su bella prosa. Ese mismo columnista sostenía que las reglas de higiene entre los pobres eran
impracticables por el excesivo precio de los alquileres, la carestía de los alimentos de primera necesidad, el alto precio de las ropas, la escasez de trabajo y lo reducido del salario; y concluía que aquellos eran males endémicos entre los costarricenses.

En 1910, al morir el escritor ruso León Tolstoi, la prensa nacional y las revistas culturales y literarias, llenaron sus páginas con artículos alusivos a ese
acontecimiento de lo que se deduce el conocimiento que tenían de este autor. Muchos lo reconocían como el gran inspirador de sus ideas. Hoja Obrera publicó en la ocasión algunos artículos de artesanos y obreros. Uno de ellos, Arístides Rodríguez – conmovido por la muerte del que calificaba como gran anarquista- trató los diferentes tópicos explorados por Tolstoi en sus novelas: la guerra, el patriotismo, la religión, la propiedad, el trabajo, el Estado.

Mientras, un barbero, de nombre Octavio, añadía: “Tolstoi, con su pluma sentimental pintó los dolores de los humanos; con su pluma pintó paz y amor; con su pluma rebelde anatemizó a los poderes constituidos”. Montero había leído, según propia confesión, muchas de las obras del escritor ruso, como Cuentos para niños, Placeres crueles, Placeres viciosos, y Resurrección.

Las obras de todos estos escritores, de hondo contenido realista, sirvieron, más que todos los textos teóricos de por sí, escasos en el medio para difundir ideas socialistas. Es por ello que Carlos Rama, al tratar el tema del surgimiento de las ideas del socialismo latinoamericano, nos indica que “deben incluirse en la corriente del primer socialismo a autores de ficción literaria”. Y concluye: “que si no fueron creadores en el campo de la teoría, multiplicaron, por su adhesión a las nuevas ideas, sus afectos a través de un público extenso y no politizado”. (Rama, 1980: 53)

En efecto, muchos de los autores mencionados no fueron rigurosamente socialistas, pero su vital prosa de denuncia social, fue vista con simpatía por intelectuales y trabajadores de las décadas de finales del XIX y comienzos del XX.

Bibliografía
Luis Barahona Las ideas políticas en Costa Rica. Departamento de publicaciones MEP. 1977
Vladimir de la Cruz Los Mártires de Chicago. Editorial Costa Rica, San José, 1985.
Jean Ehrard. “Historia de las ideas e historia social en Francia en el siglo XVIII: Reflexiones de método”, en Niveles de cultura y grupos sociales, Editorial Siglo XXI, México, 1977
Arnoldo Ferreto Vida Militante, Editorial Presbere, San José, 1984
Constantino Láscaris Desarrollo de las ideas filosóficas en Costa Rica, Editorial Costa Rica, San José. 1965
Carlos Rama Los ideales socialistas en el siglo XXI, Editorial LAIA, Barcelona, 1976.

El mandato sacrificial y la cultura política del comunismo chileno

El mandato sacrificial y la cultura política del comunismo chileno*
Manuel Loyola**
El golpe de Estado del 73 no sólo trajo el quiebre de miles de vidas, sino también el desbarajuste ideológico del conjunto de las fuerzas de la izquierda chilena. Todas estas, cual más cual menos, comenzaron diversos procesos de reflexión y replanteamientos en empresas que buscaban dar cuenta no solo del pasado y las causas de la derrota, sino también de las opciones futuras; no solo de lo hecho, sino por sobre todo de lo no hecho, de los errores, carencias y de cómo podría ser nuevamente viable una alternativa democrática y de cómo, en tal tránsito, podía engancharse una solución socialista para Chile, si es que aun ella pudiera tener vigencia teórica.
Como se sabe, una de estas vertientes de renovación fue la que expresó el Partido Comunista de Chile, en especial con lo que fue conocido como la elaboración y aplicación de la Política de la Rebelión Popular de Masas, a partir de 1980. Si esta renovación fue un cambio en la línea o de la línea política, en verdad es un tema que interesa poco a nuestros fines: lo que sí nos importa es que ella fue la oportunidad de ver reiterado el signo que estimo central de la cultura política de este Partido, esto es, el signo del mandato sacrificia1l, ahora, en una versión bastante más nítida y exigente de lo que había sido en el pasado de la organización.
Es muy probable que, del conjunto de la izquierda del país, haya sido en el PCCh donde con mayor intensidad y dramatismo se hayan experimentado los hechos y consecuencias del golpe y la necesidad de adoptar ostensiblemente nuevos métodos de lucha, no obstante las discrepancias y tensiones que esto produjo a nivel de su dirigencia superior. 1 La noción de mandato que aquí empleamos corresponde a la usual de orden o precepto que un superior cualquiera da a quienes tienen una posición inferior a él. En la tradición comunista, si bien se contemplan mecanismos de consulta que harían del mandato la expresión consensuada de un colectivo (la llamada “democracia partidaria”), la permanente disposición a que los términos de los acuerdos se haga a base de las propuestas ideopolíticas resueltas en instancias de dirección superiores, hacen que este mandato, en los hechos, se atenga más a esta definición que a lo que acuerde una figura de soberano (asamblea, pueblo, colectivo deliberante). Este aspecto es esencialmente difícil de realizar por una organización que por sus fines transformadores, es decir, de antagonismo con la condiciones de su presente – como lo es la situación del PC – tiende a ocupar métodos discrecionales antes que deliberativos, los que se hayan bastante acotados. Sobre esto, tengamos sólo presente que la fórmula del “centralismo democrático”, por lo general ha dejado sin opciones de tratamiento a las posiciones de minoría, enconándose no pocas frustraciones. Por último, un dato crucial y que aquí no abordaremos es el de la correspondencia prácticamente biunívoca que existe entre este mandato de la cultura comunista con el de la obediencia sacrificial, tal como ha sido señalado por algunos militantes actualmente activos.
Que así se haya expresado (que en el PCCh se haya experimentado devastadoramente el golpe) seguramente estuvo ligado a un dato esencial y de carácter eminentemente subjetivo: la enorme valoración que respecto de sí mismo se tenía (y aun se tiene) como tal vez la fuerza política que más había hecho – al menos desde los años 50 en adelante, en un comportamiento intachable y generoso – para labrar y sostener el proyecto de gobernabilidad de la izquierda chilena que, finalmente, cuajó en el gobierno de la Unidad Popular. Esto, siendo motivo de enorme orgullo para su militancia y dirigencia, no solo era resaltado respecto de las demás organizaciones de la izquierda, sino que, por sobre todo, era un orgullo que jugaba a favor de una cierta razón histórica que, aunque aparezca paradojal en sus términos, era tan inmanente como trascendente, tal como apreciaremos luego. De este modo, el mandato sacrificial que había dado frutos tan importantes como un gobierno popular en 1970, hechas las correcciones pertinentes debía ahora, diez años más tarde, retomar sus aspiraciones de triunfo, animando a la militancia con nuevos saberes y nuevas prácticas.
Como lo dijéramos, ante el panorama de destrucción y muerte que significó la irrupción y permanencia de la Dictadura, la perplejidad comunista fue total: “Qué vuelta a la nada, qué fin”, como dijera en una de sus canciones Pablo Milanés, y era cierto: ¿qué podía rescatarse de aquello, de todo ese pasado, de esa promesa, de lo que tanto había costado y que ahora se perdía irremediablemente?: poco, o demasiado poco. Costaba tanto asimilar lo ocurrido: la cotidianidad había sucumbido de un día para otro y no se tenía repuesto, todo era precario, inseguro, no había mucho de donde sostenerse ya que no solo la rutina era otra, sino que también la política era muy distinta: ahora era la fuerza persecutoria y criminal desembozada, sin miramientos, sin piedad, sin nada parecido a lo razonable: un trauma, una pesadilla, un drama que solo podía enfrentarse oponiéndole la fortaleza juramentada, el sacrificio y la entrega sincera no solo para capear el temporal represivo, sino, mejor aún, para terminar con el terror y dar paso a un gobierno, sino socialista, al menos lo más cercano posible a él. Así, todo estaba o debía estar unido en un solo movimiento con todas las soluciones de continuidad requeridas por la demanda de la lucha: la política se hizo fuerza o, mejor dicho, acumulación de fuerzas – estoy hablado del sentir militante aunque en la dirigencia tampoco fue tan distinto – pues, soportado el chaparrón de los años iníciales, la disposición era solo para la lucha, y el léxico de entonces lo acusó: ser militante pasó a ser una condición genérica, lo primordial ahora era ser combatiente. Es aquí donde se insertó o cobró pleno auge el sello subjetivo que marcó e impactó a tantos y a tantas: el sello del mandato sacrificial antifascista.
Pero si, de un lado, esta nueva versión del mandato tuvo mucho de restauración de lo se consideraba era la identidad, de llamado a la fidelidad y de convocatoria al heroísmo, de otra, no dejó de nutrirse también de innumerables críticas a lo que había sido la conducción previa, aquella que había protagonizado la derrota del 73: ahora sí y de una vez por todas, había que curarse de derechismo, de reformismo, de ilusión burguesa, de aquel pragmatismo que había llegado a desconocedor las leyes de la historia y de la revolución. En fin, segunda mitad de los años 70 y lentamente fue creciendo entre la militancia que yo conocí, más nueva que vieja, la idea de que si estábamos en el jota y aspirábamos a mantenernos en el partido era porque debíamos hacer lo que correspondía, algo que antes no se había hecho por irresponsabilidad y acomodo: la revolución o algo parecido a ella, y como de la Dictadura no esperábamos nada, esta revolución seguramente debía ser armada, por tanto, había que prepararse.

¿Qué pensaba o sentía el joven militante comunista de la segunda mitad de los 70 sobre esta nueva situación que se imponía?, y nos preguntamos por el militante y no por el partido en un sentido institucional donde, por lo común, a este tipo de interrogantes se le responde con el examen de los documentos de los equipos de dirección.
No disponemos aun de antecedentes amplios, diversos y sistematizados, sin embargo, de los que he logrado indagar (por lo común, expresiones verbales de la memoria de varios militantes y ex militantes), es posible sugerir algunas pistas que, puestas en contacto, nos permitirían disponer de algo parecido a lo que Raymond Williams llamó estructuras de sentimiento2.
Veamos algunos datos de los entrevistados3:
2 Los significados y valores tal como son vividos por una generación determinada en un período definido, constituyen para Williams una estructura de sentimiento: “Las estructuras de sentimiento no deberían ser ignoradas en el análisis histórico, en la medida en que, aun que representen formas emergentes o preemergentes, no necesitarían de una definición, una clasificación o una racionalización para ejercer presiones concretas y establecer límites efectivos sobre la experiencia y la acción”, ver Diego Chein: “Posiciones epistemológicas en las teorías social, cultural y literaria de Raymond Williams”, en http://www.sinc.sunysb.edu/Publish/hiper/num4/artic/chein.htm
3 Datos provenientes de entrevistas a 14 militantes de las JJCC, activos entre mediados de los 70 y mediados de los 80 (10 hombres y tres mujeres). Al preguntárseles por los medios que utilizaban para formarse políticamente, analizar y disponer de cierta opinión sobre la situación chilena y sus expectativas de mediano o largo plazo, mencionan una serie de medios o recursos a que echaban mano no sin cierta dificultad en la obtención de algunos de ellos.
En general todos acudían a recursos más inmediatos como eran escuchar noticieros de radios opositoras: radios Balmaceda y Chilena, que copan las preferencias hasta comienzos de los años 80 (especialmente la Radio Chilena, con los programas de Miguel Davagnino y Johnny Smith, por lo general de música folclórica de la NCCH y del Canto Nuevo); la lectura, más ocasional que regular, de revistas como HOY, APSI y Análisis; con más frecuencia leían el boletín de la V. de la Solidaridad. Con los primeros años de los 80, la lectura del Fortín Mapocho se tornó general para casi todos los entrevistados. Son escasas las alusiones a otros medios de acceso público, como podía ser el cine, donde muy pocos de mis entrevistados dicen haber asistido; los que sí lo hacía preferían el cine arte: Toesca, Santa Lucía y Normandie.

Al preguntarles sobre el arco de informaciones que de alguna manera les permitía fundamentar su decisión, es decir, una interrogante por los “consumos políticos” más expresamente militantes sobresale, en primer lugar, la sintonía de radio Moscú, la que era tenida como una muy estimable fuente de información y de obtención de orientación política, lo que llevaba a que fuese tarea permanente escucharla y comentar algo de sus noticias en las reuniones de células o bases. Además, las emisiones de esta radio significaba una suerte de tónico anímico para varios de mis entrevistados, una forma de sentirse acompañados y respaldados y, sin duda, las voces de sus locutores/as, sus espacios de comentarios (en particular, los de Volodia Teitelboim) y las músicas incidentales, aun los llenan de emoción al momento de rememorarlas.

Luego de la radio Moscú, otros medios requeridos fueron ciertas “lecturas clandestinas” que, en su conjunto, daban cuenta de insumos “preparatorios”, “aleccionadores” o “motivadores”. Así, consultados por las lecturas que más demanda tenían por su aporte formativo en la experiencia militante, aparecen citados títulos como La Madre, de Gorki; Así se templó el acero, de Nikolai Ostrovki; la novela del héroe ruso Chapáev, de Dimitri Furmánov, y, por sobre todo, el relato Reportaje al pie del patíbulo, del checo Julius Fusik es decir, novelas de vidas ejemplares y heroicas, de abnegación y entrega hasta el martirio, al igual que La Montaña es algo más que una inmensa estepa verde, del sandinista Omar Cabezas, también referida por varios de mis entrevistados (mujeres).

En segundo lugar, dentro estas lecturas formativas o propedéuticas, estaban algunos de los clásicos del marxismo-leninismo cuyos contenidos tuviesen más cercanía con las perspectivas de la lucha nacional, como lo eran: El Estado y la Revolución; Qué hacer y Escritos militares, de Lenin; El Manifiesto Comunista o La Comuna de París, de Marx y Engels; la Guerra de guerrillas, del Ché; La Insurrección armada, de A. Neuberg. También hubo menciones a novelas del espionaje soviético de la 2GM, como son La orquesta roja, o Dora informa.

A esta relación de “consumos culturales” y, más aun, del tipo de “recepción” y “representación” (Roger Chartier) que tales consumos importaron entre nuestros militantes consultados, se unió, con mayor o menor anticipación, toda la carga emocional que ya mencionamos sobre el golpe y sus dramáticas repercusiones para el imaginario partidario, suscitándose la estructura de sentimientos que hizo enteramente propicias las condiciones para el advenimiento del mandato sacrificial de la PRPM. Hasta aquí he hecho mención del mandato sacrificial como eje nocional que nos permite articular el relato, pero su valor no es solo de recurso literario general sino también, de categoría historiográfica para el estudio de la cultura política comunista. Aboquémonos a la explicación de esta categoría que deriva de una teorización previa. Nuestro planteamiento, esquemáticamente expuesto, es el siguiente: recurriendo a algunas categorías y nociones del pensamiento o filosofía crítica latinoamericana, diremos que la cultura política comunista en Chile, como toda cultura política históricamente consistente, ha dimanado de un núcleo mítico-ético4 que, de acuerdo a este par de términos, dispone tanto de una visión de mundo como de un anhelo de mundo.

La visión de mundo es una teodicea, una forma de dar cuenta del universo natural e histórico, de sus causas y fines (una filosofía de la naturaleza y de la historia); en tanto que el anhelo de mundo representa, básicamente, un a priori antropológico (A.A. Roig), una imagen del hombre como proyecto de realización (es decir, una filosofía política o social).

No obstante sus similitudes en el plano eminentemente teleológico (nociones que se rigen por fines), ambos no comparten una igualdad esencial u ontológica: si el primero es inmanente, esto es, que mantiene inalterada su condición pues responde más al campo dogmático que al histórico, el segundo es trascendente, esto es, que su naturaleza es inherente al despliegue entre las cosas o datos de la historia.
Ahora bien, que ambos factores se conformen en núcleo, es decir, se relacionen y se fundan no obstante esta relación no es necesariamente una fatalidad ( hay muchos casos en que este encuentro no se produce o se hace de un modo históricamente contradictorio), es porque entre ambos se ha llevado a cabo lo que M. Löwy ha llamado la afinidad electiva, a propósito del estudio que hiciera sobre el encuentro entre mesianismo judío y el utopismo socialista en personalidades intelectuales judeomarxistas de la Europa Central de las primeras décadas del siglo XX5.
Preguntémonos en este momento, ¿ Cuál ha sido el resultado más relevante de la afinidad electiva que se ha dado entre los componentes del núcleo cultural que nos ocupa?.

4 Tomamos la referencia de la filósofa argentina Dina Picotti. Sostiene que la noción de núcleo mítico-ético se refiere, en el ámbito de la filosofía de la cultura y de las ciencias humanas, a la concepción básica de la realidad y de la propia identidad que va configurando un pueblo como sujeto histórico y que se va relatando a través del lenguaje simbólico de los mitos. Se habla de “núcleo” por cuanto se trata de creencias y concepciones fundamentales desde las que se articula su lenguaje y su cultura; de “mítico”, dado que se juega en el ámbito originario del simbólico del mito, que guarda religación con la vida y con la totalidad; y de “ético”, por corresponder al nosotros comunitario el que configura el lenguaje y la cultura en la interrelación (ética) de recíproco reconocimiento del yo-tu-él. Véase de la autora, la voz “núcleo ético-mítico”, en Ricardo Salas (Coordinador), Pensamiento Crítico Latinoamericano. Conceptos Fundamentales, Ediciones UCSH, Santiago, Vol. 2, pp. 707-715
5 Dice Löwy: “Designamos por “afinidad electiva” un tipo muy particular de relación dialéctica que se establece entre dos configuraciones sociales o culturales, que no es reducible a la determinación causal directa o a la “influencia” en sentido tradicional. Se trata, a partir de una cierta analogía estructural, de un movimiento de convergencia, de atracción recíproca, de confluencia activa, de combinación capaz de llegar a la fusión” Michel Löwy Redención y Utopía. El judaísmo libertario en Europa Central, El Cielo por Asalto, Bs. Aires, 1997, p.9
Respondiendo a una consecuencia recurrente a este tipo de fenómenos, el resultado ha sido la materialización de lo que hemos llamado el mandato sacrificial, esto es, la generación, imposición y asunción al interior de la organización y su militancia, de objetivos sobredeterminates, a los que se debe servir, aportar y honrar de modo irrestricto, pues en ello se juega, por lo común, las condiciones de la lealtad o la traición a la causa, con un peso de sanción tan enorme en el casos de “fallas” o “debilidades” que, en numerosas oportunidades, tales “flaquezas” son padecidas por la militancia con todo el dolor o la vergüenza de la culpa. A mayor abundamiento, podemos incluso agregar que la nominación del mandato sacrificial en cuanto a su carácter rector de la política y actuaciones comunistas, radica en las características prometeicas o anticipatorias de futuro que el mismo provee en virtud de las estructuras ideáticas que lo fundamentan: idea de mundo e idea de hombre, de modo que las prácticas partidarias y militantes que le han dado vida, han estado completamente supeditadas a las demandas permanentes y emergentes definidas como los desafíos y tareas necesarias para modificar o terminar con los obstáculos que han impedido la realización de las promesas. En este sentido, este mandato ha resultado ser un dictado refractario o muy poco dado a todo quehacer o inquietud militante que, en materias orgánicas, intelectuales o creativas, no se perciban, por parte de quienes administran y custodian el mandato, como funcional o contribuyente a los objetivos prometeicos que, como se ha anunciado, están en buena medida ya definidos para el ejercicio militante. Habrán, como en todo orden de cosas, excepciones a esta regla, pero sólo son eso, alteraciones que no alcanzarán para desmentir el sentido general del modo de ser comunista. Esta impronta ha tenido consecuencias encontradas en la vida partidaria: de una parte, le ha granjeado al PC una imagen y hasta un prestigio público e interno de organización disciplinada, institucionalizada y seria, mientras que de otra, le ha significado también los costos de diversos quiebres, aislamientos y empobrecimientos. Llegado a este punto y de manera que nuestra tarea no se limite a una mera descripción de la cultura militante comunista, podemos preguntarnos ¿ es posible que el mandato sacrificial disponga de nuevos elementos racionales que le permitan contar con mayor flexibilidad procurando que los encierros ideológicos, si bien no podrían desaparecer, al menos se atenúen y no dañen de manera irreversible la adhesión militante y la actuación pública de la organización? o, ¿ es posible que esta predeterminación de la actuación militante – tan parecida a la predestinación protestante – esté hoy en condiciones de verse afectada a raíz de los impactos que significan los cambios culturales del presente?. Sin duda que cualquier respuesta afirmativa a este respecto, por muy moderada que ella sea, encontrará las resistencias de las cristalizaciones de poder que ella ha generado en la organización. Me parece que las eventuales respuestas a esto son muy necesarias a la luz de las difíciles situaciones por la ha atravesado la vida partidaria en las últimas décadas y en vistas a su propio futuro.

Desde luego, siendo el núcleo mítico-ético comunista un dato tan relevante para la propia identidad de la organización y para el cumplimiento de su rol en una sociedad y un tiempo que demandan cambios sustanciales en las condiciones de vida de la población, las modificaciones en el mandato sacrificial no pueden suponer su abandono sino su reforma en todo lo que sea pertinente a las actuales circunstancias, reformas que de ser plenamente incorporadas a la institucionalidad y cotidianidad partidistas, serán de enorme valor para su mayor madurez y gravitación social.

Contextualicemos nuestra inquietud trayendo a colación los avatares del mandato sacrificial en la historia del P. Comunista.
Los años anteriores a 1936 – año de creación del Frente Popular – son ricos en la demostración de la dinámica impositiva del mandato sacrificial: luego de un lustro (1922-26) de esfuerzos secularizadores del mismo (recordemos las dificultades experimentadas por el mismo Recabarren en este primer período y su confrontación con quienes consideró como jóvenes advenedizos en la dirección del recién creado Partido), la aparición de Ibáñez y su disciplinamiento estatalista, trajo consigo un cambio de giro en el mandato, apelándose a lo más esencial de la fe revolucionaria mediante las posturas que propiciaban el enfrentamiento de clase contra clase ante, lo que se estimaba, era el inminente colapso del capitalismo mundial. En esta ocasión (hablamos del período de los años 1927 hasta 1934), las pruebas del martirio y el sacrificio corrieron por cuenta de las relegaciones a Más Afuera, las muertes del profesor Anabalón o de Meza Bell, la sublevación de la marinería, en Talcahuano, el episodio de Lonquimay, en el Alto Bío Bío, o la Pascua trágica, de Copiapó.
Acabada la oleada del mandato sacrificial identitario – VII Congreso de la Internacional Comunista mediante – éste volverá a un contenido que favorecerá lo modernizante y lo hará de un modo tan elocuente y avasallador que sus actuaciones no tardaron en generar cuestionamientos entre no pocos militantes (tengamos en mente las críticas al Browderismo y el reemplazo de Contreras Labarca por Ricardo Fonseca, en la Secretaria General). Se trató, en este caso, de la yuxtaposición, dentro del mandato, de una renovada aparición identitaria que no se detuvo aquí pues no faltaron quienes, aprovechando una coyuntura que estimaron adecuada (la persecución anticomunista de González Videla), intentaron un paso más hacia posiciones “genuinamente revolucionarias”, buscando promover un nuevo giro partidario que asumiera el imperativo revolucionario de la clase: nos referimos a Reinoso, Cares, Palma y otros que, como ya sabemos, fracasaron en su propósito fundamental, siendo expulsados de la organización. Fueron contrarrestados a tiempo, al decir de Corvalán, aunque su asomo llevó a corregir con más prontitud las practicas del “derechismo” partidario, buscándose dotar al mandato no solo de un renovado brillo ideológico con los enunciados de la política de la Liberación Nacional, sino también, de un renovado esplendor secular, en los planos de la racionalidad de la ciencia social de la época. En efecto, el mandato, tras el asomo identitarista de Reinoso y los suyos, se vio notablemente favorecido y remozado con la adopción de la matriz teórica del desarrollismo cepaliano, en especial en sus versiones de los años 50 y 60, bastante más radicalizadas que las primeras propuestas de Prebisch de dos décadas antes, y a escasos metros de lo que pronto se conocería como el dependentismo, sin duda, el non plus ultra de la sociología y la economía marxistas latinoamericanas de entonces. Premunido de tal arsenal analítico, el mandato, más pragmático que identitario, arribó a un momento de enorme fortaleza que sintonizaba ampliamente con los tiempos y la militancia así lo asumió: más que nunca parecía que no solo la historia sino también el saber estaban de nuestro lado. Y más importante aun a nuestros propósitos: la afinidad electiva daba un fruto superior: la potente fusión entre sus factores, en tanto la promesa emancipadora estaba a punto de revelarse en un instante definitivo y definitorio: el proyecto de la Unidad Popular, el mismo que, una vez derrotado, modificaría de nuevo el contenido del mandato, determinando un curso histórico que, por sus resultados, pareciera se ha prolongado demasiado. ¿Qué podemos concluir de esta relación?. Probablemente son varias las conclusiones, sin embargo, hay una que me asalta como la más apropiada a las interrogante iniciales, a saber: es la lectura de la realidad mediatizada por los componentes estructurales de la cultura comunista la que determina el mandato. Pero este aserto, a fin de rescatarlo de lo obvio y darle operatividad, debe especificarse: es la lectura mediatizada, sí, pero en tal proceso, para forjar un producto inteligible, una determinada lógica de comprensión de la realidad y asunción de las obligaciones militantes, debe primar uno u otro factor estructural; de no ser así, de no primar ninguno o primar ambos simultáneamente, el mandato se neutraliza o diluye en su carga imperativa. De ahí que, como lo señaláramos en el párrafo anterior, ha habido en el mandato momentos más identitarios y momentos más seculares (o menos identitarios) en la práctica militante, y si ahora debemos responder a la pregunta por las posibilidades de reforma del mandato sacrificial, deberemos buscar una nueva síntesis entre los factores, una nueva afinidad electiva, donde el factor secular o la imagen del hombre, logre primar de manera adecuada al interior de la cultura comunista. Se trataría, entonces, de apelar a los recursos
identitarios a fin de secularizarlos, es decir, interpretarlos desde las circunstancias del presente, aminorando o eliminado sus ropajes icónicos y dogmáticos para que, en diálogo renovado con las dichas circunstancias, se imprima un nuevo sello al mandato.

Las preguntas que dejáramos dichas en páginas anteriores no podrán ser respondidas sino en el largo plazo y en los contextos propios de la vida del comunismo nacional, de suerte que no nos asiste ninguna misión especial al respecto. Cuando más, sólo nos atrevemos a proponer algunos ejercicios de diálogo que, por cierto, serán acogidos únicamente por quienes quieran hacerlo.

Esto lo señalo como método pero también como necesidad concreta ante el distanciamiento que se produjo entre los factores estructurales de esta cultura a partir de los años 80, a raíz de la primacía prácticamente total que expresó el factor inmanente por razones que en su momento, digamos, los 10 primeros años de la dictadura, resultaron del todo justificadas. De esta manera, reiterémoslo otra vez: ¿Cómo avanzar hacia la reforma del mandato y, en consecuencia, hacia su relegitimación a base de una nueva afinidad electiva tomando en cuenta que la realidad de hoy no es la misma de hace 50 años atrás?.

Una propuesta de diálogo es la siguiente: la reflexión sobre el “recabarrenismo”. Recabarren, como padre fundador del movimiento obrero y del PCCh, es una figura, como se diría hoy, “de culto” en la vida militante. Pero ¿ qué es o fue el recabarrenismo?

Se han escuchado últimamente, por ejemplo, en los valiosos trabajos de Rolando Álvarez, aluciones al recabarrenismo, pero ¿ qué es el recabarrenismo?: es sólo un recurso retórico?, ¿ se busca por medio de él valorar determinadas prácticas militantes que se perdieron? ¿ es asambleísmo, es obrerismo? ¿ es antiestatalismo o es, como lo insinúa Gabriel Salazar, una forma de antipartidismo?, etc. Se podrá decir que son todas estas cosas y otras más, con lo cual no creo que avancemos mucho: recabarrenismo así sería una pura e interminable adjetivación, una especie de constante referencia totémica.

Propongamos otra cosa: el recabarrerismo o la actuación pública de Recabarren, fue y bien puede ser rescatado ahora en este sentido, una forma concreta del a priori antropológico que dio cuenta de un cierto comunismo liberal o libertario. Empíricamente, la actuación de Recabaren fue una vastedad de iniciativas organizacionales, asociativas, cooperativas, periodísticas, empresariales, agitativas, electorales, intelectuales, educacionales, artísticas, gremiales, etc., que, siendo impulsadas en colaboraciones diversas, tuvieron el sello del “emprendimiento
particular”, no para el provecho lucrativo de unos pocos, sino para el beneficio de un “nosotros”, llámese este gremio, pueblo, clase o sociedad. Si en algo hemos de concordar con Salazar, es en el hecho que la modernización estatalista de los años 30 en adelante liquidó, en las prácticas políticas y militantes de la izquierda, el sentido más autonómico del emprendimiento de décadas anteriores. En adelante, y esto lo digo yo, este emprendimiento ya no sería comunista liberal o recabarriano, sino paraestatal y corporativo, férreamente controlado y regulado, no siempre por las entidades estatales, sino también por los panópticos partidistas, sindicales o estudiantiles.
No idealizaré la práctica política de la izquierda de antes de la década de los años 30, suponiendo que ella era un dechado de delicias democráticas; ni tampoco voy a satanizar la institucionalización estatalista de la misma, condenando por espurias la actuación de las organizaciones políticas y sindicales del mundo popular, tal como corrientemente se ha hecho en los últimos 20 años por cierta historiografía de izquierda de corte basista y movimientista. Si ahora traigo a discusión al recabarrenismo, es solo para poner en relieve un indicio, un rasgo, o una constatación en calidad de perspectiva y no me interesa si tal recabarrenismo se dio mucho o poco, si se dio siempre o de modo intermitente, o si fue la marca de gestión preponderante de los sectores del trabajo – modernos o tradicionales – de comienzos del siglo XX. Si fue una práctica habitual, bien, ello podría facilitar su reinstalación actual; si, en cambio, fue una forma aislada, bien también, pues, en este caso, debe importar más la calidad que la cantidad, en tanto lo que nos interesa es dar nueva fuerza al ideario emancipador en las condiciones históricas del presente. Creo que las condiciones para replantear un comunismo libertario están siendo cada vez propicias y esto no por un particular aliento interno, sino, como siempre ha ocurrido, por exigencias del contexto y por el total agotamiento del mandato sacrificial de los años 80.

La descolonización y el giro des-colonial

La descolonización y el giro des-colonial1
NELSON MALDONADO-TORRES2
University of California, Berkeley, USA
nmt@berkeley.edu
1 Este artículo es producto de la investigación del autor sobre descolonización y giro des-colonial. Una versión anterior ha sido presentada en la conferencia «Insurgencias Políticas Epistémicas y Giros De-coloniales» en la Universidad Andina Simón Bolívar, Quito, Ecuador, del 17-19 de julio del 2006. Previamente publicado en Comentario Internacional: Revista del Centro Andino de Estudios Internacionales, no. 7 (2006-2007):65-78.
2 Ph.D. in Religious Studies, Brown University. Profesor en el Departamento de Estudios Étnicos en la Universidad de California en Berkeley y Presidente de la Asociación de Filosofía del Caribe.
Tabula Rasa. Bogotá – Colombia, No.9: 61-72, julio-diciembre 2008 ISSN 1794-2489

Intentaré delinear dos asuntos en este trabajo. El primero versa sobre la vigencia actual de la descolonización, y el segundo sobre la idea de un giro des-colonial. Este segundo tema conlleva discusión acerca de la idea de descolonización, cuyo origen se encuentra en el horror ante el «mundo de la muerte» creado por la colonización. Ese escándalo u horror es también el fundamento central de lo que denomino la actitud des-colonial.
Esta actitud es la base principal para una postura ético-política y teórica que plantea nuevas bases para el conocer, lo que denominaremos como razón des-colonial. Tanto la actitud como la razón des-coloniales son partes fundamentales de lo que se presenta aquí como el giro des-colonial, el que plantea la descolonización (y no la modernidad) como proyecto todavía inacabado a nivel global (El tema de la descolonización como proyecto inacabado se discute en Grosfoguel, Maldonado-Torres, y Saldívar, 2005:3-27. Véase también Mignolo, 2003).
I. Vigencia actual del discurso sobre la descolonización
La descolonización ya no es hoy una referencia extraña o una referencia a procesos políticos del pasado. No le debemos esto sólo a la propagación de los estudios poscoloniales en Estados Unidos y América Latina, sino que vemos el termino descolonización usado en referencia a procesos políticos actuales tanto en Estados Unidos con relación a la presencia desafiante de chicana/os, puertorriqueña/os y migrantes de América Latina en el seno de la sociedad estadounidense, y en América Latina, por grupos de afro-descendientes e indígenas tanto en Ecuador, como en Bolivia y Brasil (Ver Grosfoguel, Maldonado-Torres, y David Saldívar, 2005; Walsh, 2005). El tema se va extendiendo a Francia después de las revueltas de argelinos y otros africanos en los suburbios de París, en Alemania, con el esfuerzo de intelectuales alemanes de mostrar otro lado de Europa (tanto la colonizadora como aquella que se benefició con la interacción con África y la presencia negra en Europa), y aun en Rusia donde intelectuales de los antiguos territorios de la Unión Soviética intentan comprender su situación y opciones actuales tras la caída del imperio que los unía.3 Lo mismo puede decirse de sujetos en Cataluña y Palestina, quienes ya han notado paralelismos con poblaciones racializadas fronterizas en los Estados Unidos en el caso de los primeros, y con pueblos indígenas en el caso de los segundos.4 El tema de la descolonización no atañe pues solamente a poblaciones marginadas en las Américas. Es más bien un tema que progresivamente adquiere relevancia mundial pues la colonización se ha vuelto y ya ha sido desde mucho tiempo el modus operandi mismo de la globalización. Pudiera aún decirse que el problema del siglo XXI será en gran parte el problema de la colonización en la forma del empobrecimiento continuo de poblaciones racializadas, de la invasión de sus territorios por parte de un nuevo imperialismo que busca hacer de los mismos piezas claves en el triunfo de la expansión de la lógica del capital en todo el mundo, y de la creación de murallas de contención entre las zonas privilegiadas y el antes llamado Tercer Mundo—tómese el caso de la frontera México/Estados Unidos. Debemos también considerar que la globalización de la cultura estadounidense lleva consigo tanto la propagación del deseo por ciertos patrones de consumo, cierta visión del sujeto sumamente individualista y consumista, así como también, como apunta Lewis Gordon, las distintas fobias racistas que le fueron constitutivas a los Estados Unidos como nación (Gordon, 2000:159). Es decir, la globalización continúa funcionando en parte como expansión de ideales truncados de humanidad y subjetividad, tanto como de poder y conocimiento.
3 Temas relacionados a la descolonización han aparecido recientemente en Francia en discusiones sobre los «indígenas de la república», en Alemania en el Instituto de Estudios Poscoloniales y Transculturales (Institut für Postkoloniale und Transkulturelle Studien, INPUTS) en la Universidad de Bremen, y en Rusia en el trabajo de intelectuales como Madina Tlostanova. Agradezco a Ramón Grosfoguel por ponerme al tanto de la discusión intelectual en Francia luego de las revueltas y a Walter Mignolo por el contacto con INPUTS. 4 Se han tenido discusiones sobre estos temas en los Programas de Estudios Latinos/Chicanos y de Estudios Étnicos Comparados en la Universidad de California, Berkeley. 65 TABULA RASA No.9, julio-diciembre de 2008 Tabula Rasa. Bogotá – Colombia, No.9: 61-72, julio-diciembre 2008 ISSN 1794-2489
La izquierda mundial tiende a entender, sin embargo, la dinámica imperialista como una oposición entre poder hegemónico por un lado y países periféricos por otro, es decir entre un bloque privilegiado y uno explotado, sin notar que el imperialismo también procede a través de la implantación de jerarquías de ser y de valor que dividen al mundo, por un lado entre blancos y sujetos de color en el norte, y entre distintos tipos de mestizos y poblaciones excluidas de proyectos nacionales en el sur. Para pensar la complejidad de la colonialidad vale pensar, tal como Aníbal Quijano ha apuntado, que la llamada «dependencia» no se puede explicar sólo a partir de fuerzas exteriores que se imponen a los países previamente colonizados, sino también a fuerzas interiores que mantienen distintas jerarquías raciales en los países en cuestión (Quijano, 2000, 1997). Son estás jerarquías las que continúan siendo reproducidas tanto en las formas de imperialismo actual como en proyectos de nacionalización basados en la hegemonía blanca o mestiza. Además hay que añadir que entre los racializados mismos también se establecen jerarquías de valor, lo que significa que la «diferencia colonial» (Mignolo) no sólo plantea una división epistémica entre sujetos investidos en el proyecto de colonización y los colonizados, sino también una heterogeneidad colonial jerárquica que se desenvuelve de forma distinta en distintos contextos y momentos históricos.5 El olvido de estas dimensiones lleva a que la crítica al imperialismo tienda a hacer invisible la existencia continua de las fuertes divisiones raciales en el mundo previamente colonizado, y el rol de estas divisiones en mantener el carácter subordinado de tales territorios en la economía mundial. La crítica al imperialismo a menudo tiende también a dejar de lado la dimensión prospectiva y de cambio de proyectos de descolonización. Todo esto hace pensar en un planteamiento de la feminista negra estadounidense Patricia Hill Collins cuando señala que si bien el problema del siglo XX pudo haber sido, tal y como lo reclama el sociólogo afro-americano W.E.B. Du Bois, el problema de la línea-de-color, el problema del siglo XXI será tanto el problema de la afirmación de las jerarquías raciales tradicionales y de su expansión como el de la negación de su existencia por sectores que las plantean como irrelevantes o como ya resueltas.6

Una alternativa a este problema constaría en investigar las formas en que las estructuras de poder modernas y posmodernas continúan produciendo la división entre amos y esclavos de las que habla Frantz Fanon, a la vez que mantiene y propaga divisiones raciales al interior mismo del espacio de los colonizadores como en el de los colonizados.7 Muy ligadas y emparentadas a las divisiones raciales también se encuentran otras formas fundamentales de diferenciación jerárquica como las de género y de sexualidad. Una teoría crítica hoy tendría que iluminar y proveer salidas ante esta realidad compleja. Es este tipo de teoría que mejor respondería a la exigencias de pueblos como el de Bolivia o de sectores en el pueblo chicano y latino en los Estados Unidos, para mencionar sólo a dos grupos que se encuentran o recientemente se han encontrado en primera plana (los latinos después de las marchas más numerosas en la historia de los EEUU a favor de los derechos de migrantes) por plantear desafíos descolonizadores en los que tanto el Estado, como la economía y la educación están envueltos.8 La conciencia sobre la relevancia y urgencia de esta tarea es lo que llamamos hoy el giro des-colonial.
5 Para una discusión de la noción de diferencia colonial véase Mignolo, 2003. Para un desarrollo más amplio del concepto de heterogeneidad colonial véase Maldonado-Torres, 2005.
6 Collins expuso esta idea en un panel dedicado a Du Bois en la reunión anual del 2004 de la Asociación Americana de Sociología llevada a cabo en San Francisco, California. Ver también Du Bois, 1969.
7 La relación amo y esclavo es discutida por Fanon en diálogo crítico con Hegel en el séptimo capítulo de Piel negra, máscaras blancas. Ver Frantz Fanon, 1973.
8 Estas agendas se reflejan en Grosfoguel y Cervantes-Rodríguez, 2002; Walsh, Schiwy, y Castro-Gómez, 2002.Nelson Maldonado-Torres La descolonización y el giro des-colonial 66 Tabula Rasa. Bogotá – Colombia, No.9: 61-72, julio-diciembre 2008 ISSN 1794-2489
II. El giro des-colonial9 Ya estamos acostumbrados en la academia a escuchar distintos tipos de giros. Toménse por ejemplo los giros lingüísticos y pragmáticos en los que tantos posmodernos como neo-kantianos basan su trabajo. Estos giros plantean que ya sea el universo del sentido en general o el de los actos de habla proveen las claves fundamentales para entender las formas en que nuestro mundo, es decir el mundo humano preñado de significado, opera. El giro des-colonial se refiere más bien, en primer lugar, a la percepción de que las formas de poder modernas han producido y ocultado la creación de tecnologías de la muerte que afectan de forma diferencial a distintas comunidades y sujetos. Este también se refiere al reconocimiento de que las formas de poder coloniales son múltiples, y que tanto los conocimientos como la experiencia vivida de los sujetos que más han estado marcados por el proyecto de muerte y deshumanización modernos son altamente relevantes para entender las formas modernas de poder y para proveer alternativas a las mismas. En este sentido, no se trata de una sola gramática de la descolonización, ni de un solo ideal de un mundo descolonizado. El concepto de giro des-colonial en su expresión más básica busca poner en el centro del debate la cuestión de la colonización como componente constitutivo de la modernidad, y la descolonización como un sinnúmero indefinido de estrategias y formas contestatarias que plantean un cambio radical en las formas hegemónicas actuales de poder, ser, y conocer. Un tercer elemento del giro des-colonial trata de una diferenciación entre la idea y el sentir por un lado, y el proyecto de descolonización por otro. La idea de descolonización es tan vieja como la colonización moderna misma. Se trata primeramente no de una idea como tal, sino de un sentimiento y sentido de horror ante el despliegue de las formas coloniales de poder en la modernidad, formas que se encargaron de dividir el mundo entre jerarquías de señorío y distintas formas de esclavitud basadas, ya no en diferencias étnicas o religiosas, sino más propiamente en diferencias presumidamente naturales, esto es, ancladas en la corporalidad misma de sujetos considerados como no enteramente humanos. Nos referimos a lo que se puede considerar como un grito de espanto por parte de un sujeto viviente y donador de sentido ante la aparición del mundo moderno/colonial que plantea la dispensabilidad de ciertos sujetos humanos como elemento constitutivo de su avance civilizatorio y de expansión global. La idea de descolonización también comprende el primer momento del giro des-colonial propiamente hablando. Este se trata de un cambio radical en la actitud del sujeto que confronta o es testigo de la expansión de este mundo de amos y esclavos.
9 Elaboro este tema en Maldonado-Torres, 2006:173-96. En esta sección también recojo, pero a la vez amplío y reviso algunos temas explorados en Maldonado-Torres, 2006b.67
La actitud des-colonial nace cuando el grito de espanto ante el horror de la colonialidad se traduce en una postura crítica ante el mundo de la muerte colonial y en una búsqueda por la afirmación de la vida de aquellos que son más afectados por tal mundo. Estamos hablando pues de una transición del horror a lo que se podría llamar, tomando la pista de la teórica chicana Chela Sandoval, como amor des-colonial (2000). El surgimiento de la actitud des-colonial envuelve pues un estado afectivo que le es fundamental, a la vez que puede considerarse, tal y como lo hace claro el afro-caribeño Frantz Fanon en su Piel negra, máscaras blancas (1973), en principio de un tipo particular de filosofía y producción teórica. Para entender la dimensión filosófica o teórica de la actitud des-colonial valdría la pena consultar recuentos sobre el origen del indagar filosófico. Uno de los clásicos y más influyentes es el recuento del fenomenólogo alemán Edmund Husserl, quien, siguiendo a Aristóteles, apuntaba al «asombro» del filósofo ante el mundo como punto de partida para el pensar filosófico (Husserl, 1981). La filosofía surge así cuando el mundo cotidiano adquiere un carácter no familiar, lo que resulta de una suspensión de las creencias usuales que tenemos acerca del mismo. El «asombro» ocurre pues cuando lo familiar se vuelve extraño, que apunta a limitaciones en el mundo mítico o tradicional de una sociedad en cuestión para entender el mundo. De ahí nace una indagación acerca de la verdad oculta que explica aquello que asombra. El surgimiento de la actitud des-colonial está relacionada de cierta manera pero es distinta de esta actitud filosófica. Distinto a la actitud teórica del filósofo en su concepción tradicional, la actitud des-colonial nace no a partir del «asombro» ante la naturaleza o lo usual, sino a partir del «horror» o espanto ante la muerte. El pensador en este caso no busca meramente hallar la verdad sobre un mundo que se le aparece como extraño, sino determinar los problemas de un mundo que se le aparece como perverso y de hallar las vías posibles para su superación. La búsqueda de la verdad aquí está inspirada no por el desinterés teórico, sino por la no-indiferencia ante el Otro, expresado en la urgencia de contrarrestar el mundo de la muerte y de acabar con la relación naturalizada entre amo y esclavo en todas sus formas.10 La teoría surge en este caso con un telos o finalidad definida: esta es la restauración de lo humano o la construcción del mundo del Tú, tal y como Fanon lo plantea (1973:192). La pregunta del qué y para qué conocer queda respondida aquí en términos de la oposición a la muerte del Otro y la posibilidad de la generosidad y el amor como superación de divisiones jerárquicas naturalizadas. 10 El tema de la no-indiferencia como actitud fundamental ante la diferencia queda planteada en Lévinas, 1974.Nelson Maldonado-Torres La descolonización y el giro des-colonial 68 Tabula Rasa. Bogotá – Colombia, No.9: 61-72, julio-diciembre 2008 ISSN 1794-2489
El cambio de la actitud natural racista o individualista de la modernidad a la actitud des-colonial de cooperación en la ruptura con el mundo de la muerte colonial es el momento más fundamental del giro des-colonial. La descolonización no se puede llevar a cabo sin un cambio en el sujeto. Este asunto está relacionado a lo que otros han denominado como la descolonización de la mente o del imaginario histórico y la memoria (Pérez, 1999; Ngugi, 1986). También está relacionado a una ética y una política de la liberación y al surgimiento de giros subjetivos descolonizadores particulares a distintas comunidades pero con relevancia más allá de ellas, tales como la atitude quilombola o cimarrona sobre las que algunos se encuentran trabajando hoy.11 Tal y como ya se ha planteado, el giro des-colonial en términos de un cambio de actitud fundamental en el sujeto que confronta o es testigo radical del colonialismo en alguna de sus formas es quizás tan viejo como el mundo colonial mismo. Este ha inspirado distintos proyectos des-coloniales en distintos momentos de la modernidad. No fue, sin embargo, hasta entrado el siglo XX que estos proyectos des-coloniales empezaron a encontrarse entre sí y llegaron a crear una conciencia global sobre la relevancia del proyecto inacabado de la descolonización. Aquí podemos listar como actores principales al movimiento pan-africanista y a las distintas gestas explícitas de descolonización por parte de indígenas en las Américas, africanos, asiáticos e inclusive algunos mestizos en los siglos XIX y XX. Esto muestra que si bien es cierto que no hay cambio des-colonial del mundo sin cambio en la actitud de sujetos, es a la vez cierto que cambios en el mundo abren nuevas posibilidades en términos de conocimiento y actitud. Cambios en el tiempo o en el espacio pueden facilitar o truncar las posibilidades en la toma de conciencia des-colonial y del proyecto mismo de descolonización.
11 Sobre filosofía y ética de la liberación ver Enrique Dussel, 1998. Con respecto a otros giros descolonizadores me refiero específicamente aquí al trabajo intelectual y activismo de los jóvenes afro-brasileiros del grupo Atitude Quilombola, y a Edison León, quién bajo la tutela y enseñanza del honorable maestro Juan García, se encuentra explorando los recursos des-coloniales de las comunidades cimarronas en América Latina.
Un incidente de gran escala que facilitó la propagación de la noción de un proyecto inacabado de descolonización a ser forjado por todos aquellos a nivel global que se oponen a la colonialidad en todas sus formas fue el decaimiento de Europa en la Segunda Guerra Mundial. Europa por mucho tiempo representó el lugar privilegiado de producción de modelos de convivencia y de control de la naturaleza que más afín eran al progreso humano. Por eso durante las revoluciones de independencia de los siglos XVIII y XIX en las Américas, las nuevas naciones rechazaban la hegemonía de un poder europeo, por ejemplo el español o portugués, pero sólo para seguir el modelo provisto por otro país europeo—siendo Francia el más notable. El siglo XIX se destacó así por distintas posturas de anti-imperialismo eurocéntrico. Se rechazaba la empresa imperial europea para justificar una empresa nacional o imperial local todavía inspirada por ideales de nación o imperio formulados en Europa que todavía continuaban la colonialidad del poder en distintas formas. Algo distinto ocurrió en al menos algunos de los procesos de independencia en el siglo XX después de la Segunda Guerra Mundial. En ese momento Europa completa fue desprestigiada, y distintas comunidades alrededor del mundo ya perdían su fascinación con la misma. El intelectual, poeta, y político martiniquense Aimé Césaire (2006) lo expresó de forma sucinta: «Europa es indefendible» (cursivas en el original). En el momento que escribe, ya no era posible para sujetos como él rechazar una parte de Europa para reclamar otra. Europa entera y su proyecto civilizatorio estaban en cuestión. La situación era distinta tanto existencial como intelectualmente con relación a las revoluciones anti-imperialistas anteriores. Ya no podía confiarse en modelos hegemónicos del pasado, sino que había que construir nuevos modelos o poner en función previos modelos no totalmente europeos de convivencia e interacción con la naturaleza.

En su juicio sobre Europa, Césaire respondía a posiciones que intentaban justificar el colonialismo y por tanto oponerse a los nuevos procesos de descolonización en el siglo veinte haciendo uso de una supuesta conexión entre colonización y civilización. Se planteaba que la gesta colonial le había al menos traído la civilización a los colonizados, que les había llevado la «luz» de la civilización y los había sacado de las tinieblas del primitivismo—aunque, añadiríamos hoy, los conduciera a la realidad patética de la pobreza extrema y el subdesarrollo. Por tanto, con toda su rabia los colonizados también deberían estar agradecidos y respetar a aquellos que les trajeron la civilización. La respuesta de Césaire no pudo ser más visceral. Primero advierte la hipocresía del colonizador en su último intento por mentirle al colonizado.
Y como hoy se me pide que hable de la colonización y de la civilización, vayamos al fondo de la mentira principal a partir de la cual proliferan todas las demás.
¿Colonización y civilización?
La maldición más común en este asunto es ser la víctima de buena fe de una hipocresía colectiva, hábil en plantear mal los problemas para legitimar mejor las odiosas soluciones que se les ofrecen.
Eso significa que lo esencial aquí es ver claro y pensar claro, entender atrevidamente, responder claro a la inocente pregunta inicial: ¿qué es, en su principio, la colonización? (Césaire, 2006:16).
Césaire plantea de forma resumida aquí nuevas dimensiones de la actitud des-colonial en el momento histórico global del giro des-colonial. Se trata para Césaire de «ver claro» y de «entender atrevidamente», posturas que se plantean como antídotos a una hipocresía colectiva que insiste en darle continuidad al mundo colonizado de la muerte. El Discurso sobre el colonialismo de Césaire se presenta, tal y como he argumentado en otro lugar, como un nuevo «discurso del método» para el buen razonar (Descartes) tras el fracaso europeo (Maldonado-Torres, 2006). Se trata de la articulación precisa de la razón des-colonial cuya finalidad primordial no es solamente el cambio en métodos de conocimiento, sino también el cambio social. Me limitaré aquí a comentar sobre esta forma de razón y dejaré para otra ocasión la articulación de otros dos tipos de razones: la razón imperial y la razón colonial—una tiene que ver con la producción de la «mentira» e hipocresía imperial y la otra con formas de conocer e investigar que sucumben ante o son seducidas por las mismas. Se puede matar en Indochina, torturar en Madagascar, encarcelar en el Africa negra, causar estragos en las Antillas. Los colonizados saben que, en lo sucesivo, poseen una ventaja sobre los colonialistas. Saben que sus «amos» provisionales mienten (Césaire, 2006:13).
Tal y como la propone Césaire, la razón des-colonial puede vincularse a la percepción como mentirosos que los esclavos racializados han tenido de sus amos moderno/coloniales, pero que ahora ante la caída moral y espiritual de Europa, se hace más evidente:El giro-descolonial se refiere pues al momento cuando la sospecha del esclavo queda ratificada y altera la conciencia del esclavo de forma global. A la razón del colonizador investida de mentira, se opone en este caso una razón des-colonizadora (razón des-colonial) que se opone a la mentira y la hipocresía moderna/colonial. Es a partir de esta forma de razón que Césaire hace sus planteamientos y juicios, el primero de los cuales es que «la distancia de la colonización a la civilización es infinita, que de todas las expediciones coloniales acumuladas, de todos los estatutos coloniales elaborados, de todas las circulares ministeriales expedidas, no se podría rescatar un solo valor humano» (Césaire, 2006:14). Luego Césaire plantea que la colonización no sólo no civiliza al colonizado sino que desciviliza al colonizador. Es a partir de esta idea que Césaire plantea una relación íntima entre el colonialismo y el surgimiento del fascismo nazista en Europa. A los campos de concentración le preceden las colonias. El salvajismo de la colonización le regresa como boomerang al colonizador. De aquí que se planteen tareas descolonizadoras no sólo para el colonizado, sino también para el colonizador. La última oportunidad que tiene Europa consiste para Césaire no tanto en crear una Unión Europea, sino en unirse a los procesos de descolonización en el mundo, que son múltiples y diversos (Césaire, 2006:43). Con esto volvemos a los temas tocados en la primera parte donde se discute la vigencia actual de discursos sobre la descolonización. A eso le tendríamos que ahora añadir la relevancia actual de la actitud y la razón des-colonial. En conclusión, el giro des-colonial se trata pues de una revolución en la forma en que variados sujetos colonizados percibían su realidad y sus posibilidades tras la caída de Europa en la Segunda Guerra Mundial. Ya las bases del giro des-colonial estaban planteadas de antemano en el trabajo de intelectuales racializados, en tradiciones orales, en historias, canciones, etc., pero, gracias a eventos históricos particulares, se globaliza a mitad del siglo XX. De ahí en adelante puede decirse que se planteó un giro, ya no sólo al nivel de la actitud de sujetos o de comunidades específicas, sino al nivel del pensamiento mundial. El tema de la descolonización adquirió vigencia para distintos grupos que ahora se veían más seriamente entre sí, en vez de buscar en Europa las claves únicas para elaborar su futuro. El giro-descolonial que hace ver la descolonización como proyecto
inacabado a nivel mundial está acompañado de giros des-coloniales en distintas partes con características locales pero en relación y diálogo con otros tales giros. Me parece que es esta la tarea a profundizar en nuestros días, más aún cuando escuchamos gritos de revoluciones culturales que promueven precisamente la descolonización, e.g., Bolivia. Sujetos normativos en América Latina, es decir, comunidades mestizas, pero también otros sujetos comprometidos con visiones nacionales tradicionales, incluyendo a negros e indígenas mismos, han estado anclados en los anti-imperialismos eurocentristas o neo-coloniales de los siglos XIX y XX. ¿Podremos todos juntos entrar en el proyecto variado y múltiple de la descolonización? ¿Y en qué consistiría tal proyecto hoy? Me parece que ese es el reto que tenemos hoy ante nosotros.
Referencias
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